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Autore: rossella0806    16/09/2015    3 recensioni
Philippe Soave è uno psicologo infantile che lavora presso il "Centre Arcenciel" di Versailles, una sorta di scuola che ospita bambini e ragazzi disagiati, a causa di dinamiche famigliari non proprio semplici.
Attraverso il suo sguardo appassionato, scopriremo la realtà personale dei piccoli e grandi ospiti, ognuno dei quali troverà un modo per riscattarsi dalle ingiustizie della vita.
Ci sarà anche spazio per sorridere, pensare e amare!
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Un sabato assai movimentato



Chi di voi non vorrebbe vivere in una città affacciata su questo bellissimo paesaggio?!



                                                                               



Quel sabato mi svegliai con una sola idea in testa, prendere la mia Peugeot rossa e andare a fare un giro al lago, dove avrei gustato un buon piatto di pesce e magari ne avrei approfittato per fare una nuotatina fino all'altra sponda, per poi tornare a casa dopo il tramonto, stanco ma soddisfatto di come era andata la giornata.
La sera prima, in televisione, facendo zapping per l’inspiegabile solita penuria di programmi di fine stagione televisiva, dopo lunghe e faticose ricerche, ero approdato su un canale dedicato ai documentari in giro per il mondo.
Tra i servizi, quello che più mi aveva colpito - e non so spiegarne il motivo-  riguardava il Michigan lake, nel cosiddetto stato dei Grandi Laghi, nelle vaste terre d’America.
Il lago in questione, comprendente gli Stati del Wisconsin, dell'Illinois, dell'Indiana e dell'omonimo Stato da cui prende il nome, vanta un'origine glaciale e il termine con cui è ormai noto da oltre tre secoli deriva da una parola dei pellerossa, meicigama, che significa grande acqua.
Le sue spiaggie sono famose per essere ricoperte di una sabbia soffice e bianchissima, ricca di quarzo e, per questo, definite anche singing sands, la sabbia che canta.
Il documentario concludeva il viaggio con una veduta aerea di Chicago, una delle città che si affacciano sul Michigan lake.
Certo, il laghetto che si trova a una trentina di chilometri da Montigny non è esattamente uguale al suo cugino d’oltreoceano, tuttavia è il solo che conosco nelle vicinanze e l’unico facilmente raggiungibile.
Quella notte,
però, non avevo sognato alcun bacino lacustre, nemmeno una misera fontanella che spruzzava acqua sporca, niente di niente.
Avevo invece immaginato di trovarmi insieme ad Odisseo - o Ulisse, se preferite chiamarlo alla latina- sulla sua nave, proprio durante il temibile canto delle sirene, i mostri marini metà donna e metà pesce, che ammaliavano con la loro sovrannaturale voce gli sventurati marinai che passavano rasenti le coste sorrentine, nel sud Italia, facendoli impazzire e di conseguenza, ormai troppo vicini alle rocce, naufragare per poi divorarseli.
Ma grazie all'ingegno del nostro condottiero greco e ai consigli della maga Circe, riuscimmo a cavarcela, le orecchie tappate con la cera, Odisseo legato a un albero della nave, apparentemente incurante e sprezzante del pericolo mortale che stavamo rischiando di correre; alla fine, le furbe sirene, vistesi sconfitte, si affogarono in mare ...
Proprio nel momento in cui mi stavo congratulando con l'eroe, mi ero svegliato improvvisamente.
Altro che singing sands ... non devo più farmi suggestionare da certi programmi ...
Mezzo addormentato, la testa inabissata sotto il cuscino, una mano a tastare sul comodino, avevo finalmente afferrato le antenne in plastica dell’ape regina che mi faceva da lampada; immerso nella penombra mattutina, con la finestra alle spalle, non riuscivo però a leggere con chiarezza le cifra sul quadrante della sveglia lì accanto.
Sbattei un paio di volte le palpebre e, scattando come un’anguilla in amore, mi misi a sedere sul letto: accidenti, come era possibile che fosse così tardi?
Erano le dieci, un’ora decisamente tarda per i miei canoni.
Sbuffai arrabbiato con me stesso: gli unici due giorni di relax dal lavoro, ovvero quelli del week end, non potevo certo passarli a poltrire sotto le coperte!
Chi dorme non piglia pesci! come amava ripetermi mia madre e, in effetti, quel proverbio italiano lo trovavo decisamente azzeccato, dato il mio proposito di recarmi al lago.
Balzai dall’altro lato del letto, scostai le tendine e tirai su le veneziane: c’era un sole meraviglioso e caldo di fine aprile.
Mi ricordava le giornate all’alba, in riva al mare – non che io avessi mai fatto un risveglio sulla spiaggia, intendiamoci- così, dal momento che a Montigny o nei paraggi non c’è neppure mezzo litro di acqua di mare, l’idea
formidabile che avevo avuto poco prima, attraversò con maggior vigore la mia mente, ora perfettamente sveglia: sì, era deciso, sarei andato al lago, trenta chilometri di strada per assaporare un po’ di brezza lacustre!
Niente e nessuno avrebbe potuto fermarmi!



Mentre facevo colazione con il solito succo d’ACE, mezzo bicchiere di latte e un croissant spalmato di marmellata ai mirtilli –lusso che mi permettevo quando ero a casa dal lavoro- mi accorsi dal frigo mezzo vuoto e la credenza che reclamava attenzione, che avrei dovuto andare a fare la spesa: forse è meglio andarci al ritorno, così magari ci sarà meno gente al supermercato. Oppure è meglio andare prima, in modo da non avere il pensiero di tornare in fretta a casa?
Stavo ragionando su quelle due possibilità, quando sentii suonare alla porta.
Guardai il dolce mezzo mangiucchiato davanti a me, la confezione di succo ormai in procinto di finire e, asciugandomi con il tovagliolo la bocca sporca di latte, mi alzai dalla sedia.
Certo, pensai, non sono propriamente presentabile: avevo i capelli ancora arruffati, sconosciuti a quello strano arnese che si chiama spazzola, una maglietta bianca con la scritta rossa Rock e una specie di Medusa a tre teste stampata sopra - quello era proprio il giorno dedicato alla mitologia, dovevo ammetterlo- e un paio di pantaloncini leopardati a completare il quadro di fantascienza.
Mi avviai incuriosito verso la porta d’entrata e, dopo aver dato un’impressione vagamente normale alla folta chioma castana che mi incornicia il viso, la aprii.
Mai stupore fu più gradito e sgradito al contempo:
“Papà?!”
“E chi sennò?!”
Uhm, iniziamo bene! pensai: mio padre, infatti, quando scherza ancor prima di cominciare un discorso, non promette nulla di buono; di solito, infatti, ha qualche brutta notizia da comunicare.
“Vuoi entrare?” tentennai, non sapendo bene cosa dire o come comportarmi.
“No, grazie. Sai com’è, passavo di qua, giusto dietro l’angolo rispetto a Lione, e mi sono detto: perché non passare a salutare Philippe, il mio unico figlio maschio? L’intelligente di famiglia? Ma che razza di domande fai, figlio?! Secondo te, ho fatto cinquantasei chilometri per che cosa? Per rimanere ad aspettare fuori casa tua come l’ultimo dei randagi? Su, spostati!”
Non ebbi il tempo necessario a farmi da parte, che già Edmond, il mio caro e affettuoso genitore, mi aveva gentilmente levato di torno.
Lo guardai interdetto mentre attraversava l’anticamera e il breve corridoio, per dirigersi come un missile con il radar incorporato verso il salotto: da quando ho preso casa, ormai tre anni prima, la mia famiglia è venuta
a trovarmi solo due volte, quindi rimasi piacevolmente stupito che si ricordasse ancora così bene la planimetria della villetta.
Richiusi la porta automaticamente, la bocca semi aperta per la sorpresa: squadrai mio padre dalla testa sale e pepe fino ai piedi calzati da un paio di mocassini in stile hawaiano, data l’eccentricità dei colori.
Il suo viso dalla mascella greca –come amava definirla lui stesso- era più accentuata e scolpita che mai, sotto gli occhi grigioverdi e quei pochi capelli brizzolati ma folti che gli sono rimasti.
Indossava una camicia verde acqua con le maniche tirate su a trequarti e un paio di pantaloni lunghi color petrolio, con due grandi tasche laterali.
Edmond si piazzò vicino al divano e, le mani sui fianchi, sbuffò:
“La vuoi piantare di guardarmi con quell’aria da rincitrullito!? Forza, Philippe, ho fame: avresti un po’ di caffè e delle madleins da offrire a un povero, stanco e triste vecchio?”
Quelle gentili parole mi fecero chiudere il forno in mezzo alla faccia all’istante: annuì debolmente, per poi ribattere cantilenante:
“No, papà, in realtà non ho né caffè né madleins. Sai che quella brodaglia quasi non mi piace. Però ho della marmellata ai mirtilli, del latte, dei croissant e dell’ACE …” elencai prontamente, con il cipiglio da cameriere e ritrovando la mia solita calma.
“Puah!” mio padre scacciò dal suo viso una mosca invisibile, poi, sempre con parole lusinghiere, continuò:
“Per carità! Bevi ancora quell’affare?! Preferisco di gran lunga dell’acqua, piuttosto che quella specie di concentrato di frutta rinsecchita!”
Poi, pensandoci su un attimo, domandò innocentemente:
“I croissant sono freschi?”
Feci di no con la testa.
“Dovevo aspettarmelo! Almeno sono alla ciliegia?”
Feci di sì con la testa.
“Ah, molto bene, figlio, davvero molto bene!”
Dandomi una pacca sulla spalla destra, si avvicinò al sottoscritto, che si era rintanato di fianco al caminetto, impalato come uno stoccafisso.
“Vieni, andiamo in cucina …” riuscii solo a mormorare.


Una volta seduti, ricollegai una cosa che, di primo acchito, mi era sfuggita: cosa ci faceva mio padre con una valigia? E per di più a casa mia, lontano, come aveva precisato lui, cinquantasei chilometri da Lione?
Formulai ad alta voce quel dubbio.
“Allora l’hai vista …” mi rispose enigmatico, mentre addentava il terzo croissant e lo inzuppava nel secondo bicchiere di latte.
“Beh, non sono ancora orbo, papà …”
Lui annuì serio e, smettendo di mangiare, con voce mesta, mi annunciò:
“Tua madre mi ha cacciato di casa”
Avevo preso posto all’altro lato del tavolo quadrangolare rispetto a dove si trovava, per poter affrontare faccia a faccia gli eventuali chiarimenti che sentivo mi avrebbe dato di lì a poco e che, infatti, non tardarono ad arrivare.
“Cosa?!” sbraitai, facendo quasi oscillare il tavolo  “ma cosa vuol dire?! Cosa stai dicendo?!”
Mio padre allargò le mani in un gesto di sconforto, come a voler significare che non fosse colpa sua, che lui non c’entrava nulla.
“Non so dirti il perché, Philippe, so solo che tua madre dice in continuazione di aver bisogno di una pausa di riflessione e dei suoi spazi per fare ... beh, fare tutto quello di cui sente la necessità. Ed io, evidentemente, non faccio parte delle sue priorità” concluse amareggiato mio padre, guardando ipnotizzato il croissant mezzo mangiucchiato.
“Ma santo Cielo, papà!” sbottai “siete sposati da quarant’anni …”
“Quarantaquattro il prossimo 24 dicembre, figlio, esattamente la Vigilia di Natale” mi corresse affranto.
“Sì, insomma, quello che è … piuttosto, che cosa diavolo le è saltato in mente?! E tu? Tu non hai fatto nulla per fermarla, per capirla?! Possibile che di botto sia saltata fuori con questa richiesta?!”
“Non te la prendere con me, figlio! Se ti dico che non ne so nulla, non ne so nulla! Da quando siamo entrambi in pensione, tua madre è diventata troppo indipendente: non ha più voglia di stare da sola con me, insiste per uscire con i suoi ex colleghi, s’intestardisce per andare a trovare Claire e Jeanne, perché dice che senza di lei sono perse!”
Claire e Jeanne sono le mie due sorelle – rispettivamente di dodici e nove anni più di me- che ancora abitano a Lione, a differenza di Agnése – di quattro anni più grande- che abita a Parigi.
“Ah beh, certo … sono ancora due bambine” puntualizzai ironico, per vedere se riuscivo a tirargli su un po’ il morale.
“Sai che per tua madre siete ancora tutti dei poppanti, sebbene abbiate passato da un pezzo i trent’anni …”
“Io no!” balzai sull’attenti  “li devo fare quest’anno, il 2 agosto, o già te ne sei dimenticato?”
“Volevo vedere se stavi attento a quello che ti stavo dicendo, Philippe” mi redarguì mio padre, ma si vedeva che non lo aveva detto per finta.
“Sei proprio sicuro che tra voi due non sia successo nulla? A me puoi raccontarlo …” cominciai con tono conciliante, sistemandomi meglio sulla sedia bianca.
“Non cominciare ad atteggiarti da psicologo!”
“Ma è quello che sono, papà” ribattei con un sorrisetto sardonico.
“Sì, ma non con me! Non sono uno dei tuoi ragazzini bisognosi di strizzacervelli!”
“Non sono uno psichiatra …” puntualizzai cantilenante, le mani incrociate davanti a me.
“Oh, smettila di correggermi, Philippe!”
Sorrisi divertito.
“Scusa, papà, hai ragione! Allora, se sei assolutamente certo di non aver fatto nulla, forse la mamma ha solo bisogno di stare un po’ con se stessa, di trovare la sua strada, ora che anche lei è in pensione. Sai, credo che da quando è a casa tutto il giorno, le ore non le passino più. L’ultima volta che l’ho sentita al telefono era talmente allegra che non mi ha fatto parlare per un minuto di fila! Ha bisogno di capire come impiegare il proprio tempo senza dare fastidio agli altri, a te per primo …”
“E per fare questo doveva per forza sbattermi fuori di casa e mettermi contro Zeus e Salomone?!”
Per la cronaca, Zeus e Salomone sono rispettivamente il cane e il gatto dei miei, che hanno preso il posto dei miei adorati Sylvie e André, i quattro zampe che avevo quando ero piccolo.
Di criceti, invece, oltre a Lise, non avevano più bissato.
Mio padre continuò ad addentare il suo terzo cornetto, prendendo a borbottare frasi che non capivo.
“Non devi comportarti da bambino offeso, non è così che l’aiuterai, credimi. Perché non provi a chiamarla e a dirle che ti manca, che le darai maggior spazio per fare quello che vuole, da sola, senza che ci sia sempre tu, dietro ogni uscita, ogni idea…?”
“Ci avevo già pensato, figlio, che ti credi? Quando
stamattina me ne sono andato via di casa, era già pronta per andare da Jeanne, a curare i nipoti! Figuriamoci! Prima o poi sarà lei ad essere cacciata, te lo dico io! Mi ha salutato frettolosamente, da lontano, e mi ha detto che non avrebbe sentito la mia lontananza ... è impazzita, Philippe, non ho altra spiegazione!"
Scossi la testa pensieroso:
"Non è diventata matta, papà, le è solo venuta addosso una gran voglia di fare, di rendersi utile. Desidera fare qualcosa per gli altri, si preoccupa che il suo lavoro venga riconosciuto come importante, forse addirittura fondamentale! E tu devi capirla, se davvero le vuoi bene ..."
"La fai facile tu, chi ti vede, ormai, da quando ti sei trasferito qui?"
Per un secondo mi sentii in colpa: forse non aveva tutti i torti, forse avrei dovuto essere più presente, essere maggiormente partecipe alle vicende della mia famiglia ... ma non si è mai fatto nulla con i forse, con i se, e quella era la mia vita, è la vita che ho scelto, da cui non voglio certo tornare indietro.
"Ah, ha anche detto di salutarti e ti manda un paio di confezioni di quei dolci che tanto ti piacciono …”
Mio padre si alzò da tavola, andò in salotto e tornò poco dopo con un sacchetto di carta dorata, con una grande scritta a lettere gotiche nel mezzo: Famille Livor.
Presi il regalo dalle sue mani e, sbirciando golosamente, tirai fuori tre pacchetti di blanche soleil, una sorta di meringa farcita con del pandispagna al cacao, che io letteralmente adoravo e divoravo.
“Ringrazierò la mamma oggi stesso. Tu, intanto, chiamala, almeno le dici che sei arrivato sano e salvo! Le farà piacere, ne sono convinto!” ripresi, spostando l'attenzione su papà.
“Io per nulla, sono certo che non le importa un bel niente del sottoscritto…” ribatté amareggiato, finendo finalmente la sua lunga colazione.
“Se non la chiami immediatamente e non vi chiarite, lo farò io e, anzi, non ti ospiterò, mi spiace! Non potete comportarvi da ragazzini alla prima cotta!” lo ricattai, mentre ero tentato di assaggiare una di quelle meraviglie che avevo davanti a me.
“Arriviamo anche a questi sporchi giochetti! Bravo, Philippe, sono davvero orgoglioso di te!”
Scossi la testa sconsolato: prevedevo un sabato a dir poco disastroso.
La mia brillante idea della gita al lago stava piano piano sgretolandosi.
“Quanto tempo hai intenzione di rimanere, papà?” domandai innocentemente, con l’intenzione di posticipare il giro lacustre per il giorno successivo.
“Non lo so: fosse per me, me ne andrei via anche subito. Senza togliere nulla a questo gioiellino, s’intende!” si affrettò a precisare, guardandosi attorno compiaciuto e riferendosi alla mia casa.
“Mentre tu chiami la mamma, perché so che lo farai, io andrò a fare un po’ di spesa … d’accordo?”
“Cos’é? Mi vuoi far rimanere qui a guardia del tuo castello?”
Alzai gli occhi al cielo, nella speranza di non perdere le staffe.
Altro che mia madre, pensai, da quando è andato in pensione, lui è diventato peggio, burbero e sucettibile come non l’ho mai visto!
Mi stavo alzando per riordinare il tavolo, quando sentì di nuovo suonare alla porta.
“Ma vi siete messi d’accordo, oggi, per rovinarmi la giornata?!” sbottai, mentre facevo scorrere l’acqua corrente nei bicchieri.
Chiusi il lavandino e, asciugandomi distrattamente le mani, mi diressi verso l’ingresso, per vedere chi fosse.
Sperai inutilmente che si trattasse di Vivianne, almeno lei saprebbe come trovare il lato comico della situazione, ma sapevo che non poteva essere la mia vicina di casa, dal momento che la sera prima mi aveva avvisato che avrebbe trascorso il finesettimana in compagnia di Alexis il marcantonio.
Quando aprii la porta, rimasi ancora più sbalordito e a bocca aperta rispetto a quando avevo visto mio padre, nemmeno mezz’ora prima.
“Liliane?! Cosa ci fai qui?!”
Questa volta, purtroppo, notai subito la valigia blu notte che portava con sé.
“Posso entrare?” mi domandò, singhiozzando impercettibilmente.
Deglutii un paio di volte e, rassegnato, le feci cenno di sì.
Se si presenta un’altra persona, giuro che cambio casa!  promisi, seguendo mestamente la nuova venuta.
Addio, lago, chissà quando ci saremo visti … riuscii solo a pensare, per poi essere risucchiato in cucina, in mezzo alla facce stupite di entrambi gli ospiti.
   
 
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