Come Home -II Parte
And
right now
there's a war between the vanities
But all I see it's you and
me
The fight for you is all I've ever known
(Come
Home - One
Republic)
Kevin
Ryan aveva
sempre avuto un rapporto privilegiato con i numeri.
Forte di una
particolare dedizione allo studio, e di uno spirito competitivo tutto
irlandese che lo costringeva ad eccellere
quantomeno a scuola
nel confronto con le sorelle, per il resto sempre in netto vantaggio
su di lui per una mera questione anagrafica, Kevin aveva infatti
scoperto fin da bambino un'intensa e promettente alchimia con la
matematica. Nel corso degli anni, molte volte s'era ritrovato a
pensare che, se non fosse entrato in polizia, probabilmente sarebbe
stato proprio lì, verso la matematica, che la vita lo
avrebbe
sospinto.
Kevin Ryan era poi anche un uomo molto scrupoloso, oltre
che un detective dallo spigliato acume, e sin da quando Esposito lo
aveva nominato suo testimone, parecchi mesi addietro, lui si era
calato con estrema serietà nella parte, dedicandosi alla
buona
riuscita di quel matrimonio con forse persino più cura di
quanta ne
avesse riservata al proprio.
E del resto, Javier Esposito sposo
era un fatto ben più degno di nota di Kevin Ryan sposo.
Sicuramente più sorprendente.
Nulla di strano quindi se, nel bel
mezzo di un trascinante ricevimento, con un centinaio di persone a
riempirgli la visuale, i suoi occhi si fossero intestarditi giusto
sugli unici due grandi assenti del momento, che per quanto
significativi non erano in fondo che puntini irrisori in confronto
alla massa di gente che popolava la sala.
Non che la loro
improvvisa sparizione fosse in qualche modo inattesa, o misteriosa:
Kevin aveva messo in conto quella possibilità fin dal
momento
dell'aperitivo, quando aveva scorto quel gonfiore sospetto negli
occhi troppo arrossati di Beckett, e forse persino da prima, quando
Esposito un mese addietro lo aveva messo a parte della recente
ricaduta dei loro due migliori amici.
No, non era l'assenza
in sé a preoccupare Kevin, né le conseguenze a
cui inevitabilmente
avrebbe portato -certo che un confronto tra loro fosse necessario, a
prescindere dalla bontà dell'esito. Ciò che
realmente lo stava
mettendo in ansia da ormai una ventina di minuti era piuttosto la
consapevolezza che quella sua presa di nota non era purtroppo
attribuibile al suo raro talento investigativo, né alla sua
passione
smodata per il calcolo matematico, bensì alla
semplicità di
un'operazione che persino un bambino sarebbe stato in grado di
eseguire, giungendo al medesimo risultato. L'ansia era tuttavia
qualcosa che lui aveva imparato a controllare, se somministrata a
piccole dosi -e di questo doveva ringraziare principalmente Sarah
Grace e l'ingenua incoscienza della sua età. Di fronte a
tuffi
spericolati dal seggiolone, attrazioni fatali verso le prese di
corrente e la minaccia imminente dei primi passi -che avrebbero
mandato in frantumi anche l'ultimo ostacolo alla sua sconsiderata
passione per il mondo-, la scomparsa di due adulti consenzienti non
era che un'inezia, un dettaglio facilmente gestibile da un misero
dieci percento del suo cervello.
Se infatti era certo che chiunque
in quella sala sarebbe stato capace di dedurre che, sottraendo
centotrentuno invitati a un totale di centotrentatré, da
qualche
parte doveva nascondersi il resto di due -e più questo si
nascondeva
più, in effetti, rischiava di rendersi visibile-, era al
contempo
rassicurato dal fatto che la maggioranza di quei potenziali testimoni
non avrebbe trovato la cosa parimenti interessante. Eppure adesso,
incrociando i suoi occhi e vedendoli offuscarsi d'un rapido ma
eloquente scintillio di complicità, quella magra
consolazione a cui
aveva affidato il sereno prosieguo del matrimonio stava iniziando
pericolosamente a vacillare. Se persino Javier Esposito -dal tatto
discutibile e una marcata antipatia per i numeri, e con tutta la
giustificata noncuranza che ci si sarebbe aspettati da uno sposo il
giorno delle proprie nozze- se n'era accorto, cosa avrebbe impedito
anche ad altri, e ad altre sopratutto, di
accorgersene a loro
volta? E sebbene il numero degli interessati alle loro faccende fosse
troppo ridotto per rischiare davvero di minare la buona riuscita del
matrimonio, cosicché il giorno di Lanie ed Esposito sembrava
essere
al sicuro anche senza un suo diretto intervento, rimanevano comunque
Castle e Beckett: in quanto amico, proteggerli era suo compito tanto
quanto lo era proteggere gli sposi in quanto testimone.
Rapido si
era quindi congedato da Jenny -un sorriso e un casto bacio sulle
labbra-, e aveva raggiunto i novelli sposi al loro tavolo, cingendo
da dietro le spalle di entrambi in un abbraccio fraterno che
dissimulasse l'aria di cospirazione che si apprestava a
instaurare.
«Quindi che facciamo adesso?»
La domanda uscì
senza troppi fronzoli. Non servivano premesse: se lui e Javier se
n'erano accorti allora era indubbio che anche Lanie sapesse, e con
tutta probabilità da molto prima di loro.
«Noi non facciamo
assolutamente nulla»
I suoi sospetti furono confermati dal
sentirla rispondere per prima, con una flemma invidiabile nel tono: a
contornarlo, un sorriso disegnato sulle labbra e lo sguardo leggero,
in una delle sue più magistrali interpretazioni
d'indifferenza.
Javier d'altro canto non pareva altrettanto capace, più
simile a un
libro aperto che ad un attore affermato, per giunta con l'indice
fermo sulla pagina più compromettente -e guardandolo Ryan si
disse
ironico che no, non avrebbe avuto alcuna speranza in quel matrimonio
se non avesse imparato al più presto a dissimulare, e bene
almeno
quanto la sua compagna. Anche da dietro, con una scarsa visuale,
Kevin riuscì infatti a vedere chiaramente la sua bocca
contorcersi
in una smorfia contrariata e leggermente basita, segno che non pareva
aver gradito l'intervento della moglie. E anche lei pareva essersene
accorta.
«Senti Javier, anche io vorrei tanto sapere cosa sta
succedendo tra quei due, ma è proprio questo il punto: sta
succedendo qualcosa. Proprio adesso. E di qualunque cosa si tratti
dubito chi ci vogliano tra i piedi, non credi?»
«Sì,
ma...»
«Niente ma. Quindi ora rilassati,
intrattieni gli
invitati e bacia tua moglie»
Sporgendosi leggermente in avanti
scoccò un rapido bacio sul broncio di un poco convinto
Javier,
giusto un attimo prima di alzarsi e d'invitare suo marito a fare
altrettanto.
«Quando quei due torneranno a farsi vedere allora
hai il mio permesso per tornare a giocare al detective»
«Sono un
detective, Lanie. Non gioco io.»
«D'accordo d'accordo, ora
va»
Un colpetto lascivo al fondo schiena e lei lo congedò,
inoltrandosi nel labirinto di tavoli aperto dinnanzi a loro: la sua
figura traballante li accompagnò per alcuni istanti, col
vestito che
ad ogni passo ne minacciava l'equilibrio, in un silenzio che
sembrò
loro opportuno spezzare solo quando ormai non erano più in
grado di
vederla.
«Forza, andiamo a cercarli»
«Ma Lanie ha appena
dett-»
«Ho sentito cosa ha detto Lanie, fratello. E infatti io
non voglio mica star loro tra i piedi, voglio solo assicurarmi che
vada tutto bene, che Beckett non sia in qualche angolo a deprimersi,
e soprattutto che Castle non stia combinando qualche casino»
Ryan
esitò, spostando nervosamente il proprio peso da un piede
all'altro,
con lo sguardo che viaggiava alternatamente tra l'amico -già
proteso
verso la porta- e un punto impreciso della sala in cui, a giudicare
dall'accorpamento di gente e di gridolini eccitati, immaginò
dovesse
trovarsi Lanie.
«D'accordo, ma credo lo stesso che Lanie abbia
ragione. Non è il caso di curiosare»
«Qui non si tratta di
curiosità Ryan, la mia è preoccupazione. E
ampiamente giustificata
oltretutto. Abbiamo visto entrambi Castle stamattina, e non sei stato
tu prima a dirmi che Beckett ti sembrava turbata?»
«Sì, è
vero...»
«Solo un giro veloce, promesso. Se è tutto
regolare
torniamo qui immediatamente. Anche perché se dovesse
scoprirci,
Lanie ci ammazza»
Il
ticchettio dei
mocassini contro il parquet risuonava prepotente nel corridoio, e
Ryan iniziava ad aver l'impressione che le sue stesse scarpe fossero
intenzionate a smascherarlo, generando più rumore del
necessario.
Non sapeva come avesse fatto a farsi coinvolgere in
quella specie di caccia all'uomo, non era mai stata questa la sua
intenzione, fatto sta che ora era lì: al seguito di un
Esposito
particolarmente determinato, forse anche troppo.
A conti fatti
l'amico non gli aveva poi dato ampio margine di scelta: dopo un paio
d'altri fiacchi tentativi di convincerlo a parole, si era
semplicemente voltato, e spedito aveva preso a camminare alla volta
delle scale. E cos'altro avrebbe potuto fare lui, da anni suo partner
nella vita e nel lavoro, se non spalleggiarlo in quell'improbabile
pedinamento? Oltretutto, se pure fosse rimasto alla festa, avrebbe in
ogni caso dovuto affrontare la furia di Lanie prima o dopo, e dopo un
rapido calcolo aveva concluso che preferiva di gran lunga farlo dopo,
di fianco all'amico, piuttosto che prima, da solo senza alcun
supporto o spiegazione esauriente da dare.
Quando infine dal fondo
del corridoio la porta di una camera a loro ben nota si
aprì,
rivelando un viso familiare, Kevin non seppe se sentirsi sollevato o
tremendamente imbarazzato. Esposito d'altra parte non sembrava
essersi neanche posto il problema; piuttosto nel giro di un'istante,
e senza alcuno scrupolo, incalzò l'altro con la domanda
peggio posta
e meno delicata di cui fu capace.
«Castle finalmente, si può
sapere che diamine sta succedendo? E dov'è
Beckett?»
Vide
l'altro sobbalzare al suono di quella voce, evidentemente sorpreso
dalla loro presenza, e gli parse di vederlo esitare qualche istante,
con un'espressione in volto in cui Ryan non fiutò nulla di
buono. Fu
tuttavia questione di secondi: una scrollata di capo sembrò
infatti
bastargli per rimettere in moto il cervello, e i piedi assieme a
quello, e con passo di carica li superò entrambi, parlando
senza
neanche voltarsi a guardarli.
«Me ne vado. Scusami Espo, davvero,
ma devo andare. Tornerò in tempo per la fine della festa,
promesso.»
«Aspetta, che vuol dire che te ne vai! E dove vuoi
andare?»
«Ovunque, ma via da qui. Scusami»
Kevin osservò
Castle procedere senza indugio in quella che, a tutti gli effetti,
poteva essere definita una fuga in piena regola, e se fino ad allora
era stato ancora indeciso verso quale umore dovesse sbilanciarsi
l'ago della sua bilancia, se l'imbarazzo o il sollievo, ciò
che
accadde l'istante dopo a quella riflessione non gli lasciò
più
alcun dubbio: imbarazzo, sicuramente. Dal fondo del corridoio, con
una precisione quasi sospetta, si materializzò infatti
l'ultima
persona che avrebbe dovuto assistere a quello spettacolo: sguardo
spaesato e andatura affrettata, Laura aveva infatti appena svoltato
l'angolo. A nulla valsero i suoi tentativi di richiamare il
fidanzato: apparentemente senza neanche vederla -e tuttavia,
Ryan ne era certo, avendola vista benissimo- la superò in
poche
falcate, passandole accanto con invidiabile indifferenza, e pochi
istanti dopo aveva già voltato l'angolo a sua volta,
sparendo dalle
loro viste.
«Era Rick quello, vero?»
La domanda superflua
uscì quasi da sé, dalla gola di una Laura che
più che contrariata
pareva essere confusa e consapevole insieme.
«Emh,
sì...»
L'imbarazzo e la tensione erano palpabili nella voce di
Esposito, e Kevin sentì chiaramente lo sguardo dell'amico
posarsi su
di sé, in una chiara richiesta di aiuto: tuttavia lui pareva
avere
altro da fare, impegnato nel delicato -e più complicato del
previsto- compito di decifrare Laura, e lo sguardo con cui stava
studiando loro e l'ambiente insieme.
«E dove stava andando?
Sembrava sconvolto...»
«Oh no, era solo di fretta. Ecco lui
sta...lui sta andando a prendere dei parenti di Lanie, sì!
Hanno
avuto un problema con l'auto e sono rimasti in panne, così
Castle si
è offerto di andarli a prendere visto che Ryan è
il mio primo
testimone e mi serve qui. E poi sai, con la Ferrari si fa
più in
fretta, no Kev?»
Disegnandosi forzatamente un sorriso sulle
labbra, Esposito assestò una gomitata decisa all'amico il
quale,
riscossosi brevemente dai suoi pensieri, annuì energicamente
alla
donna, pur ignorando a cosa avesse appena assentito. Qualunque cosa
fosse sembrava comunque non aver riscosso il favore di Laura, il cui
sguardo si era acceso ora di una nuova, strana, luce. Non dovette
passare troppo tempo prima che Kevin potesse darle un nome.
«Ti
ringrazio Javier, il tuo è davvero un nobile tentativo ma a
questo
punto credo sia meglio che io vada. Per favore, dillo tu Rick qualora
dovessi sentirlo, e ancora congratulazioni per le tue nozze»
Un
sorriso di circostanza stemperò la gravita delle sue parole,
ma si
trattava di mera apparenza -e tuttavia non fece una piega: li
salutò
educatamente, e con più calore e sincerità di
quanto si sarebbe
aspettato, e si congedò, abbandonando con passo fermo il
piano senza
mai perdere in dignità. E Kevin a quel punto non ebbe
più dubbi
sull'acume e la grazia di una donna che, evidentemente, tutti loro
avevano ampiamente sottovalutato.
«Vado a chiamare Lanie, pensaci
tu qui»
La voce di Esposito lo riportò alla realtà,
giusto in
tempo per vedere il suo sguardo puntato verso la porta incriminata,
col sotteso e implicito ordine di varcarla.
«Io? E cosa dovrei
fare?»
«Non lo so, parlale... o non parlarle. Solo, tienila
d'occhio finché non arriva la cavalleria»
Non gli fu concesso
tempo per ribattere: si ritrovò solo nel corridoio, con la
sola
compagnia del proprio sguardo che, nervoso, aveva preso a girargli
intorno nella speranza forse che qualcuno -Jenny magari?- facesse la
sua provvidenziale comparsa, salvandolo da quella scomoda
situazione.
Nessuno apparve tuttavia, e dopo un paio di
minuti dovette arrendersi all'idea che quel compito toccava a lui e a
nessun altro. Non che non volesse aiutare Beckett, o parlarle, o
capire cosa stesse succedendo... Ma aveva visto Castle, il suo
sguardo sconvolto... Aveva solo paura di ciò che avrebbe
trovato in
quella stanza, temeva di non essere in grado di poterla aiutare.
Aveva poi anche paura di violare in qualche modo l'intimità
di
Beckett: aveva notato conn quanta cura si fosse premurata di
nascondere le proprie lacrime solo qualche ora prima, e quando le si
era avvicinato aveva avuto la conferma che parlarne non fosse tra le
sue priorità.
Adesso, pensava, la situazione non poteva che
essere peggiorata.
Timoroso entrò infine nella stanza, affondando
ogni passo nel pesante silenzio di cui l'aria s'era resa satura,
scosso a tratti dal leggero sussultare della donna seduta di spalle
ai piedi del letto. Da lì ne poteva scorgere soltanto la
chioma, che
s'alzava e s'abbassava a ritmo di quell'inusuale melodia. Chiuse la
porta dietro le proprie spalle, un attimo prima di vedere la sua
mano, tremante, alzarsi nel vuoto a nascondere i singhiozzi, e la
sensazione di essere di troppo in quella stanza si fece, se
possibile, ancora più forte.
«Beckett...»
Fu più un
sussurro che un richiamo, ma in qualche modo ebbe la sensazione che
la donna ne fosse uscita rassicurata, avendo notato la tensione
scivolarle impercettibilmente via dalle spalle.
Le mani adesso
sfregavano contro le gote, a catturare coi palmi le stille saline che
le avevano invase probabilmente, e solo dopo parecchi di quei
movimenti Ryan la vide finalmente girarsi -seppur lievemente- verso
di lui.
«È tutto a posto?»
Si morse la lingua dandosi dello
stupido non appena ebbe sentito l'ultima sillaba di quella domanda
così retorica scivolargli via dalla gola. Bastava uno
sguardo per
capire che no, non era tutto apposto. E tuttavia, cos'altro avrebbe
potuto dirle -o chiederle- senza apparire indiscreto?
Un timido
accenno di sorriso le solcò però il volto, e Ryan
ne fu
egoisticamente rinfrancato, pur consapevole che, lungi dall'essere
spontaneo, Kate s'era costretta a farlo per aiutare lui.
Seguirono
sguardi e silenzi, accompagnati dallo sporadico sussultare di lei e
dal rumore dei passi di lui che, diligentemente, lo avevano guidato
fino al letto per poi con saggezza consigliargli di sedervisi, giusto
accanto a lei che, posizionata sul pavimento a un soffio da lui,
sembrava essergli grata di quella silente offerta di conforto. Lo
ringraziò strizzandogli brevemente il palmo della mano, in
un gesto
intimo che in tanti anni mai s'erano concessi, ma che suonò
normale
a entrambi, addestrati a volersi bene in un modo professionale ma
ugualmente intenso. Trascorsero così alcuni minuti,
fisicamente
vicini ma mentalmente lontani, con la testa di lei che -Ryan lo
sapeva- era distante anni luce da quella stanza, approdata verso
luoghi a lui ignoti e senza dubbio dolorosi, da cui però non
sentiva
più l'urgenza di strapparla con discorsi vuoti, avendo ora
chiaro in
mente che il suo solo compito in quel momento era attendere che lei
fosse pronta a tornare, e a parlare, di sua sponta -attendere, come
per i migliori detective negli interrogatori più importanti
«Dovrei
alzarmi da qui, è una cosa così
ridicola...»
«Non c'è alcuna
fretta»
«Sì invece, giù è pieno di
sedie comode e invece io
me ne sto seduta qui sul pavimento ghiacciato, perdendomi oltretutto
il matrimonio dei miei amici. E per cosa, poi? Dio, Lanie
sarà in
pensiero... »
«Non preoccuparti di questo, Espo è andato a
chiamarla»
Quest'ultima frase sembrò sortire un effetto
insperato sulla donna che, come risvegliatasi da un letale torpore,
quasi inciampò nella frenesia del rimettersi in piedi,
dimentica
d'improvviso di tutta la fatica che pareva averle ostacolato ogni
movimento fino ad allora.
«No, mio Dio. Sto già trattenendo te
qui, ho già fatto abbastanza. Non finirò per
rovinare la giornata
anche a loro, no. Assolutamente no»
«Beckett, non stai rovinando
la giornata a nessuno. Ti assicuro che sia Lanie che Javier
preferirebbero di gran lunga passare la giornata qui con te che
rimanere di sotto ad ascoltare lo zio Fulgenzio cimentarsi col
karaoke»
Per la prima volta da che l'aveva raggiunta in quella
stanza, Ryan vide l'accenno di una sincera risata fare capolino tra
le labbra di Beckett, e un moto d'orgoglio gli gonfiò
scioccamente
il petto.
«Non è comunque necessario. Io sto bene, beh...
starò
bene. Possiamo almeno fingere che sia così?»
«Sono certo che il
resto degli invitati scambierà i tuoi occhi rossi per
commozione nei
riguardi della sposa»
«Direi che è perfetto. Vogliamo andare
allora?»
«Certa di sentirti pronta?»
«Sì»
Eppure la
sua mano rimase fermamente avviluppata intorno alla maniglia della
porta. A dispetto della sicurezza nella voce, il resto del corpo era
in aperto conflitto, e non ebbe difficoltà a indovinarne il
perché
ancora prima che lei desse un nome alla sua esitazione.
«Castle...
lui è di sotto?»
«In realtà credo se ne sia andato»
«Bene,
andiamo»
Quella risposta si rivelò essere quella giusta, e come
una chiave si intrufolò nella serratura della porta
facendola
scattare, liberandoli entrambi dalla prigionia di quelle quattro
soffocanti mura.
«E, Kevin...grazie»
«Non dirlo neanche.
Solo, Beckett» quel richiamo a un passo dall'uscita gli fece
guadagnare un'occhiata curiosa dalla bruna, ora in attesa, con gli
occhi puntati su di lui «qualunque cosa voi due stiate
combinando
non fateci aspettare troppo, intesi?»
La curiosità lasciò il
posto a un risolino privo d'alcuna ilarità, sullo sfondo di
un
sorriso ben più amaro di quanto si fosse augurato.
«Dubito ci
sia qualcosa da attendere ormai, Ryan»
«Se avessi un nichelino
per ogni volta che l'ho creduto anche io...»
Era un pensiero
sincero il suo, e ai suoi occhi fortemente fondato, tuttavia attese
che l'udito di lei fosse fuori portata per esternarlo: aveva intuito
che la ferita era ancora troppo fresca e profonda per sperare che
almeno lei, in quella coppia di stolti, potesse ragionare con
lucidità e vedere quello che a lui appariva così
chiaro e lampante
da sfiorare quasi il ridicolo. Il rapido cambio di sguardo e di tono,
nonché il subitaneo restauro della solita
formalità -incarnata
dall'aver ripreso a chiamarlo per cognome, dopo un momentaneo slancio
di intimità- lo persuasero ulteriormente circa la
bontà di questa
sua ultima decisione. E anche volendo non avrebbe avuto tempo e modo
di cambiare idea, preceduto dal rumoroso e ingombrante arrivo della
sposa, in una nuvola di bianca e vaporosa agitazione.
«Tesoro,
stavo venendo da te! Cosa è successo? Siete spariti e poi ho
visto
Castle andarsene via come una furia e...»
«Lanie, dopo»
«Ma
Kate...»
«No, questo è il tuo giorno. Dobbiamo solo pensare
a
festeggiare e divertirci. Per il resto ci sarà
tempo»
Lo sguardo
risoluto di Kate non lasciò alternative, e l'amica non ebbe
altra
scelta che piegarsi alla sua volontà. E in quel momento Ryan
fu
nuovamente pervaso da una calda ondata di orgoglio, e non per
sé
stesso stavolta, bensì per la donna che a lungo aveva avuto
l'onore
di chiamare collega e che con altrettanto onore sarebbe stato lieto
di chiamare capitano un giorno, se le cose avessero preso una piega
diversa anni addietro. E in alcun modo riusciva a capacitarsi di
come, dietro la fierezza di quello sguardo, potesse
contemporaneamente nascondersi tutta quella fragilità e
insicurezza
che il rapporto con Castle aveva, negli anni, portato lentamente alla
luce.
«D'accordo allora. Andiamo a bere!»
«Mi sembra un
ottima idea»
Braccio nel braccio le due donne si allontanarono,
con una nuova spensieratezza a guidare i passi di Kate, mentre lui ed
Esposito temporeggiavano sulla porta: il suo sguardo livido, chiaro
segno di una recente sfuriata di Lanie a cui lui, fortunatamente, era
almeno per il momento riuscito a scampare.
«Beh, che ti ha
detto?»
«Niente»
«Come niente? E tu non hai indagato? Ma
che razza di detective sei?»
«Uno che non è in servizio! Prima
la pistola, poi l'interrogatorio... vuoi anche chiedermi di inseguire
il sospettato o pensi di potermi lasciar fare soltanto il testimone
del mio migliore amico oggi?»
«Scusami, hai ragione, è
che..»
«Lo so»
«Ok, ci penseremo più tardi a queste cose.
Oggi si pensa solo al matrimonio!»
«Bene, perché ho un discorso
da fare nei prossimi cinque minuti e con tutto questo trambusto non
ricordo assolutamente più nulla di ciò che dovevo
dire»
Aveva
lasciato
quella camera con l'intenzione di tornare alla festa.
Aveva
lasciato lei in quella camera con l'intenzione di
tornare
dall'altra alla festa.
Eppure, nel momento stesso in cui la
mano aveva accarezzato la maniglia, una scarica d'esitazione lo aveva
pervaso lungo tutto il corpo. L'attimo dopo essersi richiuso la porta
alle spalle l'esitazione era divenuta dubbio, e nell'esatto istante
in cui Laura aveva incrociato la sua strada il dubbio era infine
maturato in certezza: doveva andarsene.
Mai, in nessun modo,
neanche ricorrendo alla migliore delle sue facce da poker, sarebbe
stato in grado di tornare da Laura e fingere indifferenza.
Né
tantomeno avrebbe potuto affrontare nuovamente Kate, quando
inevitabilmente anche lei fosse scesa a raggiungerli, con l'altra
stretta slealmente tra le braccia. E se un briciolo di orgoglio
personale e di riguardo nei confronti degli sposi avevano continuato
ad attardare i suoi passi anche dopo che, risoluto, aveva superato
Esposito, Ryan, Laura e chiunque altro avesse incontrato lungo il
tragitto, ogni traccia d'incertezza era stata poi spazzata via
dall'orrenda presa di coscienza d'aver ingenuamente -e del tutto
inconsciamente- etichettato nella propria mente Kate come la lei
e
Laura come l'altra. Un pensiero inammissibile, non
tanto
perché lontano dalla verità quanto
perché vi era troppo
vicino.
Era, in effetti, la cosa più sincera che si fosse
concesso di pensare da che l'aveva rivista, quel giorno.
Anche
adesso che sfrecciava senza meta per la strada deserta sulla sua
Ferrari, col vento a scompigliargli i capelli e a schiaffeggiargli il
volto -con tanta violenza da impedirgli di scoprire se ciò
che
sentiva scheggiargli le gote erano lacrime o solo fruste d'aria-, non
riusciva a capacitarsi di come la sua mente potesse essere ancora
tanto irrimediabilmente pregna di lei.
Soprattutto non riusciva a
liberarsi del suono della sua voce, e di quelle due parole che da
minuti ormai facevano da sottofondo ad ogni suo altro pensiero: ti
amo.
Glielo aveva confessato con una naturalezza quasi
disarmante, tanto che confessione non sembrava neanche il termine
giusto per descrivere ciò che era accaduto. Nessun
impronunciabile
segreto era infatti stato svelato, nessuna verità disarmante
s'era
di colpo manifestata in quella stanza. Constatazione
sarebbe
stato un vocabolo più adatto. Che in fondo entrambi sapevano
benissimo di amarsi ancora senza alcun bisogno di dirlo, per quanto
strenuamente si fossero impegnati a nasconderlo -chi fuggendo, chi
inveendo contro l'altro. Ed era proprio questo a segnare la
tragicità
della situazione: si amavano e tuttavia s'erano persi. Nel momento
decisivo non erano stati abbastanza: abbastanza forti, abbastanza
coraggiosi, abbastanza fiduciosi...
Eppure, lei lo aveva
detto.
Nonostante l'ovvietà di quella affermazione, nonostante il
dolore e l'orgoglio ferito, lei lo aveva detto. E quel gesto lo aveva
spiazzato più delle parole stesse.
L'aveva guardata, per un
minuto che era parso interminabile, e di fronte a sé aveva
visto la
stessa donna di sempre: bellissima e caparbia, dallo sguardo fatale e
il sorriso salvifico. Un concentrato d'opposti, dannatamente nocivo
per chiunque non fosse stato in grado di possedere contemporaneamente
i suoi occhi e le sue labbra, la sua anima e il suo corpo -come un
tempo a lui era stato concesso. Fino al giorno in cui quella stessa
donna che lo aveva amato, -uccidendolo e riportandolo in vita ad ogni
tocco-, non lo aveva poi messo da parte, fuggendolo e spezzandogli il
cuore, dandogli infine il colpo di grazia.
Solo adesso, a distanza
di anni, quando ormai s'era rassegnato all'idea che nessuna
redenzione sarebbe venuto a trascinarlo fuori dall'inferno in cui era
scivolato insieme al loro amore, lei era infine tornata a salvarlo,
riportandolo in vita ancora un'altra volta, col solo potere delle
parole.
Eppure, nonostante all'apparenza nulla sembrasse cambiato
in lei -nulla a parte l'ospite d'inchiostro inciso sul suo polso-, i
suoi gesti, la sua irruenza, la sua ostinazione a mostrarsi
vulnerabile ai suoi occhi senza più nascondersi, tradivano
la
presenza di una donna nuova, una donna diversa.
Sei ancora
quella che eri, o no?
Quella domanda imperterrita continuava a
riaffiorargli dalle pieghe dell'inconscio, sovrapponendosi alla voce
di lei, facendo a pugni con quel “ti amo”,
amoreggiando
con quel “e tu?”. Ciò
che era peggio, Castle non riusciva
a darsi pace, inabile a capire cosa avrebbe preferito: se scoprire
che Kate era davvero cambiata in quei due anni, o se rendersi conto
che in fondo non era che la stessa donna di sempre, semplicemente
catapultata in una situazione troppo complicata per non uscirne
scalfita.
Del resto, già in passato lei aveva dimostrato d'essere
in grado di annullare le proprie barriere solo volendolo, come quella
sera in cui si era presentata alla sua porta, bagnata di pioggia e di
lacrime, e lo aveva baciato. E in fondo era di quella donna che lui
si era innamorato, per quanto frustrante quella relazione sapesse
essere alle volte.
La strada accanto a lui scorreva rapida, quasi
quanto i suoi pensieri. Forme indistinte e macchie di vegetazione dai
contorni sfumati gli riempivano gli occhi, mentre il piede flirtava
con l'acceleratore un po' di più ad ogni chilometro percorso.
Stava
scappando, non aveva problemi ad ammetterlo. E lei del resto lo aveva
fatto in così tante occasioni che, si disse, come avrebbe
potuto
adesso rimproverarlo per aver invertito i ruoli, una volta tanto?
Anzi, doveva ammettere che solo adesso, in qualche maniera, poteva
capirla: scappare era un gesto vigliacco, non risolutivo e
decisamente immaturo, ma era anche terribilmente ristoratore.
Liberatorio quasi, nella misura in cui, col solo obiettivo in mente
di andare via -ovunque questo via conducesse- si
era in grado
di distrarsi al punto da alienarsi, da scappare persino da se
stessi.
Lo squillo del cellulare interruppe momentaneamente quel
filo di pensieri, riportandolo di colpo alla realtà.
Allentata la
pressione su volante e pedali, iniziò a rallentare fino a
fermarsi
del tutto, al riparo in una rientranza sul ciglio della strada. Non
aveva alcuna intenzione di rispondere, anzi tolse la suoneria mentre
il viso di Esposito campeggiava ancora sul display del telefono. A
convincerlo a interrompere la sua corsa folle era stato piuttosto il
repentino rendersi conto di non riconoscere quasi più il
paesaggio
intorno a sé, segno che si stava allontanando troppo dal
luogo del
ricevimento. Andare oltre, perdersi nelle vastità della
valle o
giungere persino ai confini della città, non gli avrebbe
tratto
alcun giovamento. E d'altronde lui voleva solo una pausa da
quell'ambiente, non era certo una fuga definitiva che cercava.
Sapeva
che presto o tardi sarebbe dovuto ritornare sui suoi passi.
Quel
“presto o
tardi” arrivò in effetti più
tardi del previsto, quando il
crepuscolo aveva già preso a cancellargli l'ombra intorno,
sfiorando
più e più volte le sue scarpe coi timidi raggi di
sole che ancora
sapevano sfuggire indisciplinati al suo controllo.
Il velo scuro
della sera aveva già inghiottito l'asfalto, e sul nero del
bitume
apparivano ora più nitide le stille salate che solo adesso
si
rendeva conto di stare versando da quelli che, a giudicare dagli
umidi indizi, dovevano ormai essere parecchi minuti. Non sapeva se a
guidare l'avanzata di quel pianto fosse il solito dolore ,vecchio
amico di bevute, o qualcos'altro: nel dubbio non ebbe cuore di
impedirgli di fargli compagnia in quella presa di consapevolezza che
stava poco a poco schiarendo i suoi pensieri, incamminatisi su un
sentiero che mai avrebbe pensato di percorrere di nuovo. Mai di nuovo
con lei almeno.
Ma c'era quel sorriso, timido e nostalgico, che
aveva appena scoperto sul proprio viso insieme alle lacrime, e che
non lasciava dubbi. E sebbene la sua presenza non lasciasse presagire
nulla di buono circa il suo futuro stato d'animo, trovava che troppo
bene si intonasse a quel suo pianto per poter pensare di sopprimere
uno dei due, o persino entrambi, suoi compagni di viaggio.
Lui
l'amava.
Seduto contro il cofano dell'auto, con lo sguardo perso
in un tramonto che non stava davvero osservando, era come se ogni
cosa intorno a lui portasse il suo nome, e il suo nome trascinava
irrimediabilmente dietro di sé questa piccola, affilata
verità:
l'amava.
Nel momento esatto in cui si era concesso quel pensiero
-dopo averlo strenuamente ostacolato, convinto che gli avrebbe
divorato l'anima-, e lo aveva abbracciato in tutta la sua
ineluttabilità, era come se un grosso macigno fosse
scivolato via
dal suo petto, e lui si era infine reso conto di quanto stupido fosse
stato a combatterli, anziché semplicemente arrendersi a quei
sentimenti.
Era risalito in auto un momento dopo, e aveva preso a
percorrere la strada del ritorno con una fretta che nulla aveva a che
fare con quella che gli aveva guidato le mani solo un'ora prima. Le
dita, tremanti, scivolavano continuamente sul volante, reso umido
dalla patina di sudore freddo ed eccitato che gli imperlava i
polpastrelli, e dalle lacrime che ancora gli inondavano ostinate le
gote.
Sapeva quanto folle fosse. Sapeva di star rinunciando
definitivamente ad ogni speranza di poter sopravvivere a quella
guerra.
Lei sarebbe partita l'indomani e nulla sarebbe
cambiato. Nessun tentativo sarebbe valso a qualcosa, perchè
era già
finito tutto tra loro -forse anche prima che cominciasse.
Lo
sapeva, sapeva tutto. Ma saperlo non serviva a nulla giacchè
-che
lei ci fosse per un giorno o per sempre, che lo amasse davvero o lo
odiasse, che fosse cambiata o fosse la stessa persona- era lo stesso.
Non faceva alcuna differenza perché lui l'amava.
È questo adombrava
ogni altra cosa..
Tutto ciò a cui riusciva a pensare, adesso che
era libero da sè stesso e dalle regole che si era imposto in
quegli
ultimi anni, era che doveva vederla, ancora e ancora. Finché
avesse
potuto. Finché lei glielo avesse concesso. Finché
il tempo a loro
disposizione non si fosse esaurito. E sperava, pregava, che lei fosse
ancora lì. Perché sì, lei l'indomani
sarebbe ripartita, ma in che
modo questo avrebbe potuto interessare al suo amore? In che modo
questo avrebbe potuto scalfirlo o ridurre in lui il desiderio di
lei?
Sapeva a cosa stava andando incontro, e a che velocità. Il
tachimetro continuava ostinatamente a ricordarglielo, attirando la
sua l'attenzione su di sé forse nel vano tentativo di
dissuaderlo da
una resa che non avrebbe portato alcun beneficio, alcun cambiamento,
se non la possibilità di donargli ancora qualche minuto -o
magari
un'ora, chissà- con lei. Ma non era forse abbastanza? Non
era forse
questo un motivo valido per correre da lei?
Nel migliore dei casi
l'indomani ne sarebbe uscito distrutto, nel peggiore non sarebbe
arrivato incolume neanche alla notte; l'euforica rassegnazione che lo
stava conducendo da lei adesso, avrebbe forse guidato i suoi
passi
il giorno dopo dietro il suo taxi, verso l'aeroporto, incontro al suo
aereo... nell'insano e futile tentativo di impedire una partenza
inevitabile.
Ma il piede non vacillò mai sull'acceleratore, la
mano non esitò mai sul cambio: che in qualunque circostanza,
a
qualunque costo e con qualunque conseguenza, lei ne valeva la pena.
Lei ne valeva la pena sempre.
Elegantemente
accomodata sulla sedia, Kate vagava con lo sguardo per la sala senza
davvero fermarsi a osservare nulla, dimentica di sé e di
tutto ciò
che aveva intorno.
Aveva provato ad affrontare con sé stessa ciò
che era accaduto solo un'ora prima in quella camera da cui lui era
letteralmente fuggito, ma ogni pensiero o conclusione a riguardo
s'erano rivelati semplicemente troppo pesanti da gestire in quel
frangente, dove l'idea di mettersi a nudo col proprio dolore era
inevitabilmente impossibile da attuare. Aveva dunque provato a
concentrarsi sul resto, su ciò che non erano loro,
ma nonostante un inizio promettente aveva capito d'aver nuovamente
fallito quando, dal discorso di Ryan agli sposi, s'era
improvvisamente trovata catapultata nel pieno di una nuova sessione
di balli, incapace di dire cosa fosse successo tra un episodio e
l'altro, e soprattutto che ruolo avesse avuto lei in quel lasso di
tempo che pareva aver rimosso. E quasi avrebbe persino potuto credere
che non fosse affatto trascorsa un'ora tra i due fatti, se a tradire
il trascorrere del tempo non ci fosse stato il crepuscolo, che fuori
dalla finestra stava lentamente inghiottendo ogni ombra sul suo
passaggio.
In quello stato di dolce apatia in cui era lentamente
scivolata gli giungeva solo qualche stralcio di musica di tanto in
tanto, che ovattata la cullava sul posto. Non riusciva a distinguerne
le parole, troppo concentrata a mantenere il silenzio nella propria
testa, ma a giudicare dagli assaggi di melodia che riusciva a
racimolare, sapeva che avrebbe amato quella canzone -se solo si fosse
data pena di ascoltarla.
Persa in quel groviglio d'indolenza
a malapena lo vide avvicinarsi, e solo quando una mano -grande e
forte, e sicura- le fu tesa davanti agli occhi prese coscienza di chi
avesse di fronte, sobbalzando vistosamente per la sorpresa.
Sulle
note di Strangers
in the night l'orchestra
pareva ora sospingerla verso quello che dal di fuori aveva tutto
l'aspetto di un invito a ballare.
Eppure l'uomo in piedi davanti a
lei era lo stesso che solo un'ora prima era fuggito abbandonandola
sul pavimento freddo di una stanza d'albergo, chiudendosi dietro la
porta di quella stessa camera e del suo cuore, e negandole ogni
speranza di poter tornare ad essere felice. Era lo stesso uomo
sì,
ma lo sguardo era cambiato, tintosi di una sfumatura a cui lei non
riusciva in alcun modo a dare un nome.
Si chiese se dovesse
odiarlo. Se dopo quello che era successo, dopo il modo in cui era
fuggito e l'aveva rifiutata, lei dovesse mettere da parte
ciò che
voleva per salvaguardare gli ultimi scampoli del proprio orgoglio
ferito. Si chiese se fosse davvero in grado di ballare con un uomo
che aveva appena frantumato tra le proprie dita il suo cuore, a
prescindere da chi avesse ferito chi per primo.
Ma la propria mano
aveva deciso,già protesa in aria verso la sua, e
ognuna di
quelle domande contava poco adesso che il calore delle sue braccia
tornava a ghermire il proprio corpo.
«Io non capisco...»
«Solo
un ballo. A questo punto, che vuoi che sia»
Non ci furono altre
parole, se non quelle della canzone: incisive e taglienti, parevano
descrivere la loro storia. Due sconosciuti le cui strade s'erano
intrecciate in una notte qualunque, con gli sguardi e i sorrisi e una
palpabile attrazione a far da sfondo al più improbabile
degli
incontri, e l'amore -caldo e accogliente- ad appena un passo, senza
averne ancora la consapevolezza e senza il coraggio di buttarsi per
maturarla. Fino a quella seconda notte, la loro
notte,
in cui la porta era stata finalmente
varcata, rendendo quegli sconosciuti, soli al mondo, un'unica cosa. E
adesso in un ballo rieccoli insieme, l'equilibrio finalmente
ristabilito seppur per il breve tempo di una canzone. E Kate, stretta
al suo petto come se da questo dipendesse la sua intera esistenza,
non riusciva a non chiedersi come avrebbe fatto a lasciarlo andare
quando inevitabilmente fosse giunto il momento, ora che ricordava la
sensazione di stare semplicemente tra le sue braccia, senza
passionali pretese a sconvolgere la dolce semplicità di quel
gesto.
La melodia era cambiata adesso, ma il ritmo dei loro
passi era rimasto immutato, così come il sordo martellare
del
proprio cuore, che non accennava a rallentare neanche adesso che lui
si stava delicatamente allontanando da lei.
Con ancora la presa
ferrea sulla sua vita, percepì ogni movimento del suo corpo
pur
senza avere il coraggio di alzare lo sguardo dal tessuto stropicciato
della camicia di seta finché non fu lui a costringerla a
farlo,
quando posizionò il proprio viso esattamente davanti al
suo.
Nonostante i tacchi, lui la superava di un paio di
centimetri, quel tanto che bastò a far sì che gli
occhi
incontrassero le sue labbra prima delle iridi azzurre. Una sosta che
le costò parecchia fatica e un'aritmia.
Sul viso accaldato
dall'emozione e dal prolungato contatto col tepore del suo torace, il
tocco delle dita lui -venuto a scacciare una ciocca ribelle dal suo
viso- giunse fresco e ristoratore, al punto che un brivido la colse,
scivolandole mellifluo lungo tutto il corpo, fino ai piedi. Con
calcolata lentezza lasciò che indice e medio ne disegnassero
il
delicato profilo, scendendole dallo zigomo verso la curva sottile del
collo: ad occhi chiusi, Kate ne seguiva il tracciato, guidata dal
formicolio che voluttuosamente stava rigenerando i nervi sottopelle,
sopiti da tempo, e che le rimaneva impresso anche quando le dita
avevano abbandonato un angolo di pelle per accarezzarne un
altro.
Lo
sentì esitare all'altezza della gota, in un tremolio di
polpastrelli
che si diffuse al suo intero volto, e d'istinto piegò il
proprio
viso di appena qualche grado, quei pochi millimetri necessari a che
l'inclinazione cambiasse e le dita potessero tornare a scivolare
indisturbate lungo la linea del collo.
In quel tocco sentiva di
starsi gradualmente sciogliendo. Ma ebbe la forza necessaria a
riaprire gli occhi, bramosa di godersi con ogni senso -vista inclusa-
quel risveglio del proprio corpo sotto lo sguardo ardente e
imperscrutabile di lui. Quando quella traversata fu conclusa, conscia
che presto lo spazio sarebbe tornato a separarli, lei tuttavia non si
mosse ancora, lasciando a lui il compito di terminare quella danza in
cui si erano incomprensibilmente lanciati e che in quel tocco si
stava esibendo nell'ultima spettacolare piroetta.
Era la Morte del
Cigno, la fine dello spettacolo: Kate lo sapeva ma non fece nulla per
andarle incontro, rimase invece in attesa del suo arrivo, annunciato
dall'ultimo gesto di Castle, il cui viso si sporse in avanti verso il
suo, accostandovisi, fino a che le loro gote non si sfiorarono.
Fu
appena un sussurro, un mormorio impercettibile confidatole
all'orecchio come il più terribile dei segreti. Il soffio
caldo del
suo alito contro la pelle, già rovente, del lobo la
raggiunse ancor
prima del suono della sua voce, e un' ondata di calore le avvolse le
viscere in un misto di piacere e turbamento insieme. Il dolore
arrivò
dopo, insieme alle sue parole, lame affilate spinte senza
pietà
dentro le sue carni ormai prive di difese.
«Sono stanco
Kate, così stanco... Io mi arrendo, ufficialmente»
Rimase
pietrificata, una statua di sale in mezzo a una pista da ballo
gremita di gente. Unica nota stonata di uno scenario di festa
altrimenti perfetto.
Immobile lo sentì scivolargli via
dalle dita ancora una volta -per l'ultima volta?-, sempre immobile lo
vide allontanarsi, guadagnando l'uscita stavolta per sempre.
La
ciocca ribelle le ricadde sul viso, lì dove prima s'erano
posate le
sue dita.
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Non
mi dilungherò
in scuse che non interessano a nessuno. È passato
un secolo, lo
so. Sono imperdonabile, so anche questo. Estate, studio e mancanza di
ispirazione sono un mix tossico, specie di fronte a capitoli come
questi, così dannatamente difficili per motivi che ancora
ignoro.
L'attesa carica di aspettative e spero di non averle deluse. Mi
auguro che il ritardo degli aggiornamenti non vi abbia scoraggiato
troppo, questa storia finirà è una promessa: un
ultimo capitolo, un
breve prologo e finalmente la vedrete conclusa -spero nel minore
tempo possibile. Nel frattempo, se vorrete, sarò come sempre
felice
di sapere cosa ne pensate.
S.