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Autore: SaraJoie    10/09/2015    0 recensioni
Gabriel Hayes è un giovane come tanti, conduce una vita perfettamente normale in una piccola e tranquilla cittadina. Le uniche note stonate nella sua vita sono la morte tragica e prematura del fratello maggiore, e il complicato rapporto con la nonna, autrice pluripremiata di favole per bambini. Ma qualcosa sta per cambiare.Una serie di strani e misteriosi eventi, sembrano volergli ricordare che nella sua vita non c'è proprio niente di normale...
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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-...Così la piccola Cecily strisciò sotto la staccionata verde del giardino, e si inoltrò nella foresta. Il silenzio del bosco era rotto solo dal pigolio degli uccelli, c’erano foglie e rami ovunque, che non permettevano di vedere a un palmo dal proprio naso. E poi, i grossi tronchi degli alberi si aprirono su una piccola radura, al centro del quale vi erano solo le radici di un vecchio albero .Posato sul ciocco vi era un lucido bicchiere di cristallo , pieno di un liquido violetto. Cosa ci fa un così bel bicchiere nella foresta? Pensò Cecily. Aveva una gran sete e intorno non si vedeva proprio nessuno. Senza pensarci, bevve dal bicchiere, fino all’ultima goccia. E all’improvviso apparve una bellissima fata. I suoi occhi lucciavano come pietre preziose, e nella mano destra reggeva una lunga bacchetta nodosa. Bambina mia , disse la fata, quella che hai bevuto era succo fatato! Colui che mangia o beve il cibo delle fate, potrà vedere a parlare col mio popolo per sempre. E questo è il tuo destino.-

 

 Da: “Le Avventure di Cecily D.”

Di Cecily Dashwood

 
-Avete qualche libro di Cecily Dashwood?-
-Figliolo, abbiamo una parete intera dedicata a lei! Lì in fondo nel corridoio C.- rispose la bibliotecaria, guardandolo con le sopracciglia sollevate in un espressione sorpresa. Detto questo inforcò di nuovo gli orridi occhiali a farfalla tempestati da pietre di platica colorata, e tornò concentrarsi sullo schermo del computer. Era stata una domanda sciocca in effetti, ammise Gabriel. Si diresse verso il corridoio C, dopo aver sussurrato appena una grazie. La biblioteca di Porthale era un edificio molto piccolo, una manciata di scaffali disposti intorno a uno spazio circolare, in cui erano sistemati pochi tavoli sempre vuoti. Gli abitanti di Rentwood di solito erano molto poco interessanti alla lettura, sembravano ricordarsi dell’esistenza dei libri solo quando potevano pavoneggiarsi con i turisti (circa due o tre volte all’anno) di avere come concittadina una famosa scrittrice.  “Il Silenzio è D’Oro” recitava un grosso cartello attaccato al muro. Le suole della scarpe da ginnastica di Gabriel stridevano sul pavimento lucido, rimbombando in quel silenzio tombale. Ma fortunatamente i tavoli erano vuoti, e non c’era nessuno da disturbare. Gabriel posò lo zaino di scuola carico di libri su una sedia, cercando con lo sguardo il cartello “corridoio C”. Sentì qualcosa vibrargli in tasca. Era il suo cellulare, che squillava ininterrottamente ormai da qualche minuto. Sullo schermo illuminato comparve una foto di Melanie, con una margherita ferma dietro l’orecchio.Se l’era scelta sola quella foto. Cacciò il telefono in tasca, non aveva voglia di parlare con nessuno. Non era proprio da lui sparire in quel modo, ma quello era un giorno strano dopotutto. Trovò finalmente il famoso scaffale, e comprese a pieno lo scetticismo della segretaria. Ogni ripiano era occupato da varie copie dei libri di sua nonna, e al centro del corridoio c’era addirittura una sagoma di cartone, con una grossa freccia e la faccia sorridente di Cecily stampata sopra. In una teca di plastica faceva bella mostra una foto della scrittrice risalente a molti anni prima. Era in bianco e nero, ritraeva la nonna da giovane, con i capelli ancora castani, intenta a scrivere con un elegante stilografica nera. La foto era corredata di una piccola biografia, che ricordava che Rentwood non era solo la cittadina che aveva dato i natali alla famosa scrittrice, ma era anche il luogo in cui viveva attualmente. Sempre nella vecchia casa col giardino, che aveva ispirato tutti i suoi racconti. Gabriel fece vagare lo sguardo da uno scaffale all’altro, fino a quando una copertina familiare attirò la sua attenzione. I libri della nonna erano inconfondibili, rivestiti da copertine di finta pelle, dai colori brillanti e vivaci. Gabriel ne afferrò uno verde smeraldo, e dopo aver vagato con lo sguardo sullo scaffale ne prese un secondo. Questo si intitolava “Cecily Dashwood. La mamma delle fate”, e aveva una normale copertina di plastica color azzurro cielo. Era l’unica biografia autorizzata dalla scrittrice, uscita poco prima che Gabriel nascesse. Il ragazzo raggiunse il tavolo, e cominciò a sfogliare i libri con attenzione. Da piccoli avevano in casa una collezione di tutti i libri della nonna, erano messi in unico scaffale in salotto...prima che la mamma li buttasse via. Gabriel osservò la copertina del libro verde, che recava scritto a lettere dorate “Le avventure di Cecily D.”. Tutta la serie si chiamava così. Aprì il libro.
A Jonathan.
Adesso balla in cerchio con gli elfi, indossando corone di fiori. Vivi felice nel loro regno, amore mio.
Recitava la dedica scritta sulla prima pagina. Sapeva che sua nonna aveva fatto ritirare tutte le copie precedenti di quel volume, la nuova edizione aveva questa dedica speciale...e una fiaba in meno tra le sue pagine. Gabriel scorse velocemente l’indice, e, come aveva intuito, notò che non c'era traccia del racconto -I folletti del fiume-. Sfogliò le pagine, soffermandosi sui titoli e sui disegni che stuzzicavano la sua memoria. Cecily Dashwood era la scrittrice per bambini più famosa degli Stati Uniti. Aveva stregato tutti i bambini del paese con le sue storie, popolate da fate, elfi, folletti, alberi stregati. “Le avventure di Cecily D.” era una collana di racconti divisi in venti volumi, la cui protagonista non era altro che la scrittrice stessa. Tutti i i libri si fondavano su un unico artifizio letterario: le avventura di una bambina e delle creature fantastiche che aveva incontrato nel suo giardino incantato, e nella foresta adiacente. La nonna non aveva mai scritto nient’altro. Quando i giornalisti le chiedevano perchè non avesse mai pensato di cambiare genere, rispondeva sempre che lei sapeva scrivere solo ciò che vedeva davvero. E aveva visto solo le fate per tutta la vita. Gabriel ossevò ancora una volta la foto di sua nonna sulla quarta di copertina. I ricordi della sua infanzia erano tutti popolati dal suo viso. La nonna lo faceva sedere in giardino, sulle sue ginocchia, passandogli le dita fra i morbidi ricci. Con la sua voce calda e dolce raccontava fiabe bellissime, in cui fate vestite di fiori venivano salvate da guerrieri elfici con armature fatte di rami. Ogni storia era ambientata lì nel giardino della villa, o nella foresta che si scorgeva oltre la staccionata. La nonna diceva sempre che chi raccontava delle storie sul bordo della foresta richiamava le fate e i folletti. Erano degli esserini vanesi, e adoravano sentir parlare di loro.
-Guarda Gabriel! Lì, tra quei fili d'erba! Una fata ci sta guardando!- esclamava nel bel mezzo di una storia. Il bambino aguzzava la vista, e si dimenava sulle ginocchia della nonna. E la cosa bella era che Gabriel ricordava davvero di vedere le fate. Per anni era stato convinto di aver scorto un piccolo elfo sul ramo del vecchio faggio, che con le gambe a penzoloni e il mento tra le mani, ascoltava le storie della nonna. -È un folletto volpino-, diceva la nonna. Aveva i capelli rossi, il nasino nero come una bestiola, e tra le gambe pendeva una morbida coda arancione. Gabriel aveva mandato versi di gioia, e sulle sue gambette corte aveva corso verso l'albero...ma il folletto si era volatilizzato. La nonna gli era corsa dietro urlando il suo nome. Si era inginocchiata di fronte a lui, lo aveva guardato dritto negli occhi, e gli aveva detto di non avvicinarsi mai alle creature della foresta. Le fate sono esseri capricciosi , diceva, potrebbero rapirti e portarti nelle loro case di rami e foglie, e allora non faresti mai più ritorno. Le fate non restituiscono mai le cose rubate. Già allora i rapporti tra la nonna e la mamma non erano dei migliori. Magda era molto diversa da sua madre. Pur essendo cresciuta con le sue fiabe, odiava ogni tipo di fantasticheria. Era una donna pratica, con i piedi per terra, e guardava con preoccupazione all'amore dei suoi figli per le storie della nonna. Jonathan e Gabriel tornavano a casa ripetendo parola per parola le sue fiabe, raccontavano storie assurde e dicevano di aver visto le fate in giardino. Soprattutto Gabriel. Era convinto che esistessero davvero. Magda non riusciva a darsi pace, aveva il terrore che quelle storie avrebbero rincitrullito i suoi figli, facendoli distaccare troppo dalla realtà. Non era raro vedere Cecily e Magda litigare per questo. - Un giorno faranno qualcosa di pericoloso! Si butteranno dalla finestra, credendo di poter volare!- E poi, era accaduto. Un pomeriggio Gabriel si era tuffato nello stagno, convinto di poter acciuffare i folletti che vi abitavano. Jonathan si era buttato in acqua a sua volta, sicuramente per salvare il suo sciocco fratellino.Non uscì vivo da quell’acqua.O almeno questo era quello che la polizia era riuscita a ricostruire  dal racconto confuso di un bambino di sei anni. Gabriel ricordava di essersi tuffato, di essere andato con la testa sott’acqua, e poi più nulla. -I folletti mi hanno spinto giù- aveva continuato a ripetere alla polizia e ai suoi genitori, ma nessuno lo aveva naturalmente creduto su questo punto. Il piccolo Jonathan era stato ritrovato in acqua a faccia in giù, a galleggiare come una foglia di ninfea. Mentre Gabriel era rimasto svenuto sulla riva, con i vestiti tutti inzuppati.
Da quel momento in poi ogni rapporto tra Cecily e la sua unica figlia era stato interrotto. Cecily ,vedova da anni, si era rinchiusa nella sua bella villa col giardino.Continuava a scrivere storie, ed erano tutte dedicate a Jonathan. E poi era arrivata Diana...nemmeno loro sapevano precisamente come. La baracca in cui viveva Amanda Forrest si trovava poco lontano da Villa Dashwood. Quando era troppo ubriaca se la prendeva con la figlia, gridando che l’avrebbe ammazzata di botte. La piccola Diana si era rifugiata spesso a casa di Cecily, sua nonna aveva sempre avuto il cuore tenero. La faceva entrare offrendole latte e biscotti, e raccontandole delle storie. Col passare degli anni Diana era cresciuta, e raggiunta la maggiore età aveva lasciato casa sua, e si era trasferita definitivamente dalla nonna. Erano due donne sole, in un modo o nell’altro. Quando i genitori di Gabriel credevano di non essere ascoltati, il ragazzo aveva sentito sua madre lamentarsi della cosa. Diana Forrest era un’approfittatrice, come sua madre. Si faceva mantenere, nell’attesa di poter sperperare alla morte della vecchia tutto il patrimonio. Gabriel non aveva mai scambiato una sola parola con lei, apparte quella mattina. Non si era mai fatto un’opinione precisa su quella strana ragazza. Ripensò a quello che era successo poche ora prima, alle parole familiari che si erano scambiate, alla preoccupazione nello sguardo della ragazza quando sua nonna era entrata arrancando col suo bastone. No, era semplicemente una ragazza sola. E sicuramente si prendeva cura di sua nonna, al contrario di tutti loro. Gabriel prese in mano la biografia, leggendo qualche frase quà e là. Non scoprì nulla di nuovo. La vecchia Cecily trascorreva una vita tranquilla, vivendo delle generose rendite dei propri racconti. Possedeva in casa un arco di legno che diceva di aver rubato alle fate, quello era il pezzo forte che faceva impazzire i giornalisti. Non una pagina faceva cenno al suo stato di salute. Il nome di Cecily in casa sua era diventata una parola tabù, quando lui o Effy lo pronunciavano sua madre faceva puntualmente cadere qualcosa per terra. Sua sorella diceva di non aver nessun ricordo di sua nonna, ma per Gabriel non era così. Ricordava sempre le sue mani morbide che gli accarezzavano i capelli, o quando posava il viso sul suo collo profumato. Quando era bambino gli permetteva anche di guardarla mentre scriveva. Lui se ne stava buono e zitto in un angolino a mangiucchiare biscotti, mentre la nonna riempiva fogli e fogli con la sua vecchia stilografica. Non si era mai convertita alla scrittura a macchina. E ora era malata. I suoi genitori non lo sapevano, o peggio, erano indifferenti alla cosa. E se non ci fosse stata Diana con lei? Che fine avrebbe fatto? Come potevano dare a Diana della furfante, se erano stati loro stessi a lasciare una povera donna, anziana e sola, senza aiuto? Gabriel chiuse il libro con rabbia. Tutti non facevano altro che ripetergli che era un bravo ragazzo, una persona buona. Eppure oggi aveva voltato le spalle a un donna anziana e malata, senza nemmeno guardarla negli occhi. E i suoi genitori? Era più probabile che conoscessero le condizioni di sua nonna. Il pensiero che potesse essere così lo fece imbestialire ancora di più. Sua madre aveva scaricato tuttti i suoi sensi di colpa su quella donna, ed era una cosa ingiusta, considerato che in fin dei conti era solo colpa sua se Jonathan si era buttato nel fiume. Era lui quello da biasimare e da escludere, prendersela con una vecchia era solo la strada più facile per sfuggire alle proprie colpe. Cosa avrebbe fatto suo fratello al suo posto?
 
Gabriel ritornò a casa dopo molte ore. Aveva trascorso il resto della giornata nel piccolo campo da basket, a fare qualche tiro. Andava sempre lì quando aveva bisogno di pensare. Erano le sei passate quando aprì con una spalla la porta di casa. Teneva la giacca della divisa sotto braccio, tutta appollotolata a stropicciata. La camicia non era in condizioni migliori.Era zuppa di sudore, con la maniche arrotolate fino ai gomiti.Appena mise piede nell’ingresso scorse il cappotto verde di Melanie appeso all’attaccapanni. Sentì stringersi lo stomaco per il senso di colpa. Non l’aveva nemmeno richiamata, si era comportato davvero male. Posò lo zaino per terra, e si asciugò il sudore che gli colava dalla fronte col dorso della mano. Non poteva evitare la sua famiglia per sempre. Erano tutti seduti sul divano in salotto, lo sapeva. Si erano zittiti quando avevano sentito il suono della chiave che girava nella toppa.
-Gabriel?- chiese sua madre dal salotto. Il ragazzo entrò. Come aveva previsto anche Melanie era lì, si alzò dal divano e si precipitò verso di lui. I capelli rossi erano sciolti, non indossava più la divisa. Si avvicinò a lui incrociando le bracci al petto. Era arrabbiata, lo sapeva, glielo diceva quella ruga che le si formava sulla fronte.
-Mel, mi dispiace.- disse posandogli un braccio intorno alle spalle. Ma come gli era venuto in mente di sparire così? La sua ragazza continuava a guardarlo con quell’espressione corrucciata. Si scostò da lui.
-Perchè non hai risposto al telefono?!- esclamò con la voce incrinata dalla rabbia. -Eravamo tutti preoccupati!-
-Hai preso la macchina senza dire niente a nessuno, e hai saltato la scuola!- tuonò suo padre. Era seduto sul divano insieme alla mamma, che lo guardava arrabbiata a sua volta.
-Ho accompagnato Diana Forrest in ospedale...e poi sono stato al campo da basket- rispose lui semplicemente. Se sapeva di aver sbagliato con Melanie, non poteva dire lo stesso dei suoi genitori. Il solo vederli lì tranquilli seduti sul divano lo fece infuriare. I suoi genitori non sembrarono sorpresi, Mel doveva avergli raccontato tutto.
-Gabriel.- esclamò sua madre con tutta l’indignazione possibile. -Non è una scusa! Anzi saperti in giro, con quella...quella..-
-Ho visto la nonna, oggi.- la interruppe con una punta di freddezza. I suoi genitori rimasero di sasso. Melanie spalancò gli occhi sorpresa. Bingo.
 - Quando avevate intenzione di dirmi che ha un aneurisma, e che potrebbe morire da un momento all’altro?-
Magda boccheggiò incapace di parlare. Lo sapevano quindi. Gabriel sentì la rabbia montargli nel petto.
-Sarà meglio che vada...- disse Melanie, guardandosi intorno in cerca della borsa. Gabriel l’afferrò per un braccio.
-Non è necessario.- disse gelido, -noi siamo di sopra...buonanotte.- La trascinò in corrido, e la condusse verso camera sua, lasciando i suoi genitori ancora sbigottiti. Le passò un braccio intorno alle spalle, e lei lo lasciò fare. Non era più arrabbiata.
Gabriel e Melanie non stavano mai in camera sua da soli, a parte quando dovevano studiare. Al massimo  guardavano la tv in salotto. Entrambi trovavano poco rispettoso fare altro, ma quella sera Gabriel decise di fregarsene. Si sedettero sul letto, e Gabriel le raccontò quello che gli era successo. Tralasciò alcuni particolari, riservando a Diana un ruolo marginale. Non riusciva proprio a trovare innocente il modo in cui l’aveva fissata mentre dormiva.
-Capisco Gab. È normale che tu ti senta così, è pur sempre tua nonna! ma...non devi prendertela con i tuoi genitori. Se è malata non è certo per colpa loro.- disse Melanie, era rannicchiata contro il suo petto, le scarpe abbandonate sul tappeto. Si erano messi sul letto, avevano acceso lo stereo mantenendolo a volume basso.
-Non lo so- disse lui, accarezzandole la spalla. -Lasciarla in quella casa, da sola.-
-Hanno avuto delle divergenze, è normale che non si siano più interessati l’una all’altra!-
-Bè sai cosa ti dico, che queste divergenze sono solo una bella stronzata!- rispose lui, scontandosi di colpo dalla ragazza. -Con tutto quello che è successo la nonna non c’entra proprio niente- continuò tormentandosi un ricciolo castano che gli era finito davanti agli occhi, -Se Jonathan è caduto nello stagno la colpa è solo...-
Melanie lo abbracciò da dietro, impedendogli di proseguire. Gli strofinò il viso contro la nuca.
-Non dirlo nemmeno scherzo, Gab. Tu non c’entri proprio niente. Semplicemente, non è colpa di nessuno.-
Gabriel voltò si voltò verso di lei, e gli prese il viso tra le mani. Si baciarono intensamente per qualche secondo.
-Gabriel.- sussurrò lei staccandosi un attimo da lui, e fissandolo con i suoi occhioni verdi.  -La prossima volta voglio che mi chiami, subito. Io e te parliamo sempre di tutto!-
-Hai ragione, Mel! Scusami. È che oggi avevo bisogno di stare da solo... avevo troppi pensieri- rispose lui in un sussurro, accarezzandole i capelli. Lei si accoccolò ancor di più contro di lui.
-Sei perdonato- disse dandogli uno buffetto sul naso. Ricominiciarono a baciarsi, sempre più appassionatamente. Gabriel le mise  una mano dietro il collo, e un’altra alla base della schiena. La mano scivolò sulla pelle nuda di lei sotto la maglietta, profumava di shampoo alla vaniglia. I capelli di Diana profumavano di fiori. Cercò di scacciare quel pensiero dalla testa. La baciò sempre più appassionatamente, facendo salire la mano sempre più su, fino a toccare il gancetto del reggiseno con la punta delle dita.
-Ehi, sta’ buono.-disse lei, con le gote tinte da un timido rossore. - Ci sono i tuoi di sotto. E poi lo sai che non voglio...-
-Hai ragione, scusami.- rispose lui pacato, rimettendo la mani al suo posto.
-Ti amo, Gab.- disse lei contro il suo petto.
-Anche io.-
 
 
Gabriel si trovava nel bosco di Rentwood. Non che ci avesse mai realmente messo piede, ma lui sapeva si essere lì. In quale altro posto della sua città si potevano trovare alberi altissimi che sembravano solleticare il cielo? Anzi, erano così fitti che i rami verdi nascondevano anche la più piccola traccia di azzurro. Indossava il suo solito pigiama blu, ma era a piedi nudi. Per essere un sogno era fin troppo reale. Poteva sentire il terriccio solleticargli i piedi, e l’odore di muschio invadergli le narici. Una leggera brezza gli scompigliava i ricci, ma da dove proveniva quel vento, se intorno a sè riusciva a vedere solo alberi e foglie? Una nebbia fumosa permeava ogni cosa intorno a lui.
-Ti ricordi di me?- . Una figura era apparsa a un tratto davanti ai suoi occhi. Prima non c’era, ne era sicuro. Era apparsa all’improvviso, nello spazio di tempo di un battito di ciglia. Gabriel sentì un brivido percorrergli la schiena. Era una figura femminile, esile e bellissima. Suscitava paura. Era nuda, ma era difficile scorgere qualcosa, perché ogni lembo di pelle era ricoperto da una crosta di pietre luccicanti. L’unica cosa che aveva la parvenza di un vestito era il mantello bianco, di una stoffa impalpabile simile al vento. Aveva capelli lunghissimi e aggrovigliati che le scendavano fino alla vita, rosso scuro come il sangue. Ma la cosa realmente inquietante erano gli occhi. Non si distinguevano iride o pupilla, non erano occhi in realtà. Erano  pietre preziose, due cristalli fucsia imprigionati tra le palpebre. Quelle due pietre luccicanti erano prive d’espressione. Sembrava il viso di una statua. E poi di nuovo gli occhi gialli.
 
Quella volta Gabriel ebbe l’accortezza di non urlare. Si limitò a sollevarsi di scatto, spalancando gli occhi. Il cuore batteva contro la cassa toracica, rimbombandogli nelle orecchie. Si portò le mani al petto cercando di fermarlo. Un altro incubo. Si strinse le ginocchia tra le mani, posandovi la fronte in cerca di conforto. Le coperte caddero abbandonate ai piedi del letto. Che diavolo mi succede? Era tutta colpa di quegli stupidi libri, maledì se stesso e il giorno in cui aveva deciso di andare in biblioteca. Sapeva benissimo cosa aveva sognato. Tra le immagini contenute nella biografia della nonna, c’era la fotografia di un vecchissimo disegno: La Fata Emeraude. Disegnata da Cecily Dashwood all’età di sei anni. Emeraude era l’essere fatato che la piccola Cecily aveva incontrato la prima volta che si era addentrata nella foresta, passando sotto la rete del giardino.  Era la prima creatura a comparire nei suoi racconti. La fata madrina che le aveva spiegato che da quel momento, per tutta la vita, avrebbe avuto la facoltà di vedere e sentire il Piccolo Popolo. La fata, infatti, faceva la sua comparsa esattamente dopo che Cecily aveva bevuto l’ultima goccia di una calice fatato- trovato posato su un vecchio ciocco di legno, proprio al centro di una piccola radura- nella fiaba che fungeva da prologo alla raccolta. James Avoy, l’illustratore ufficiale, aveva dato a Emeraude un volto rassicurante e bonario. L’aveva vestita con abiti bianchi e vaporosi, le guance piene e il sorriso materno, gli occhi -splendenti come pietre preziose- erano solo due normalissimi occhi, solo particolarmente brillanti. La fata reggeva in mano una lunga bacchetta sormontata da una stella a cinque punte. Eppure, l’illustrazione dei libri era ben diversa dallo scarabocchio che la piccola Cecily aveva disegnato anni e anni prima, quando era rientrata a casa tutta entusiasta, raccontando delle fate che popolavano il suo giardino. La figura che Cecily aveva riportato su carta- sproporzionata, con i tratti tortuosi, e i colori fuori da bordi- raffigurava qualcosa di ben diverso: una donna seminuda coperta di cristalli, con un lungo e nodoso bastone in mano. Con una matita fucsia la bambina aveva tracciato dei cerchi colorati al posto degli occhi. Due cristalli rosa, imprigionati tra le palpebre. Stupida immaginazione. Chi l’avrebbe mai detto che un libro per bambini potesse suscitare degli incubi? Un soffio di vento che spirava alle sue spalle riportò Gabriel alla realtà. C’era decisamente troppa aria nella sua stanza. Una voce gracchiante e fastidiosa continuava a parlare in sottofondo. Finalmente si svegliò del tutto e si guardò intorno. La finestra era aperta. Strano, la chiudeva sempre prima di andare a dormire. Piano piano il torpore del sonno svanì, e il ragazzo si rese conto da dove provenisse quella voce. La sveglia era riversa sul comodino, come se qualcuno l’avesse buttata lì con violenza. Non c’erano i soliti numeri rossi a illuminare il display, sullo schermo lampeggiavano solo quattro zeri. Il vento che entrava dalla finestra stava facendo danzare in aria numerose pagine bianche provenienti probabilmente dai suoi quaderni.
-Sono a casa della nonna. Sono a casa della nonna. Sono a casa della nonna- continuava a ripetere la voce impostata della sveglia. Gabriel la fissò con la bocca spalancata, incapace di interpretare quello che stava realmente accadendo.
-Sono a casa della nonna- scandì ancora quella voce orribile, con le stessa indifferenza con cui diceva ogni mattino “Sveglia! Sono le sette”.
Gabriel afferrò la sveglia con violenza, facendo rotolare per terra la piccola lampada e tutto quelle che era rimasto sul comodino.Cominciò a pigiare i tasti, nel tentativo di far tacere quell’orribile aggeggio.
-Gesù, sta’ ZITTA- sibillò a denti stretti continuando a tormentare i pulsanti. Sono a casa della nonna. Scaraventò la sveglia contro il muro.
-...della nonna- disse la voce ormai distorta. Era andata in frantumi. Pezzi di plastica nera e frammenti dello schermo erano sparsi per terra. La sveglia esalò l’ultimo respiro e tacque. Gabriel non riusciva a ragionare. Sentiva il cuore battergli nelle orecchie, non riusciva a calmare il suo respiro. Scese dal letto, affrettandosi a chiudere la finestra, lottando contro le tende che si gonfiavano e danzavano per colpa del vento. Rimase per qualche secondo con le braccia ancora tese sulla finestra chiusa, fissando il pavimento incapace di comprendere quello che era appena accaduto. Le parole della sveglia continuavano a tormentarlo. Qualcuno era entrato dalla finestra e l’aveva manomessa? Si volse verso il comodino, e quasi gli si gelò il cuore quando si accorse di quello che vi era posato sopra. Era certo che non fosse sua, non l’aveva mai vista nella sua stanza.
Sul comodino, stranamente ancora candida e in fiore nonostante fosse stata recisa, era posato il bocciolo di una rosa bianca, ancora impreziosita dalle gocce di rugiada. Gabriel  si avvicinò e la prese tra le mani. Non sembrava un normale fiore, era troppo bianca, troppo brillante. Era forse una sorta di firma dell’autore?
 
Gabriel fermò la macchina di colpo. Il cagnolino di peluche che sua madre aveva appeso allo specchietto, ondeggiava selvaggiamente. Spense il motore, e si guardò intorno per qualche secondo. Il parcheggio davanti al fast-food era ingombro di macchine, dopotutto era ora di pranzo. Cominiciò a pensare di aver fatto una grossa cavolata. Il ricordo della rosa bianca posata sul comodino si riaffacciò nella sua mente, scuotendogli l'anima e facendogli ritrovare il coraggio.  Si sbottonò la camicia della divisa  per sostituirla con una vecchia maglia blu scuro. Era una cosa ridicola, ma non aveva nessuna intenzione di sembrare appena scappato da scuola. Anche se era la verità. Aveva finto di aver dimenticato alcuni compiti a casa, e durante l'ora di pranzo era saltato in macchina. Per tutto il tragitto aveva controllato ogni secondo l'orologio che portava al polso, non aveva molto tempo e non voleva assolutamente essere scoperto. Ripensò alla rabbia con cui Diana lo aveva guardato il giorno prima. Sai almeno quante medicine prende al giorno, eh?! Quante probabilità c'erano che fosse stata Diana Forrest a inscenare quello scherzo inquietante? Molto basse in realtà, eppure quelle parole gli rimbombavano nella testa. Dopotutto la madre era una poco di buono, poteva benissimo averle insegnato come entrare in una casa dalla finestra. L'immagine di Diana che si arrampicava sul tetto di casa sua era comica e grottesca allo stesso tempo. Ma chi altro poteva essere stato? Gabriel osservò per l'ultima volta la sua immagine nello specchietto. I capelli andavano in tutte le direzioni come al solito. Al diavolo. Sospirò e scese dall'auto. Aprì la porta del locale, accompagnato dal tintinnio di un campanello, ed entrò con passo deciso cercandola con lo sguardo. Aveva sentito dire che Diana lavorava nel nuovo fast-food all'angolo della strata. Era un posto squallido, con un insegna rossa al neon, che si spegneva a intermittenza. Gabriel c'era stato pochissime volte, insieme a Fred e Eddy probabilmente, di venerdì sera. In realtà non era proprio sicuro che l'avrebbe trovata lì , poteva darsi benissimo che oggi non fosse il suo turno, che fosse stata malata, o che ... con un tuffo al cuore scorse il suo viso. Indossava un orribile cappellino rosso con il logo del locale, che nascondeva i suoi capelli neri acconciati in una coda sulla nuca. Si trovava dall’altra parte del bancone. Davanti a lei si era formata una piccola coda di clienti. Stava pigiando furiosamente un tasto della cassa, mentre un signore corpulento  in giacca e cravatta batteva con impazienza le dita sul lucido bancone. Gli occhi avevano quella solita espressione accigliata, Gabriel si chiese se accogliesse tutti clienti con quello sguardo o con una battutaccia. Alla fine la cassa sputò lo scontrino giusto, Diana lo tese al suo cliente, stirando le labbra in un sorriso forzato molto poco credibile. Non sapendo cosa fare, Gabriel si mise in coda. Sentiva la voce di lei dire frasi come -il prossimo!- o -Passi di nuovo a trovarci!-. Se non fosse stato furioso si sarebbe messo a ridere. La voce registrata della sua  -ormai defunta- sveglia era molto più espressiva.
-Cosa gradisce da bere?-
La fila si accorciava e Gabriel si rese conto di non essersi preparato nemmeno un discorso. Cominciava a sentirsi un pò idiota, forse andare sul posto di lavoro non era stata una grande idea. Cosa avrebbe dovuto dire? Doveva pronunciare qualche frase ad effetto? Un bicchiere di sincerità, grazie. Quando l’ultimo cliente che si sovrapponeva tra loro fu andato via, Gabriel si limitò a rimanere in silenzio, aspettando che lei alzasse lo sguardo dalla tastiera della cassa.
-Buongiorno, benvenuti al Paddy’s..- Diana si bloccò di colpo, spalancando gli occhi. Finalmente era riuscita a sorprenderla. -Cosa diavolo ci fai qui?!- bisbigliò. La sua espressione tornò neutra, Diana rialzò le sue difese emotive fissandolo con i suoi occhi grigi. Gabriel non riusciva ancora a spiegarsi perchè quella ragazza gli facesse quell’effetto. Dalla prima volta che l’aveva vista, era come se Diana avesse scombussolato la sua coscienza. In sua presenza si sentiva selvaggio, quasi come se lei liberasse la sua parte più irrazionale e pericolosa. Lui non era così, Gabriel Hayes era pacato, pensava sempre prima di agire, sapeva qual era la cosa giusta da fare. Ancora una volta Diana gli fece lo stesso effetto, era come se qualcuno sciogliesse una catena e liberasse quella animale che era la sua vera anima. Gabriel non rispose, le afferrò il polso sbattendolo contro il balcone.
-Se voleva essere una specie di scherzo, sappi che non è stato affatto divertente- sussurrò rabbioso . Non riconosceva nemmeno la propria voce. La ragazza fece scorrere lo sguardo da lui alla mano che le stringeva il polso. Gabriel vide i suoi occhi tingersi di rabbia.
-Tu sei fuori di testa!- rispose lei a denti stretti. Intorno a loro era calato il silenzio . Solo il bambino che stringeva la mano alla signora dietro di lui continuava a pignucolare , dicendo di volere anche il gelato.
-Forrest! C’è qualche problema?- disse qualcuno con un forte accento straniero da dietro il bancone. Una ragazzo biondo col codino.
-Tutto a posto- disse la ragazza, continuando a tenere gli occhi fissi su quelli di Gabriel -Yuri, puoi sostituirmi un momento?-  Il ragazzo biondo fece un cenno di assenso, accostandosi alla cassa e continuando a fissare la mano stretta intorno al polso di lei. Gabriel mollò la presa.
-Se hai bisogno di me sono qui- disse Yuri, continuando a guardarlo in cagnesco. Diana uscì da dietro il bancone, e si limitò a indicargli la porta sul retro con un cenno della testa. Gabriel la seguì. Lo condusse in un piccolo spazio angusto dietro il locale, un rettangolo di cemento con tanto di cassonetto. Gabriel chiuse la porta alle sue spalle, e il silenzio calò tra loro. La ragazza si levò il cappellino, sciogliendo involontariamente i capelli , che si disposero come un manto nero sulle sue spalle.
-Allora, si può sapere che diavolo c’è?- sbraitò Diana.
-Qualcuno è entrato dalla finestra di casa mia- disse  lentamente  stringendo i pugni, era difficile tenere a bada quella bestia che Diana aveva liberato. La creatura gli diceva di inchiodare la ragazza al muro, e mettere a tacere quello sguardo derisorio con cui la fissava.
-E allora va’ a chiamare la polizia , imbecille!- rispose quella allargando le braccia in un gesto di disperazione. -Cosa vuoi da..? Oh. Pensi che sia stata io.- concluse. La labbra le si incurvarono in un sorriso sprezzante. Si avvicinò a lui con passi lenti e studiati, gli posò un dito sul petto.
-Ti informo che mi madre è una tossica, non una scassinatrice. Se vi piace proprio scaricare tutte le sue colpe su di me, almeno scegliete quelle giuste. Non ho mai scassinato una finestra, e mai lo farò. Men che meno se si tratta della tua, dolcezza.- Fece per andarsene,ma il ragazzo l’afferrò per un braccio bloccandola.
-Piantala di toccarmi come se fosse di tua proprietà. Altrimenti..-
-Chiami il biondino in tuo aiuto?-
-No chiamo le mie ginocchia, e te le ficco nelle palle.-
Gabriel le mollò lentamente il braccio. La bestia si stava finalmente acquietando.
 
 

 
-Senti, non è così semplice. Stamattina quando mi sono svegliato ho trovato la finestra spalancata. E tutte le mie cose in giro. Qualcuno ha manomesso la mia sveglia, che continuava a dire “Sono a casa della nonna”.-
Diana si limitò a sollevare un sopracciglio. Lo guardava come se fosse una sorta di squilibrato.
-Quindi...ora la tua sveglia parla?-
-No. Parlava già prima-
Diana continuva a fissarlo incredula.
-Cioè, dice -diceva- ad alta voce l’orario. Stamattina invece, non so come sia possibile, diceva solo questa frase : “sono a casa della nonna”. E qualcuno è entrato dalla finestra, ne sono sicuro.Sei stata tu...insomma l’altro giorno, mi hai detto che..che sembravo essermi dimenticato della nonna. Sembrava, una sorta di scherzo...di vendetta...proprio la casa della nonna , capisci?-
Gabriel cominciava a percepire l’ inconcludenza delle sue parole. Ma come diavolo gli era venuto in mente di andare da lei? Diana lo guardava sempre più sorpresa.
-E, quindi, tu pensi io abbia messo in scena questa specie di scherzo, entrando in casa tua - dalla finestra!-  col rischio di essere scoperta e  magari arrestata, solo per ricordarti di venire a trovare tua nonna ogni tanto?-
Gabriel si sentì arrossire fino alla punta delle orecchie, detta da lei suonava come una cosa totalmente idiota. Si passò una mano tra i capelli, nel più totale imbarazzo.
-Si, ehm...io...mi dispiace, hai ragione- biascicò lui, -..non so cosa mi sia preso, scusami. C’era quella rosa bianca , e io ho pensato...quel profumo di fiori nei capelli..-
-Profumo di fiori?!-
-Senti, lascia perdere! Fa finta che non sia mai venuto, okay? Buona giornata- concluse Gabriel rabbioso, rientrò nel locale senza guardarla in faccia. Risalì in macchina con la coda tra le gambe, pieno di vergogna. Sarebbe stato meglio evitare Diana Forrest d’ora in avanti, lo portava a fare cose davvero irrazionali.
 
 
 
   
 
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