XII
“Questo
è il nostro mondo.” afferma il ragazzo.
“Presumo
si possa definire così.”
“Allora
perché non ci viviamo?”
“Non
ce lo permetterebbero.”
“Distruggiamo
quelli che ci minacciano.”
“Roxas,
tempo fa abbiamo discusso e tu hai questionato, anche piuttosto tenacemente, la
nostra ostilità nei confronti degli esseri umani. Mi pare ci fossimo
arenati sulle motivazioni. Quindi, sei finalmente arrivato a una conclusione e
hai trovato una ragione valida per combattere.”
Roxas
abbandona il suo posto di osservazione alla finestra e si accovaccia accanto a
Zexion.
L’uomo
si è liberato del giaccone ed è sdraiato sulla schiena, infilato sino
alla vita nello stretto spazio alla base di uno dei computer.
“Questa
è una ragione valida e non solo per me. Me lo hai detto proprio tu,
combattiamo per sopravvivere. Zexion, non capisco. Cancelliamo popolazioni di
pianeti che non ci hanno fatto niente, non capisco perché proprio in
quest’occasione, quando una ragione vera ci sarebbe, vi siete tirati indietro.
Non capisco perché dobbiamo lasciare che siano loro a permetterci di
vivere e dove.”
“Un’altra
cosa che hai sentito dire da Marluxia?”
“Non
solo da lui. Anche da Larxene e Demyx. Hanno ragione.”
“Guarda
che non ho detto che non hanno ragione.”
“Allora
sei d’accordo.”
“Non
ho detto neppure questo.”
“Tu
non dici mai né sì né no.” brontola Roxas “Complichi sempre tutto.”
“Tu,
invece, vuoi semplificare tutto, vero? Ti sei compilato un bell’elenco di
condizioni che comprendono ogni singolo aspetto della realtà, tutte
rigorosamente classificate e separate, in modo che ogni situazione che
incontri ricada in una e una sola di esse. Non funziona così, Roxas. Il mondo
non ci fa la grazia di essere suddiviso in settori. Ci sono infiniti gradi di
indeterminazione, tra ogni possibilità.”
“A furia di fermarti in mezzo a qualche grado di indeterminazione, per te ogni azione pensabile ha talmente tante sfaccettature, talmente tanti possibili effetti che, alla fine, corrispondono tutte e così non sai più decidere cosa fare.” ribatte con forza l’adolescente.
Zexion
riemerge dalle viscere della macchina con alcuni cristalli bruciati fra le mani.
Roxas
sa benissimo che a nessun altro sono permesse simili affermazioni e i limiti di
tolleranza non spariscono per lui. E’ solo che Zexion gli permette di
superarli. Fino
a questo momento, gli ha permesso di superarli quanto ha voluto. Vagamente si
chiede se, questa volta, non si è spinto un po’ oltre il consentito. Se non ha
varcato il confine della sua condizione di privilegio.
Ma
il giovane si limita a prelevare dallo zaino nuovi elementi con cui sostituisce
quelli consumati, poi si siede al computer e avvia una serie di sequenze
diagnostiche.
“Io
non sono sicuro di quali siano i tuoi motivi.” mormora il ragazzino
“Ti avevo anche chiesto se dovremmo combattere per sempre. Adesso rispondimi.
Sarà sempre così?”
“Sempre
è un periodo un po’ lungo per non aspettarsi dei cambiamenti.”
“Allora
cosa faremmo, dopo?”
“Dopo?”
Roxas
annuisce lentamente.
“Qualcuno
degli altri si aspetta solo di arrivare all’obiettivo, non pensano a dopo. Non
ho mai sentito nessuno parlare di dopo.”
Non
si parla mai di dopo. Dopo è uno di quegli argomenti proibiti,
uno di quei pensieri che non si fanno. C’è un ben preciso punto limite a dove è concesso
chiedersi del futuro. Oltre quel momento, è territorio dove non ci si addentra,
neppure con la fantasia. Ma Roxas ne ha davvero abbastanza di tutte le cose che
potrebbero essere dette e non si dicono.
“Si
aspettano di tornare alla vita che avevano prima, Zexion. Come se questi anni non
fossero mai avvenuti, come se l’istante della loro morte e quello della loro
rinascita finiranno per coincidere e tutto il tempo che intercorre fra essi
svanirà.”
“Non è quello che pensi
tu?”
“No.”
“Perché?”
“Anche
se diventassero umani, quello che è successo non può essere cancellato, e
neanche quello che è stato causato.”
“Esatto.
Gli eventi esistono dal momento in cui vengono a essere. Le loro conseguenze si
riversano nel tempo come del colore versato in un fiume. Esiste
sino a quando arriva al mare e continua a esistere anche dopo. Si diluisce, ma
non scompare.”
“Allora
ho ragione. Dovremmo fare qualcosa.”
“Roxas,
non dico che smetteremo di combattere, solo che le cose non restano
infinitamente immutate, ma i cambiamenti non sono orientati necessariamente verso
situazioni meno difficili o critiche. Gli ambienti obbligano ad adattarsi, ma
l’adattamento avviene nei confronti delle condizioni del momento, che, per
natura dell’universo, sono soggette a un continuo evolversi e quello che adesso
si presenta come una caratteristica favorevole, al variare delle condizioni può diventare uno svantaggio. Per non combattere, implichi il
raggiungimento di uno stato tanto superiore alle avversità da non considerarle
tali, qualunque esse siano. In pratica, uno stato perfetto. Oppure un universo
statico. La prima condizione è una speculazione teorica, la seconda sarebbe lo
stato di massima entropia del multiverso. Impossibile, visto che non tutti i
Mondi si evolvono in quella direzione. In effetti, conosco un solo modo sicuro
per smettere di combattere. Non ti piacerebbe.”
“Non
importa. E’ lo stesso. Marluxia vorrebbe trovare un nostro posto per vivere,
ma noi abbiamo già un posto. Questo è il nostro mondo. Dovremmo vivere qui.”
“Lo
abbiamo fatto. Per
alcuni anni, questa è stata la nostra base. Anche dopo,
quando ci siamo trasferiti nel mondo nero, abbiamo mantenuto questo
acquartieramento. Lo ha usato sopratutto Vexen quando cercava di ottenere nobody. I nobody naturali si materializzano sempre su questo pianeta.
Hanno bisogno di una grande quantità di Crepuscolo e questo universo ne è la
sorgente più pura. E’ possibile sopperire solo fornendoli artificialmente della Forza. Naturalmente, è molto più semplice essere qui. Adesso è di nuovo
tutto funzionante.” sfiora con la mano il ripiano del computer e storce il naso
“Polveroso, magari… Ma è accessibile solo ai nobody. Perlomeno, fino a
quando qualche umano non troverà modo di entrarci. Negli hangar ci sono anche tre navi
perfettamente funzionanti, tu hai visto il posto e come
arrivarci.”
“Non
mi hai risposto, Zexion. Perché non siamo rimasti? Questo Mondo è isolato
quasi quanto il nostro. E’ sicuro ed è un pianeta vivo. Perché non
avete combattuto per restare?”
“Ricordi
i tuoi primi giorni? Tu sei nato quello che sei, noi abbiamo dovuto impararlo. I
nostri sensi e i nostri pensieri erano i nemici peggiori. Vedevamo immagini che
non sapevamo come interpretare, sentivamo suoni generati dal nulla, voci che non
tacevano mai. Avvertivamo correnti, come i pesci avvertono le correnti del mare.
Percepivamo cose che non avevano nome né definizione. Quello che tu consideri
scontato, noi non lo sapevamo. Non sapevamo cosa eravamo, cosa potevamo fare,
cosa fare. Abbiamo combattuto. Contro un’immagine di noi che non
riconoscevamo, contro pensieri che sembravano quelli di un estraneo inseriti a
forza nei nostri crani. Non ci è mai venuto in mente di combattere contro altri
perché già dovevamo combattere contro noi stessi. Lo abbiamo fatto per
imparare, per non impazzire, per capire. Poi abbiamo trovato una casa sul
pianeta nero e, alla fine, abbiamo abbandonato completamente questo mondo.”
“La
vostra decisione è sempre illogica. Se qui non ci fossero esseri umani, i
nobody rinati sarebbero al sicuro.”
Zexion
si mette a ridacchiare sommessamente. Roxas vorrebbe ignorarlo, ma quello è un
comportamento che continua a disturbarlo e confonderlo, perché continua a non
riuscire a interpretarlo, né a interpretare le intenzioni chi lo compie.
Un
velo di discontinuità si origina a mezz’aria, quasi al centro della sala.
Attraverso quel velo, le immagini sono distorte, come se la luce subisse una
rifrazione passando una massa invisibile.
La
frustrazione di Roxas si manifesta nei guerrieri che lo seguono e uno di loro si
prepara a emergere dal piano delle ombre in risposta al suo disappunto.
L’alterazione
si allunga verso il suolo e si schiude in filamenti di Oscurità.
Deve
placare sé stesso per placare il suo guerriero. Appianare le onde di collera
che increspano la superficie della sua mente. Deve calmare il vento che smuove
le onde e, per calmare il vento, deve interrompere la sorgente che lo genera.
pace
Zexion
lo provoca con le parole, che sono solo espressioni di un pensiero. Allude
risposte lasciandole al di là della sua portata
Eppure,
questo significa che le risposte ci sono, che ha la possibilità di trovarle,
trovare la strada giusta.
La
provocazione può diventare un suggerimento. L’esasperazione trasformarsi in
un ulteriore stimolo a ottenere quello che vuole.
Dipende
tutto da lui. Zexion ha potere su di lui fino a quando glielo permetterà.
Questo
significa che lui ha potere su Zexion.
pace
mentedellamiamente
La
frattura fra i Mondi si rinsalda prima di schiudersi davvero, mentre il nobody
si ritira.
“Ridi
di me, Zexion?”
“No.”
“Stai
ridendo.”
“Non di te. Semmai rido per te. Davvero, non rido di te.”
Il giovane ha terminato il suo lavoro. Spegne i computer e inizia a chiudere i componenti cristallini sostituiti in astucci isolanti che ripone nello zaino.
“Abbiamo
sempre voluto convincerci che la
nostra fosse una condizione temporanea ed
è più facile crederlo quando vivi su un mondo morente, un mondo che è, esso
stesso, transitorio.”
“Non
è una buona ragione.”
“No,
certo. Vuoi la verità, Roxas? Non c’è ragione per cui non lo abbiamo fatto.
Non lo abbiamo fatto, ecco tutto.”
“Potremmo
farlo adesso.”
“A
questo punto, non credo che farebbe qualche differenza. Luxord ci direbbe che è
una delle tante occasioni lasciate indietro.”
Roxas
torna alla finestra. Scosta le tende polverose per osservare il cielo arancione,
congelato nel crepuscolo perpetuo.
Conosce
solo un’altra dimensione come questa. Quella dove si trova il pianeta di
Oblio, ma neppure quel Mondo è così intimamente legato alla forza del
Crepuscolo.
Per
una coincidenza cosmica, anche questo pianeta, la porta a questo universo, non
possiede un ciclo di giorno e notte. Uno dei pochi mondi abitati a presentare
quella caratteristica. Questo mondo mostra sempre la stessa faccia al suo sole.
L’emisfero illuminato è invivibile perché troppo caldo, quello buio perché
troppo freddo. Ma la fascia di penombra che suddivide le due aree è abitabile e
abitata da esseri umani.
“Questo
è il nostro mondo. Dovremmo vivere qui.” ripete.
“Sì, hai ragione. Dovremmo.” concorda Zexion.
Forse lo ha detto solo perché non vuol continuare a discutere.
Non
è nella sua natura non discutere, ma, naturalmente, non discuterebbe mai se ha
una buona ragione per accondiscendere.
Zexion
recupera la giacca, apre uno dei sentieri delle ombre e lancia a Roxas un indicatore mentale per
permettergli di tracciare la sua rotta e seguirlo.
“No.
Sono convinto che tu abbia ragione. Su, andiamo. Qui abbiamo finito.”
Non
è una strada verso Oblio e neppure verso il mondo nero. E’ un luogo che non
conosce, quello dove riemergono. Non sa che pianeta sia, tanto meno che
Mondo. Non ci è mai stato e, anche se ha memorizzato la mappa di tutta la rete
dimensionale nota, questo universo lo conosce solo come un numero.
Ha
già i keyblade in mano ed espande i sensi per scandagliare l’ambiente
circostante. Configurazioni di energia e Forze si compongono in un modello
mentale di quello che lo circonda.
Il
contesto spaziale e la sua posizione in esso sono le informazioni primarie che
riceve dall’esterno, insieme alle presenze vitali. Sono in un vasto spazio
parzialmente chiuso nella forma di un’arena a cielo aperto, dove le sole
creature viventi sono vegetali e piccoli animali non senzienti.
nonnemici nonpericolo
La
voce mentale di Zexion è rilassata e sicura e allora può rilassarsi anche lui
e bandire le armi. Non si aspettava davvero un ambiente ostile, visto che Zexion
non lo ha avvertito di nulla, né sono arrivati con particolari equipaggiamenti.
Ma quella sequenza esplorativa è ormai un riflesso condizionato e non c’è
davvero ragione per non lasciarla progredire. In ogni caso, è anche un modo per
soddisfare la curiosità.
Una volta processate quelle prime informazioni assimilate in modo quasi
automatico, cambia la prospettiva e il luogo dove si trova diventa una cosa da
scoprire, non solo una condizione di possibile minaccia.
Sono
in una grande spianata racchiusa fra quelli che sembrano muri di acqua ruggente.
Una piazza pavimentata di lastre variopinte, al centro della quale c’è una
vasca percorsa da un canale che attraversa tutta la piazza.
E’
notte, ma il pianeta orbita intorno a un sole, una nana arancione. Non ha
bisogno di vederlo per conoscere la sua posizione e sapere che tipo di sole è.
Le stelle sono sorgenti di energia radiante, ognuno con un proprio tracciato
caratteristico e, su qualsiasi mondo appartenente a un sistema stellare, il sole
emette un’armonia che varia con il ciclo orbitale. E’ solo un ronzio
sommesso, quasi impercettibile, quando è al nadir, eclissato dalla massa
planetaria, e diventa un ruggito furibondo allo zenit. Ma non tace mai.
Questo
non gli dice dove si trovano. Nell’universo, i pianeti orbitanti intorno a
stelle simili sono tra i più comuni.
Il
cielo è una distesa di luci. Forse è un mondo nel centro di una galassia o di
un ammasso stellare.
Fiumi
lattiginosi di rami galattici attraversano la volta celeste, e luce pulviscolare
di nebulose.
E
stelle.
Ne
ha visti tanti, di cieli, ma mai uno così pieno di stelle.
Si
avvicina all’estremità della piazza e non è una piazza. E’ solo la cima di
una rupe che si innalza in mezzo a una valle, una conca dalle pareti verticali e
altissime, completamente coperte da cascate.
Le
cascate scorrono al contrario.
Ci sono rovine.
Monconi di colonne scanalate agli angoli della vasca. Un arco e cumuli di
pietre vetrose in precario equilibrio sull’abisso, resti di quella che poteva
essere una porta. Anche le lastre che pavimentano il
suolo sono crepate, alcune in frantumi, e la vegetazione strisciante delle
brughiere e degli ambienti freddi si è fatta strada fra le spaccature.
All’estremità
opposta rispetto alla porta, inizia una scalinata ascendente verso l’elemento
più sconcertante del paesaggio. Un gigantesco castello, la costruzione terrestre più enorme che Roxas abbia mai visto, tanto
grande da nascondere buona parte del cielo notturno con la sua massa incombente. Compete
con la loro stessa base, ma ogni similitudine si ferma alle dimensioni. E’ una
massiccia e ridondante massa di bronzo e pietra color ruggine, e non ha nulla
della loro casa, simile allo scheletro di un radiolare.
C’è
anche qualcosa che ricorda Oblio nel modo in cui l’architettura sembra sfidare
ogni logica geometrica. Lo ricorda solo, non gli assomiglia. Oblio appare come
una serie di elementi assemblati senza ragione, mentre questa costruzione è
alterata, come se la sua struttura originaria avesse subito un collasso
dimensionale.
No, è
diverso da qualsiasi cosa abbia mai visto.
E’
sbagliato.
Alcune
torri cominciano normalmente, poi, a circa metà della loro altezza, assumono
una configurazione a spirale, avvolgendosi intorno a sé stesse o a torri
vicine. Altri pinnacoli nascono dalle stesse torri, sbucando irragionevolmente
dalle finestre, oppure dai muri, come se la materia si fosse scissa. Elementi
simili a larghi dischi di metallo e cristallo, appesi a linee di
energia che si diramano dal castello, volteggiano intorno alla costruzione.
Una
rovina, proprio come le rovine che lo circondano.
Alcune
strutture sono evidentemente mozziconi e ci sono squarci nei muri che scoprono
complessi ingranaggi, cavi, serpentine e brillanti campi di energie crepitante.
Come
la loro stessa dimora, anche questo palazzo è in realtà un meccanismo.
Probabilmente, è il sistema che controlla il movimento delle cascate e dei
dischi.
Una
rovina distorta, ma ancora funzionante.
Zexion
ha già iniziato a risalire la scalinata.
“Non
possiamo usare i corridoi?” chiede il ragazzino.
“Possiamo. Possiamo anche usare uno dei dischi, ma io ho intenzione di camminare. Puoi aspettarmi in cima alle scale. Non entrare nel castello senza di me.”
Roxas
osserva incredulo la lunghissima scalata. Rampe di scale che uniscono
piattaforme sospese sull’abisso schiumante di gorghi d’acqua che li separa
dal castello. Scavalcano tutto il baratro e continuano poi la loro risalita
sulla parete della valle, con le cascate che scorrono ai lati.
Sgretolate,
corrose, ricoperte da detriti. In alcuni punti, i gradini sono quasi scomparsi.
“Roxas,
ti ho chiesto se volevi venire. Potevi restare a Oblio. Tornaci, se preferisci,
o va direttamente a casa. Adesso non hai più bisogno che ti apra la strada.
Puoi fare quello che vuoi.”
Zexion
è irritato dalla sua esitazione.
Ha
ragione. Lui può andare dove vuole, senza permessi o aiuto. Lo
sapeva già e suoi indugi sono inutili.
“Vengo
con te.”
Il
mondo di Roxas diventa una sequenza di scale.
Nel
primo tratto, quella che forma il ponte a cavallo dello strapiombo, i gradini
sono in condizioni relativamente buone, la pendenza ridotta e le piattaforme
sospese che interrompono le rampe permettono pause nell’arrampicata.
Sarebbe
facile, se non fosse per le cascate.
E’
fradicio quasi subito.
E’
tentato di tessere uno schermo protettivo, ma la salita è ancora lunga. Non è
il caso di sprecare energie per qualcosa così futile ed è altrettanto inutile
cercare di asciugarsi. Sarebbe di nuovo subito bagnato. La sola cosa che può
fare è passarsi il dorso delle mani sugli occhi ogni pochi minuti.
passo dopo passo dopo passo
Le
relazioni spaziali reciproche fra scala e cascate non sono costanti.
Rispetto
a loro, talvolta l’acqua sale in parallelo verso l’alto. Talvolta, cambia
angolazione. Qualche volta, scorre in perpendicolare. Qualche volta, scende
verso il basso.
passo
dopo passo dopo passo
Le
condizioni del cammino peggiorano quando raggiungono la parete della valle e
inizia il sentiero sul costone. La scalinata ha una pendenza ripidissima e
un’alzata anormale.
Zexion lo precede, cauto e
deciso, usando i sensi acutissimi per
trovare le vie più sicure. Neppure una volta smuove un solo pezzo di pietra.
C’è
ghiaccio e un po’ di neve su quei pochi metri di roccia libere che sta tra il
sentiero e le acque correnti, ma i gradini sono in gran parte sgombri. Deve
esserci un meccanismo di scioglimento ancora parzialmente funzionante.
Nonostante
la sua forza, è una cosa cui non è abituato, questo lento, costante, monotono
impegno muscolare. Questo stare attento a ogni mossa di Zexion, badare di
seguire esattamente i suoi passi, appoggiare mani e piedi dove li appoggia lui,
fare attenzione al ghiaccio che, in modo irregolare e insidioso, si è formato
sulla pietra. Pronto a cadere da un momento all’altro, pronto ad aprire un
portale se dovesse accadere, o a combattere la caduta.
Anche
con acqua e vento, presto è accaldato e assetato. Sfila il giubbotto e se lo
lega in vita, ma non serve a molto.
Indubbiamente,
la salita è resa più difficoltosa dalle condizioni delle scale e un tempo
doveva essere ben più agevole, ma se è stancante per lui, per gli abitanti
umani del pianeta deve essere sempre stata un impegno tremendo. Chissà allora
perché costruire una cosa simile.
Chissà
perché fare delle cascate che precipitano verso l’alto.
Perché
Zexion ha voluto dedicarsi a questo irrazionale esercizio ginnico fuori
programma, piuttosto.
Naturalmente,
potrebbe ancora andarsene e lasciarlo alle sue risposte con tanti significati da
non averne nessuno.
O,
magari, dargli una spinta.
passo
dopo passo dopo passo
Man
mano che si avvicinano, il castello perde una sua identità per diventare solo
una massa informe e oppressiva. I segni della decadenza, invece, si definiscono. Si precisano quelli che, a
distanza, si perdevano come particolari nell’insieme e, dagli squarci nelle
mura, i meccanismi penzolano come grovigli di intestini di una bestia sventrata.
Ma
il disagio non è solo per questo. E’ anche a causa del tessuto spaziale
malato di questo posto. Esserci, è come sentirsi strattonare contemporaneamente
da ogni parte.
Per
fissare definitivamente una condizione simile, in questo luogo deve essere stata
rilasciata una quantità immane di energia.
Si
arrampicano da più di un’ora e Roxas comincia a desiderare realmente una
pausa, ma la sua guida è instancabile. Non sbaglia un movimento, non si ferma,
non rallenta, non cambia mai andatura.
Il
ragazzino si chiede quanto dei suoi poteri mentali stia usando per calibrare la
propria attività fisiologica e adattarla allo sforzo.
passo dopo passo dopo passo
Tutta
quell’acqua intorno aumenta la sete. Di tanto in tanto, stacca dalle rocce qualche
pezzo di ghiaccio e lo mette in bocca.
Davanti
a lui, ormai, vede solo la mole del castello. E’ come essere chiuso in
uno spazio che, a ogni gradino superato, diventa sempre più limitato.
Gli
pare quasi di soffocare e ora deve proprio fermarsi.
Si
gira, verso dove può ancora vedere il cielo. La scalinata che hanno già
percorso è una discesa a picco verso la valle da dove sono partiti.
Alza
gli occhi, dopo che li ha tenuti fissi a terra tanto a lungo.
Una
grande stella dorata è il corpo celeste più evidente. Una complicata struttura
di taglienti bagliori metallici. Era nascosta dalla massa del castello, prima,
ma il movimento planetario e il loro spostamento sul dirupo l’hanno rivelata.
Una stella doppia. La sua compagna, più piccola, meno splendente, è una fredda
scintilla verdeazzurra immersa nel caleidoscopio di frammenti d’oro.
La
luce della stella è tanto intensa da causare ombre.
“Vâsri.
La stella del mattino.” mormora Zexion.
Si
è fermato qualche gradino più in alto. Non guarda il cielo. In realtà,
sembra non guardare niente.
Flussi
continui e inarrestabili di domande si formano nella mente di Roxas, ma una
risposta, almeno, adesso è palese.
“E’
il tuo mondo. Questa è casa tua.”
“La
casa di Ienzo, Xehanort e gli altri. Non so se posso dirla casa mia.”
“Radiant
Garden.”
“Ha
un altro nome, adesso.” dice Zexion, e riprende la salita.
Può
pensare che non finirà mai. Come se si fossero inoltrati in un Mondo
bidimensionale di lunghezza illimitata. Un nastro non orientabile che non porta
a nessuna meta.
Gli
universi sono tanti. Infiniti, secondo Xigbar.
Allora
perché, di tutti gli infiniti universi, non potrebbe essercene uno che altro
non è se non un’interminabile scala fra le cascate?
passo
dopo passo dopo…
E’
un sollievo, quando raggiungono l’ultimo gradino. Attraversano la porta e
finalmente sono all’interno della fortezza abbandonata.
Camminano
ancora, lungo corridoi e altre scale e sale smisurate.
Le
ombre negli angoli pulsano e si agitano come stagni di bitume in ebollizione.
Sfere di luce illuminano il cammino solo a tratti. La maggior parte di esse sono
spente o in frantumi e quelle che restano non bastano a rischiarare tutto.
Sagome
di Oscurità si sollevano e spalancano occhi gialli al passaggio dei due. Non
prendono forma completa. Restano solo come corpi incompiuti, arti abbozzati,
bocche che sibilano la loro collera, prima di fondersi nuovamente in una massa
informe.
Solo
di tanto in tanto qualche ombra più avventata osa emergere completamente dal
suo universo di tenebra e, allora, figure biancastre anche più evanescenti si
solidificano e la dilaniano.
Manca
quello che dovrebbe esserci. Manca qualcuno.
E’
tutto così vuoto.
Finalmente
raggiungono la loro meta. E’ uno studio, su questo Roxas non ha dubbi. Scrivanie,
libri, contenitori, campioni. Non è molto diverso dallo studio di uno qualsiasi
di loro. Una parete è una vetrata aperta su una terrazza. Sul
muro opposto, c’è un quadro. Il ritratto di un giovane dai capelli bianchi e la
pelle scura.
Zexion
si siede a uno dei tavoli e ne sfiora la superficie. Il ripiano di cristallo
nero si accende di luci e si attiva una serie di schermi olografici. Il tavolo
è l’interfaccia di un computer simile a quelli del suo mondo. Proprio come
quello che hanno lasciato da poco.
Forse
Zexion vuole fare un giro dei sistemi informatici dei Mondi.
Per
adesso, lo lascia al suo lavoro ed esce sulla terrazza. Il vento glaciale porta
odore di resina e neve dalle montagne e il profumo evoca una pura sensazione di
pulito e libertà che cancella l’oppressione del castello.
Al
di sotto, edifici di legno e baracche inframmezzati alle rovine di quella che sa
essere stata una grande città, la capitale di una delle civiltà più
progredite degli universi conosciuti. E’
chiusa in una doppia cerchia di mura, parzialmente fuse con le pareti della
conformazione di roccia vetrosa e bluastra su cui è stato edificato il castello
e la città stessa. La neve forma mucchi sporchi e informi ai lati delle strade
e fra le costruzioni.
A
sporgersi, riesce a vedere l’estremità esterna della valle delle cascate. La
massa d’acqua risalente si incanala, una volta raggiunta la sommità della
valle, in fiumi e via d’acqua che si diramano per la città.
La
conformazione rocciosa della cittadella prosegue con una lunga cresta tagliente,
spaccata da un canyon ricolmo di nebbia luminosa. Anche in quella gola c’è
una distorsione dimensionale permanente, meno estesa di quella del castello, ma
di magnitudine molto più elevata. Tanto elevata da produrre quella luce.
Lungo
l’intero orizzonte visibile ci sono montagne blu innevate e, oltre
le mura, a separare la città dai monti, si stende una distesa vuota. E’ solo
una superficie bianca di neve, senza un albero, una costruzione, un rilievo, una
qualsiasi interruzione nella sua piatta e perfetta monotonia.
Molte
stelle si sono spente, le altre sono solo punti freddi e opachi.
I
momenti finali della notte. L’ora in cui le luci della notte hanno perso forza
e quelle del giorno non sono ancora apparse.
L’ora
più buia, quella che precede il mattino.
Solo la stella dorata non ha ancora perso nulla della sua luce. Anzi, adesso che le altre stelle si sono oscurate, sembra brillare più di prima.
Rientra
nello studio. Zexion è ancora intento al computer.
Sugli
schermi scorrono flussi e flussi di informazioni, migliaia di file. Si
susseguono velocissimi, ma non abbastanza veloci perché Roxas non riesca a
leggerli e accorgersi che ogni dato è
qualcosa che riguarda loro, i nobody, gli heartless.
Non
sono archivi personali di Zexion. Lui non usa un sistema di codifica alfabetico
o numerico. Usa luci e forme geometriche dinamiche.
Sta
trasferendo o copiando quella mole di dati e inserisce ed estrae nel computer un
cristallo di memoria dopo l’altro.
Il
ragazzino indica il quadro.
“Quello
è Xehanort, vero?”
Zexion
annuisce.
“Ci
sono ritratti anche di voi altri?” chiede ancora Roxas.
“No.
Forse qualche fotografia, da qualche parte. Non lo so.”
“Sei
più tornato qui, dopo l’esperimento?”
“Su
questo pianeta? Spesso.”
“Non
su questo pianeta. Qui dentro.”
“Quando
è servito.”
Lo scienziato
chiude nello zaino gli elementi che ora contengono i dati trasferiti dal
computer e collega l’ultimo cristallo. Questo ha un compito diverso. Sugli
schermi, una nube di dissolvenza si diffonde come latte nell’acqua, mentre il
veleno informatico corrompe i file.
“Zexion,
qualcosa non va?”
“Perché
questa domanda?”
“Mi
porti al vecchio laboratorio, adesso sei qui a smantellare questo…”
“E’
meglio conoscere eventuali rifugi e via di fuga prima che servano. Di solito, in
quel momento, non si ha tempo di cercarli. Quanto a questo posto, per molto
tempo abbiamo utilizzato il sistema informatico. E’ uno dei più potenti
dell’universo conosciuto. Peccato sia impossibile trasferirlo e costruirne uno
con prestazioni equivalenti… non è stato tanto semplice. Quindi lo abbiamo
tenuto attivo. Ma è sopravvissuto alla sua utilità e non è il caso di
lasciare informazioni su di noi. Ci vorrà un po’ prima che termini.”
Il
giovane si alza, si massaggia le reni.
Eppure, deve conoscere bene questo luogo, in ogni aspetto. D’altra parte,
non ha detto da quanto non ci viene. Per quanto ne sa Roxas, potrebbero essere
passati anni dalla sua ultima visita e le cose essere cambiate.
La
sensazione di oppressione provata dal momento in cui sono entrati in questo
Mondo è persino più intensa di prima. La cosa più simile a una sua esperienza
è essere solo, osservato da qualcosa di ostile. Ma non c’è nessuno e,
siccome è impensabile che una conseguenza non abbia causa, arriva alla
conclusione che a trasmettere quel disagio sia Zexion.
Il telepate si è avvicinato al ritratto, adesso.
Mente.
O tace, il che è lo stesso.
Qualcosa
non va?
Capire
che mente è facile. Meno facile è capire perché lascia che lo si capisca.
Zexion
sfiora il quadro con un dito, tracciando una linea nella polvere lungo la
guancia scura dell’immagine.
“Odiava
questo ritratto.” mormora, più a sé stesso che al ragazzo “Odiava essere
un principe, odiava il ruolo che la gente si aspettava assumesse. Sarebbe stato
così felice se fosse stato solo un anonimo ricercatore, ma quello Ansem non
glielo concesse. Forzò le leggi per far riconoscere il diritto di successione
di Xehanort. Diceva di averlo fatto perché, per lui, era davvero suo figlio. A
me non ha potuto nascondere la vera ragione. Ansem aveva paura. Paura che
Xehanort arrivasse dove lui non poteva arrivare. Paura dell’ignoto. Una
volgarità, in un uomo comune. In un re, un crimine. In uno scienziato,
un’aberrazione. L’ignoto è solo qualcosa che non conosciamo ancora.
Dobbiamo lasciare un allievo in grado di superarci, affinché resti aperta la
strada a un’ulteriore evoluzione, ma quando Ansem si accorse che gli stavamo
sfuggendo di mano, che eravamo già troppi passi avanti a lui, invece di cercare
di raggiungerci fece di tutto per fermarci. Un uomo senza coraggio. Voleva
sostituirlo con il diritto di controllare coloro che lo circondavano, anche se
questo significava negare a suo figlio la vita che desiderava. Se avesse potuto,
avrebbe costruito un mondo di cui essere il solo dio. Un piccolo mondo stretto
nei suoi stessi limiti, dove nulla lo avrebbe spaventato, perché nulla sarebbe
stato al di fuori del suo controllo, qualcosa non deciso da lui, qualcosa oltre
la sua portata. Ansem il Saggio, la Grande Luce. Re del Mondo, padre di
Xehanort. Tradì il suo scopo, vendette il suo mondo, condannò suo figlio. Non
buono come scienziato, non buono come re, non buono come padre. Un uomo…
peggio che inutile.”
“Xemnas…”
Xemnas
vuole essere il nostro re.
E’
quello che Roxas sta per dire, ma, in realtà, non ne ha certezza.
“Sai
cosa vuole?” domanda Zexion.
“No.”
“Nessuno
ha mai chiesto a Xemnas cosa volesse.”
“Per
questo, invece, a me lo hai chiesto?”
“Ero
solo curioso di sapere cosa avresti risposto.”
Il
giovane si siede per terra, la schiena appoggiata alla parete, proprio accanto
al ritratto di Xehanort.
La
finestra dello studio si apre a ovest, il punto cardinale dell’alba su questo
pianeta, e all’orizzonte il cielo si schiarisce e si screzia di nastri
sfilacciati di nubi nottilucenti.
Il canto solare diventa sempre più forte.
“A
te lo hanno chiesto, Zexion?”
“Non
ha importanza. Non ho mai avuto l’abitudine di aspettare che siano altri a
chiedermi cosa voglio.”
“Tu
cosa vuoi?”
“Tante
cose. Dipende dal momento. Adesso vorrei dormire.”
Dormire?
Se
è stanco, perché si è voluto arrampicare per ore su quella scala invece di
teletrasportarsi, fare il lavoro più in fretta possibile e tornare a casa?
Zexion
tende una mano verso di lui.
“Dammi
un keyblade.”
E’
una richiesta strana, questa. Nessuno vuole entrare in contatto con i keyblade.
Anche quando li studiano, non li toccano mai direttamente. Persino Xemnas ha esitato, quando
glieli ha offerti.
Non
sa che Zexion li ha già presi dalle sue mani, il giorno in cui lo hanno
trovato.
“Dai,
non te lo porto certo via.”
“Quale?”
mormora debolmente.
“Quello
che ti pare, tutti e due… E’ lo stesso.”
Roxas
continua a sentirsi a disagio, ma evoca il keyblade nero e lo passa a Zexion.
L’uomo
bilancia la spada.
E’
uno spettacolo inconsueto, vedere Zexion con un’arma in mano. Qualche volta lo
fa per esaminarle, mai in altre occasioni. Almeno, mai a conoscenza di Roxas.
Gli
ha raccontato che, come tutti i cittadini del suo pianeta, ha ricevuto un
completo addestramento marziale, compreso l’uso di armi individuali di ogni
genere, ma che è stato più che felice di lasciare perdere non appena possibile e che la scherma non gli è mai interessata, neppure come
disciplina sportiva.
Sferra
un fendente a Roxas e ferma la lama a qualche millimetro dalle sue labbra.
Il
ragazzo non si muove.
Dimmelo,
Zexion.
“Non
sono così difficili da domare, no? Si dice che solo i Cuori più forti ottengono i keyblade. Si dice che solo coloro che sono scelti dai keyblade
stessi li possono stringere. Io non ho grandi problemi, a dire la verità. E
nemmeno Xemnas, a quanto pare. Di tredici, siamo già in tre a poterli
maneggiare. Potremmo provare con gli altri, se anche loro sono in grado di tenerli. Che
ne dici?”
“Possiamo,
se vuoi.”
Cosa…
Zexion
appoggia il keyblade a terra, pur continuando a mantenere la presa sull’elsa.
…
non va?
“Roxas,
hai grandi capacità e un grande controllo. Un potere che può
rivaleggiare con quello di Xemnas. Perché lo usi così poco?”
“Io
lo uso.”
“Questo
lo so, ma è indubitabile che ne fai un uso inferiore a quello di chiunque
noi.”
“Non
mi piace.”
“Non
ti piace?”
“No.”
“In
che senso, non ti piace?”
“La
Luce… se potesse, distruggerebbe tutto ciò che non è Luce. Non sopporta
nulla di quello che non è come lei.”
“La
Luce è solo uno dei campi della realtà. Non è benevola o malevola. Non è
neppure viva. Non ha possibilità di sopportare o meno.”
Sì,
questo Roxas lo sa. Si è espresso male. Anche con sé stesso, non riesce a
definire la sensazione, ma c’è qualcosa nella Luce che lo respinge, che sente
repulsivo. Freddo, vuoto, sterile, morto.
“Quelli legati alla Luce sono i più distruttivi di tutti. Non lo puoi negare.
Guarda Axel, Larxene e Saïx.”
“Tu
credi sia a causa della Luce?”
“E’
come un veleno, come una sostanza radioattiva. Anche loro non sono vivi, però
sono distruttivi. Solo che la Luce non lo è solo per la forma fisica. Avvelena
i pensieri.”
“Temi
che prenda il sopravvento su di te, che avveleni anche i tuoi pensieri?”
Il
ragazzo scuote la testa.
“A
me non può fare niente.”
“Quindi?”
“Potrei
volere fare del male e con la Luce non avrei limiti.”
“Fare
del male a chi?”
“Se
volessi, potrei fare del male a chiunque, proprio a chiunque. Nessuno sarebbe in
grado di fermarmi. Potrei distruggere ogni cosa. Ogni cosa ha almeno un po’ di
Luce in sé. Io posso farne quello che voglio.”
“Quindi, la tua paura non è che le tue capacità ti tradiscano, ma che ti
tradisca la tua stessa volontà.”
“Credo…
sì, credo sia questo.”
“No,
Roxas. La tua volontà non ti può tradire. E’ una contraddizione in
termini.”
“Allora,
io farò sempre e solo quello che vorrei fare?”
“No.”
“Ma
se…”
“La tua volontà ti permette di fare quello che vuoi. La soluzione è
semplice.”
“Sì,
credo di capire. Basterebbe eliminare la mia volontà.”
“O
ingannarla. Se io ti sedassi, o usassi un mezzo di sopraffazione fisica, a quel
punto potrei fare di te quello che vorrei e tu saresti solo un soggetto passivo. La
tua volontà non avrebbe alcun peso. Semplicemente, in quel momento
sarebbe inesistente. Ma potrei anche farti credere che tu vivi qualcosa, mentre
è qualcosa di completamente differente. Tu reagiresti comunque all’inganno,
perché quella sarebbe la tua realtà soggettiva. A quel punto, la tua volontà
sarebbe del tutto attiva. Faresti qualcosa che in quel momento vuoi fare,
coerentemente al contesto illusorio.”
“Vedi,
allora? Potrei davvero fare del male.”
“Roxas,
se qualcuno ti facesse una cosa del genere, in quel momento useresti comunque
tutta la tua forza. Non serve trattenerti adesso.”
Il
ragionamento di Zexion non è confutabile, Roxas se ne rende conto. Questa volta
è lui in difetto logico e lo disturba la mancanza di coerenza che sta
perseguendo, considerato che, solo poche ore prima, ha accusato Zexion e gli altri
cinque di irrazionalità per avere agito sulla base di una pulsione tanto
indeterminata da sfuggire a qualsiasi analisi.
Lui
fa la stessa cosa.
“Zexion,
credi che combattere, che uccidere, sia davvero una necessità, per me?”
“Potrebbe.”
“E
se fosse così?”
“Ti
consiglio di far fruttare la cosa. Non cercare di negare la tua natura. Non lo
si può fare, non senza uno sforzo continuo ed estremo, ed è pericoloso.”
“Vuoi
dire che mi devo lasciare trascinare dai miei impulsi, come se fossi un
heartless?”
“Proprio
il contrario. Solo accettando quello che sei, puoi controllarti. Il potere è
dato da quello che conosci e da quanto conosci. Come puoi controllare qualcosa
di cui non sai nulla? Non sapresti neanche da dove cominciare. Non sapresti se
quello che fai è corretto o meno per quello che vuoi ottenere. Se rinneghi la
tua natura, non riuscirai neppure a riconoscerla, quindi non avrai modo di usare
le tue capacità a tuo vantaggio, piuttosto che farti usare, tu, da esse.
Invece, consumerai tanta di quella forza e tempo e volontà a cercare di
combattere te stesso, che potrebbe non restartene per fare niente altro. Prima o
poi perderai la concentrazione sufficiente e, allora, quello che sei riaffiorerà
con prepotenza. A quel punto, davvero non saprai cosa fare. Indirizzalo, invece. Fa
in modo che possa emergere, non ciecamente, non casualmente, non
dissennatamente, ma controllato, misurato, diretto. In questo modo, diventerà
un patrimonio al tuo servizio e non una zavorra da trascinarsi dietro. Ma se lo
consideri un peso, o un nemico, lo sarà. Roxas, il potere che hai è parte di
te. Non esisti tu e il tuo potere. Non è qualcosa distinto da te e tu
non sei il suo contenitore.
Persino chiamarli così, i nostri poteri, è un errore, perché è
implicita una differenziazione. Siamo la stessa
cosa. Fare affidamento su di essi è fare affidamento su noi stessi. Tu, invece,
ti affidi ai keyblade. Sono solo oggetti. Possono rompersi, possono esserti
portati via da un altro.”
Senza
preavviso, Zexion passa la mano destra sulla lama del keyblade. Roxas
singhiozza, preso alla sprovvista. Formula il comando per bandire l’arma, ma
c’è resistenza, come se il keyblade esitasse.
Insiste e
la spada svanisce dalla presa di Zexion, ma ormai il danno è fatto. Il ragazzino
annaspa verso di lui, gli prende il pugno e glielo apre a forza. Un taglio netto
gli attraversa il palmo. Non è molto profondo, ma abbastanza perché il sangue
si spanda sulla mano sporca di terra. Un po’ ne gocciola sul pavimento.
“Ti
aspetti che mi svapori nel nulla?”
Roxas non
sa cosa aspettarsi. Sa solo che tutti hanno paura delle sue armi.
“E’
solo un taglio, Roxas. Sono ancora qui e questo è solo un taglio.”
“Non
farlo più.” pigola il ragazzo.
“Stai
tranquillo, ti assicuro che non ho desideri suicidi.”
Il
telepate si guarda la mano. Sottili volute di Oscurità evaporano dal taglio. In
qualche secondo, la ferita si chiude.
“Le chiavi dell’universo… Sono solo oggetti. Come gli dei sono solo favole. Non c’è niente di quello che fanno che non possiamo fare con il nostro pensiero. I keyblade aprono i Mondi? Noi lo abbiamo fatto, da soli, senza neppure sapere dell’esistenza di queste cose. Gli dei creano gli esseri viventi? Noi abbiamo ricreato noi stessi. Nessun dio di nessun universo può fare di più. Gli esseri pensanti, sono quelle le vere chiavi. Solo noi. Non abbiamo bisogno di nessun altro, di niente altro. Non abbiamo bisogno di chiavi. Oggetti e favole sono strumenti, e gli strumenti esistono per essere usati, non venerati. Usati e gettati via quando non servono più. Senza ripensamenti, senza imbarazzo. Oppure vuoi essere solo il servo di un’arma?”
Uno
spicchio violaceo di sole compare dietro il profilo delle montagne, a separare cielo e terra.
Anche
se è coperto di polvere, il vetro del ritratto si trasforma in quell’attimo
in uno specchio e il riflesso di luce porpora nasconde la figura di Xehanort.
Gli schermi del computer non trasmettono più segnali. Il virus ha terminato il suo lavoro di distruzione. Nessuno ci fa caso.
“Zexion,
tu odi gli esseri umani?”
“Esseri
umani è un po’ generico, non ti pare?”
“Larxene
li odia. Lei non dimentica. Lexaeus mi ha detto quello che ti è successo,
quando sei nato. Quello che ti hanno fatto.”
“Non
mi hanno fatto nulla. A essere precisi, sono stato io a fare qualcosa a
loro.”
“Per
te i pensieri hanno lo stesso valore delle azioni. Li odi per quello che hanno
pensato?”
“Quegli uomini sono morti. Odiare i
morti è piuttosto inutile.”
“E tutti gli altri?”
Zexion si stringe nelle spalle.
“Non li conosco. Non sono niente, per
me.”
“Anche
loro non ci conoscono, però ci odiano. Non conoscerli ti
impedirebbe di odiarli, se tu volessi farlo?”
“No.”
“Allora
Larxene ha ragione.”
Zexion
gli lancia un’occhiata di sbieco, prima di abbassare la fronte
sulle ginocchia.
“Non
dici niente?” esclama Roxas.
“Cosa
dovrei dirti?” risponde Zexion, le parole rese quasi indistinte dalla
voce bassa e dalla posizione.
“Ho
chiesto a Lexaeus, quando tu mi hai detto di non chiedere.”
“Non
mi sono mai aspettato che mi obbedissi. E anche se lo avessi preteso, ormai è
fatta. Oppure hai suggerimenti su qualche adeguata forma di punizione?”
Lo
scienziato
rialza il volto e, questa volta, lo guarda davvero, non solo per
abitudine a rivolgere lo sguardo verso il suo interlocutore.
Guarda
Roxas e Roxas si sente come se il giovane gli sottraesse qualcosa che lui
nasconde, non come se a nascondersi fosse Zexion.
“Dentro
di noi c’è un mare, più grande di qualsiasi oceano di qualsiasi mondo. E’
un mare di sciroppo e inchiostro, ed è pieno di mostri. Si chiamano paura,
rabbia, odio. Si chiamano fame, sete, desiderio. Tutta la paura, la fame,
l’odio, il desiderio provati da ogni essere che è stato un nostro
progenitore, tutti quelli della linea che ci ha generato, dal primo sino a noi.
Siamo sopravvissuti a tutto questo, ma sono rimasti i segni. Quello che crediamo
essere la nostra mente, il nostro pensiero, che crediamo essere noi, persone, in
realtà è solo un frammento di ghiaccio alla deriva su quel mare. L’acqua è
nera, cosicché non dobbiamo vedere quello che ci nuota. Perché i mostri ci
danno forza e volontà, perché viviamo grazie a essi, ma non dobbiamo mai
guardarli negli occhi. Io sapevo di quel mare. Lo avevo visto tutte le volte che
entravo nella mente di una persona, o anche di un animale. Non importa, è
uguale per qualsiasi essere vivente, se appena ha una mente. Lo avevo anche
sfiorato, qualche volta, come se camminassi con i piedi nel bagnasciuga, mai più
in là. Quel mare mi terrorizzava, mi terrorizzava quello che ci vive. Sapevo
che sarei annegato, se solo mi fossi addentrato in esso, che i mostri mi
avrebbero divorato. Quando mi sono svegliato, tutte quelle persone che mi erano
intorno lasciavano uscire i mostri da quei mari. Li facevano strisciare verso di
me. Ma quando mi hanno raggiunto, non hanno potuto farmi nulla. Mordevano, ma
non avevano denti in grado di ferirmi. Graffiavano, ma i loro artigli
scivolavano sulla mia pelle. In quel momento ho capito che non dovevo più avere
paura di quel mare, perché potevo nuotarci, potevo liberare i suoi abitanti
contro i loro stessi padroni. Potevo prendere quelle menti e gettarle nelle acque nere, tenerle sotto. L’ho fatto e loro si sono trovati di fronte i
propri mostri, tutti insieme, nello stesso momento. Io non li odio, Roxas. Mi basta
quanto sono capaci di odiare loro.”
“E’
quello che hai fatto? Hai fatto in modo che vedessero gli altri uomini come
mostri? Come vedono noi?”
“Tutti
gli esseri viventi hanno paura di qualcosa.”
“Anche
tu hai paura.”
“Ogni
essere vivente ha paura e solo gli esseri viventi hanno paura. E’ l’unica cosa che accomuna
tutti.”
“La conosco, la paura. E’ facile capire quando gli altri hanno paura.
La cosa più facile. Ma io non ho paura. Forse mi è successo, ma non l’ho
riconosciuta e se non l’ho riconosciuta, vuol dire non ho mai avuto paura.”
“Allora
goditi questa tua fortunata condizione, perché l’avrai, prima o poi.”
Ci
sono voci. Mormorii indistinti che provengono dagli angoli più bui dello
studio. Se le ascolta bene, con attenzione, sembrano quasi frasi di senso
compiuto.
Le
ombre si muovono e non è solo per la luce che cambia e si intensifica.
Roxas
si rialza dal pavimento polveroso e si avvicina alla finestra. Vuole vedere come
il sole cambia l’aspetto del mondo.
“Roxas,
tu ricordi tutto? Ricordi quello che ti ho detto, quello che ti ho fatto
vedere?”
“Io
ricordo sempre tutto.”
“Tranne
una vita.” sibila freddamente il telepate “Quella non la ricordi.”
Non
gli piace l’atteggiamento di Zexion. Non lo ha mai visto così, non lo ha mai
sentito rivolgersi a lui con tanta durezza.
“Mi
chiedi di accompagnarti e non dici perché e se te lo chiedo tu non rispondi.”
mormora Roxas “Lo fai sempre. Mi incoraggi a fare domande,
poi non rispondi, anche se potresti. Ma tu non fai mai niente per niente. Non
sono solo le risposte. Se fosse per quello, mi diresti tutto. Sono le domande che
contano.”
Zexion
si sfrega stancamente gli occhi e la sua voce torna indifferente, il tono piatto
e controllato.
“Mi hai detto che non ti basta conoscere la storia, vuoi viverla. Ecco, qui è
cominciato tutto. Non c’è posto migliore. Manca solo questo, dopo non avrò
più nulla da raccontare.”
Lo
studio si dilata e prosegue in strade evanescenti che si sovrappongono alle
pareti dello studio, le cancellano e si allungano sul vuoto. La fortezza si
copre di luci, le distorsioni si rettificano, gli squarci si chiudono, le
piattaforme esterne diventano precisi sistemi di trasporto. Le rovine fioriscono
in palazzi, come castelli di carte in un gioco di Luxord.
La
capitale perduta si risolleva e fantasmi di gente morta da un decennio camminano
lungo le strade di porcellana della città della Luce.
Ora
le parole delle voci spettrali sono appena, appena al di là della comprensione.
“E’
qui che Braig ipotizzò l’esistenza dei Mondi. Qui io scoprii che il pensiero
non è legato alle dimensioni. Qui
Xehanort riuscì ad aprire il primo varco. Qui
ci rendemmo conto che potevamo essere liberi, anche se non avevamo mai saputo di
non esserlo. Il pensiero plasma la
realtà, ma la relazione è reciproca e il mondo plasma la mente che contiene. In un mondo chiuso, il pensiero è obbligato in circolo. Solo negli
universi aperti ci sciogliamo dalle nostre catene. L’oscurità
non è una barriera. E’ solo una strada che conduce a infinite possibilità e
siamo noi a decidere se intraprenderla. Qui
arrivò l’alieno che pretendeva chiudessimo le porte e gettassimo le chiavi e facessimo finta di niente. Che tornassimo a essere le obbedienti
marionette legate ai fili. Qui Ansem tradì il suo mondo e tutti noi e qui
noi tradimmo lui.”
Un
alieno, Ansem. Non sappiamo chi è, cosa vuole, qual è il suo interesse nel tenere i Mondi
separati. Non sappiamo nulla di lui,
eppure tu lo ascolti.
Ci
impone di smantellare tutto, dice che dobbiamo smettere, che
dobbiamo chiuderci nel nostro Mondo, che uscire dal proprio universo è
sbagliato… ma lui cosa ha appena fatto?
“Una
volta, per la gente di questo mondo e di tutti i mondi, le stelle erano solo
punti di luce nel cielo. E’ questo che vuole il Re, che voleva Ansem. Vogliono
che le stelle siano solo punti nel cielo. Che l’oscurità sia un ostacolo, che
sia paura. Vogliono che l’uomo abbia terrore del buio, che creda esistano mura
invalicabili, che si creda limitato.”
Dimmelo,
Ansem, come sa quello che stiamo facendo? Da quanto ci osserva?
Se
solo adesso si infrangono i muri fra i Mondi, come può avere una nave? Per
sviluppare una tecnologia simile, occorrono tempo e studio e applicazione.
Se
davvero è tanto sbagliato, come è arrivato qui? E’ sbagliato per noi, ma non
per lui?
Se
ha prove di quello che dice, le presenti. Se no, ogni discussione in merito non
ha senso.
“Hai
mai avuto rimpianti, Zexion?”
“Un’altra
delle cose che sai cosa sono e non conosci?”
“Sì.”
“Ho
sbagliato molte volte. Continuo a sbagliare e a rendermene conto solo quando
l’errore è commesso. Ne ho tanti, di rimpianti.”
La
sfera gonfia e tremante del sole si è schiarita in una sorgente di luce rosata.
Il cielo sembra ricavato da una lastra di ghiaccio cesellato, tanto sottile da
poter andare in frantumi al minimo suono, un susseguirsi di rosa, grigi, azzurri
e viola, intensi nel colore e pallidi in saturazione.
Chissà
com’è vivere su un pianeta dove non
bisogna volare oltre l’atmosfera per vedere le stelle. Un pianeta legato a un
sole.
E’
bello, il sole di questo mondo. E’ forte e giovane. Ha ancora
lunghissime ere da vivere.
Se
non sarà divorato dall’Oscurità.
“Lo rifaresti? Se adesso ti ritrovassi nella situazione di fare quello che ha fatto Ienzo, faresti la stessa scelta?”
“Lo
ritengo probabile.”
“Davvero?”
“Ti
aspettavi ti dicessi che no, non lo farei mai più, mai, in nessuna condizione?
Posso, se vuoi, ma non sarebbe la verità. Mi conosco abbastanza bene, Roxas. La verità
è che, probabilmente, lo rifarei.”
“Anche
sapendo quello che potrebbe succedere?”
“Anche
allora ero consapevole dei rischi.”
“Lo
eri?”
“Tutti
noi lo eravamo. Pensavi che le tenebre avessero corrotto le nostre menti e
alterato il nostro giudizio? No. Lavoravamo a quella ricerca da anni. Avevamo
visto l’Oscurità consumare il Cuore degli esseri viventi. Noi stessi avevamo
causato quel processo, più e più volte. Eravamo molto consapevoli.”
“Però
avete continuato un lavoro di cui non avevate certezza di riuscita.”
“L’indeterminazione
è la base della scienza stessa. L’essenza dell’ipotesi come concetto è che
essa deve essere falsificabile. Questo significa che la ricerca, per sua natura,
comprende l’errore come parte essenziale e che l’errore è intrinseco alla
ricerca delle risposte, una volta poste le domande. Solo la fede è a prova di
errore, perché pone le risposte prima della domande e le domande sono solo
quelle create per confermare le risposte preesistenti. Così, ovviamente,
l’errore è evitato. Ma noi non compiamo atti di fede, non abbiamo il privilegio
dell’infallibilità né della certezza. Neppure della certezza del successo.
Anche se, umanamente, Ienzo non riusciva a considerare concreta l’eventualità
di un insuccesso, pur accettando concettualmente la sua esistenza, ora, a
considerazione non umana, non posso fare a meno di rendermi conto che la
probabilità di un fallimento, della morte o della perdita del controllo era più
che ragguardevole, e inserire questa consapevolezza nella valutazione della mia decisione.
Sì, posso dire con ragionevole sicurezza che lo rifarei. A conti fatti, con
maggior coscienza e cognizione dell’incognita e di eventuali conseguenze di quanto
non abbia fatto allora.”
“Anche
se potresti perdere la vita?”
“Anche.
Rimpiango gli errori commessi, non quella scelta.”
“Allora
non è vero che sopravvivere è la ragione di tutto.”
“Te
l’ho detto che le cose non sono sempre divise fra sì e no. Non sono sempre
bianche o nere.”
Re
e Luce del nostro mondo, chi stai ascoltando? La tua paura?
Il ragazzo guarda il sole in un modo che sembra quasi fame.
Potrebbe volerlo divorare, il sole. O trasformarlo in nova. O trasformarsi lui, nel sole.
Zexion non lo sa. Roxas si dibatte ai limiti della sfera di comprensibilità, persino della sua sfera di comprensione. Non ne è ancora fuori, del tutto, ma non ne è più nemmeno dentro, del tutto. Va sempre più lontano, sempre più all’interno di quel territorio sconosciuto dove non è certo di poterlo seguire.
“Valeva la pena, farlo?”
“Chiedi un’opinione, Roxas. Chiunque nell’universo ha lo stesso diritto a dare una risposta. Tu stesso potresti rispondere. Ci sono cose per cui varrebbe la pena mettere in gioco anche la tua vita, pur di ottenerle? Anche il tuo mondo, anche la tua realtà?”
“Per te valeva la pena?”
“Vale sempre la pena infrangere i muri.”
Roxas giocherella con i bracciali che porta per ridurre la tensione causata alle articolazioni dal continuo uso della spada, mentre continua a fissare il sole. Fa girare la fascia di materiale elastico intorno al polso sinistro, poi, lentamente, le dita risalgono sino al palmo della mano per sfregare la base di indice e medio.
La Luce è un veleno per il pensiero.
I popoli dei Mondi avrebbero qualcosa da dire in proposito. Il popolo di Ienzo avrebbe molto da dire in proposito.
Ansem aveva dichiarato eretico il concetto che negava valore morale alla Luce e l’equiparava all’Oscurità. Aveva ordinato l’epurazione per tutti coloro che osavano suggerire o diffondere quell’idea.
Ansem avrebbe odiato Roxas per avere detto una cosa simile. Ma Ansem lo avrebbe odiato comunque, senza bisogno di faticare per trovare una ragione. Così, lo avrebbe odiato solo un po’ di più.
Ma nessuno conosce la Luce come questo bambino e lui la respinge. Cerca qualcosa che lo leghi alla terra, che gli permetta di essere un ragazzo terreno e vivo, non una creatura celeste.
Cerca risposte. Roxas non tollera l’ignoto.
Le troverà o meno, non importa. Non basteranno. Non bastano mai. Troverà solo qualcos’altro da chiedersi.
“Faccio sogni.” afferma all’improvviso Roxas.
“Li facciamo tutti.”
L’adolescente alza una mano e, con quel cenno, gli impone di tacere.
Un gesto imparato da Xemnas. Zexion non se ne stupisce. C’è qualcosa di ognuno di loro, in Roxas. Una parola, un’idea, un’abitudine, anche solo un atteggiamento, ma ha preso qualcosa da tutti.
“Io
so quando sogno. Questi sono diversi. Credo siano ricordi. Ricordi
dell’Altro.”
“L’Altro…”
“Quello
che c’era prima di me.”
“Perché
lo chiami così?”
“Perché
voi chiamate loro qualcuno. Perché chiamate noi nessuno.”
sibila Roxas.
C’è
un’inconfondibile sfumatura di collera nella voce e nell’umore del
ragazzino. L’attenzione del predatore che ha scoperto le tracce del passaggio
di uno sconosciuto nel suo territorio.
“Se
questo è quello che ero, senza quello che avete fatto voi sarei solo qualche
frammento disperso nella mente dell’Altro. Volevi sapere perché non mi basta
tornare a essere umano? Tornerei solo al nulla. Sì, anche per me ne è valsa la
pena.”
“Cosa
ricordi di questi sogni?” mormora Zexion.
Il
ragazzo si acciglia e la belva, per il momento, si quieta. Ora che le ha dato in
pasto un frammento di quello che desidera.
“Un
posto. C’è luce. Moltissima luce e moltissimo caldo. Il mare. E animali.
Animali acquatici.”
E’
subito di nuovo accovacciato di fronte a Zexion, in un dispiegarsi di luminosità e
attenzione. Con un dito traccia un disegno nella polvere che ricopre il
pavimento fra loro.
“Questi
animali. Sai cosa sono?”
“Delfini.”
“Dove
si trovano?”
“Su
svariati pianeti di svariati Mondi.”
“Qual
è il suo pianeta di origine?”
“Tu
appartieni a un ceppo umano relativamente diffuso fra i Mondi…”
“Lui
appartiene.” ronfa Roxas.
“Lui,
allora. E’ lo stesso cui appartengono gli abitanti di Radiant Garden.
Presumiamo che ci fu un’epoca in cui gli universi erano connessi e questo ha
permesso la diffusione di molti popoli.”
“Ci
deve essere stata una differenziazione, però. Tutti gli esami che mi avete
fatto non sono bastati a dirvi qual è il mondo giusto?”
“Le
impronte genetiche e psichiche non sono risolutive. Le caratteristiche tipiche
dei nobody sovraimprimono quelle originali. O appartieni a una specie unica nel
multiverso, oppure devi accontentarti di una risposta approssimata.”
“E
approssimativamente?”
“Ti
farò avere l’elenco dei Mondi in ognuno dei quali ci sono pianeti più o meno
numerosi dove puoi trovare specie compatibile a quella del tuo… Altro. Puoi
divertirti a cercare da solo.”
Le
fragili immagini di una vita persa nel passato assumono consistenza. Non sono
solo fantasmi. Sono solidi, come se fossero presenti.
Alcuni
ragazzi corrono con pile di libri in mano. Uno di loro lascia cadere un quaderno
proprio ai piedi di Roxas. Il quaderno si apre e, prima che il ragazzo illusorio
lo raccolga, Roxas riesce persino a leggere quello che è scritto. Sono appunti
frettolosi e disordinati sull’attività metabolica cellulare, disseminati di
scarabocchi e disegni.
Poi
lo spettro corre via, dietro ai suoi compagni. Insieme svaniscono nelle pareti
dello studio e le loro voci si spengono.
“Li
vedi?” mormora Zexion.
“Sì.”
“Io
no. Non posso. Non posso più vederli neppure nei miei ricordi.”
“Perché
no?”
Le
immagini si disfano in brandelli di ombre che corrono negli angoli e sono soli
nel vecchio studio abbandonato.
“Perché non funziona così, per me. Posso concepire combinazioni di forme, suoni, odori, eventi, sensazioni di qualsiasi genere, elaborarli in ogni loro dettaglio. Posso estrapolare esattamente come risulterebbero e quali effetti comporterebbero. Ma non posso percepire nulla che non esiste qui e ora, non posso immaginare. Se ricordo un odore, conosco una certa configurazione molecolare, la reazione che stimola nei miei recettori olfattivi. Non ho la reminiscenza della sensazione. Se ricordo una forma, so quali sono le sue dimensioni, i rapporti spaziali fra esse. Non la vedo, neppure nella mia mente. Anche nel presente, non percepisco come te. Voi credete che io mi isoli perché alcune sensazioni le trovo troppo sgradevoli. Non è vero. La luce… la tengo bassa nei miei appartamenti, non perché mi dà fastidio. E’ solo che dava fastidio a Ienzo e allora continuo, per inerzia, ad ascoltare i suoi ricordi.”
Va
alla finestra e fissa il sole e i riflessi accecanti su neve e ghiaccio come ha
fatto Roxas stesso, senza ammiccare, senza esitare.
“Vedi? Nessun fastidio. Tutte le sensazioni si equivalgono. Sono solo dati. Al
massimo, posso andare in sovraccarico da informazioni, ma per me non c’è nulla
di piacevole o spiacevole.” torna dove era prima e si lascia scivolare di nuovo
a terra, accanto al quadro “Siamo esseri abitudinari, Roxas. Ci leghiamo ai
nostri riti, alle nostre manie. Consuetudini trasformate in ossessioni. Teniamo
accese luci che non ci servono perché servivano
agli esseri umani, le regoliamo come piacevano loro. Siamo bloccati fra due nature diverse e ci aggrappiamo a
quell’esistenza che non ci appartiene, ma, dentro di noi, sappiamo benissimo che
ogni abitudine umana, ogni legge umana, ogni regola umana, non ha valore. Allora, finché possiamo, ne facciamo
tesoro con tutta la nostra forza, per continuare a sentirci umani, proprio
perché sappiamo di non esserlo. Io sono il peggiore, quello da biasimare più di
chiunque. Le illusioni non funzionano su di me, così decido di giocare a fare finta.”
“Se
ti piace…”
“E’
solo un inganno. Dobbiamo gettarci alle spalle tutto questo. Io non sono più
Ienzo, se mai lo sono stato. L’umanità è perduta, indietro non si torna. Si
può solo avanzare e tu sei già avanti a tutti noi, il nostro traguardo. Hai
curiosità senza il peso del rimpianto. Conoscenza senza le zavorre della
recriminazione. Dobbiamo
diventare come te.”
File
e file di persone camminano lungo gli argini di un fiume. Lasciano cadere
piccoli lumi galleggianti nelle acque. La corrente trascina lontano quelle luci,
fra le montagne di vetro blu, fino a una cascata. Le acque si trasformano in una
galassia.
I
cieli notturni si accendono di fuochi pirotecnici che allontanano il buio.
“Neanche
quando sogni, li puoi vedere? O tu non sogni?”
“Sempre,
ma non come te. Non interpreto i sogni in forma di sensazioni. Sono
informazioni.”
“Puoi
vederli attraverso me.”
Roxas lo sta osservando con la curiosità e la concentrazione con cui studierebbe un problema da risolvere.
Non
è un ragazzo imponente. La sua forma corporea è quella di un gracile bambino,
persino più giovane di colui che gli ha dato vita. Ma nel mondo mentale non è
un bambino, non è umano, non è nulla che ha un corrispettivo terreno e, davanti
a quella Presenza, Zexion è un’ombra di fronte al sole.
“Puoi
farlo.” prosegue l’adolescente “So che lo fai, quando vai su altri mondi.
Quando tu sei nella mia mente, io entro nella tua, almeno un po’. Ho visto
quello che fai a quelle persone. Fai provare loro delle cose, illusioni,
sensazioni, intere nuove vite, poi vedi e senti attraverso loro. Adesso ho
capito perché lo fai. Puoi percepire solo quello che esiste qui e ora, ma ti
basta che esista il pensiero. Se un altro vede e sente, allora tu puoi usarlo. Però non hai mai usato me, anche se avresti potuto avere
una sorgente e una combinazione di sensazioni che gli umani non possono
darti.”
mi
avresti odiato, dopo
“Sì,
credo di sì. Ma così non rubi niente. Sono io a chiederlo.”
Inondalo
di impressioni, affogalo di illusioni, soffocalo di esperienze.
Roxas
è una mente vergine, una forma di vita unica. Come reagirà a tutto quello che
non ha mai sperimentato? Che darà in cambio? Meraviglia, paura, curiosità,
cosa?
Quali
nuove, sorprendenti risposte, non mediate dai ricordi umani, quelli che
inquinano tutti loro? Cosa potrebbe ottenere, da lui?
Forse
qualcosa che potrebbe saziare persino la sua debolezza, la sua personale
dannazione. La sete di sensazioni, la fame di informazioni. Più indispensabili
dell’aria, del cibo, dell’acqua.
“Sai
cosa succede a quella gente, poi?”
“Divori
i loro pensieri e lasci solo gusci vuoti.”
“Non
hai paura?”
“A
me non farai del male. Sono troppo prezioso per te. Non vuoi rivedere il tuo
mondo?”
Roxas
è bravo a leggergli dentro. Non nei suoi pensieri, o non solo in quelli. Legge
nei suoi tentativi di nascondersi.
“Vuoi
rivederli lo stesso, anche se è un’illusione. Anche se non serve. Larxene mi
ha detto che facciamo tante cose che non servono, solo perché lo vogliamo.
Perché non dovresti farlo anche tu? Fallo, allora.”
Ombre
bianche si materializzano intorno a loro. Insieme ai guerrieri di Roxas,
qualcuno dei fragili e metamorfici eterei che formano la corte di Zexion.
“Tu
hai conosciuto tutto quello che loro considerano vita, Zexion. Sono cose che io
non potrò mai avere. Forse non le ha avute neppure l’Altro e allora davvero
non saprò mai che significano, anche se dovessi ricordare. Voglio capire cosa
mi sono perso. Voglio sapere cosa vuol dire essere umani. Tu vuoi ricordarlo.
Per questo sei salito fin qui a piedi. Per questo fai finta di avere
le debolezze di Ienzo. Allora facciamo finta tutti e due.”
Fare
finta, per qualche minuto che può essere lungo una vita intera. Fare finta di
essere tornato a casa.
Vorrebbe
non ascoltare il ragazzo, la tentazione che offre. Ma Roxas non si arrenderà
fino a quando non avrà ottenuto quello che desidera ed è l’ultima occasione,
questa.
Quando
terminerà la sua stessa ristrutturazione mentale, il passato umano sarà solo
una sequenza di informazioni della vita vissuta da un altro.
Roxas
tende le mani a uno dei suoi nobody. Si solleva sulla punta dei piedi, intreccia
le dita dietro la nuca del guerriero e gli abbassa la testa, fino a che le loro
fronti si toccano. Carne contro ombra e metallo.
Morte
a chiunque entri qui. A chiunque si avvicini.
“Non
hai paura?” chiede ancora Zexion.
L’adolescente si muove verso di lui. Uno degli eterei scivola come una pozza di mercurio, fluendo da una
forma all’altra senza tregua, e gli si avvolge intorno a una gamba. Sembra
quasi volerlo tenere separato dal suo padrone. Roxas lo ignora. La sua
attenzione è per il ritratto. Offuscato dalla polvere, il riflesso nel vetro è
quello di un ragazzo simile a Zexion, anche se non proprio identico, più
giovane di anni ed esperienza dell’uomo che conosce.
C’è
Xehanort, e Xehanort ama starsene in disparte, in silenzio, fino a quando non
trova qualcosa per cui vale davvero la pena discutere e, allora, può parlare e
infervorarsi più di tutti loro insieme.
Ci
sono Altri, che non sono come il suo Altro, che hanno un nome e un volto.
C’è
un uomo più anziano, con occhi e capelli dorati e abiti scarlatti e, chissà
perché, sembra che l’uomo ricambi il suo sguardo, proprio come se lo
vedesse.
C’è
un universo intero in quel riflesso e Roxas ci precipita dentro.
“Tutto.”
la sua voce è chiara e tagliente e i suoi occhi già vitrei “Fammi vivere
tutto.”
Un
mare. Un mare gonfio di tempesta, un mostro meteorologico che stringe
un’imbarcazione nel suo pugno di acqua e sale. Al timone, una ragazza con
corti capelli bianchi incollati alla testa dal diluvio, avvolta nella plastica
gialla e fosforescente della cerata, il cappuccio gettato sulla
schiena, inondata dalle onde e dalla pioggia.
C’è
odore di alghe e fulmini.
cuore
mio
Un gazebo fra il canneto sulle rive di un lago. Un cerchio di esili colonne di metallo filigranato sagomate come delicate piante, dove si avvolgono liane e fiori d’acciaio. I rami si intrecciano in volute, a formare la volta. Un piccolo drago con scaglie di bronzo è attorto intorno a una delle colonne, le ali chiuse sul dorso. Non è più lungo del suo mignolo. In quella foresta di metallo, ci sono altri simulacri di animali. Lucertole e insetti, raganelle e ragni. Alla base di una delle colonne, un grifone di piombo grosso come un gatto si lecca una zampa. Sopra un ramo, una fenice delle dimensioni di un passero scrolla piume di rame e oro. Veli bianchi appesi ai tralci vegetali fluttuano nella notte luminosa.
Al
centro del gazebo, una bambina tanto piccola da camminare a malapena, un soffice
groviglio di capelli argentati e tempestosi occhi grigio viola, gioca con cubi
colorati.
C’è odore di latte e neve e pini.
anima
mia
Il
respiro di Roxas è leggermente affannoso, la pelle ricoperta da un velo di
sudore, il cuore accelerato, i parametri fisiologici un po’ alterati.
Deve
stare attento. Non esagerare. Non cedere alla tentazione di comporre disarmonie
sensoriali per assimilare poi gli effetti di quelle dissonanze sulla psiche.
E
non alterare le risposte spontanee della mente. Perché non è forse uno dei
tuoi giochi prediletti, questo? Uno dei più facili e d’effetto?
Confondere
i centri di elaborazione sensoriale, ad esempio. Cortocircuitare un po’ le
aree associative del sistema limbico cerebrale, quello che, sorpresa sorpresa,
è anche delegato alla genesi delle emozioni e strettamente legato ai processi
mnemonici. Calibrarle, eseguendo sinfonie ben sperimentate, anche se i risultati
più interessanti si ricavano mescolando alla cieca e lasciando fare al caso, e
chissà quali bizzarrie sinestetiche se ne ottengono.
Oppure
annullare il sistema di selezione delle informazioni, infrangere le barriere che
vagliano gli stimoli e provocare sovraccarichi e intasamenti. O interrompere
alcune vie di trasmissione, o deviarle.
Sono
davvero tante, le cose che potrebbe fare. Deve limitarsi a quello che gli è
concesso.
Dimenticare
l’avidità, il desiderio di ingozzarsi di sensazioni, di ubriacarsene, senza
curarsi della mente che le sostiene, del corpo che sostiene quella mente.
Centellinarle, invece, una per una, come assaggiare un cibo per la prima volta.
Roxas
vuole la sua vita. Non deve dare niente di più. Non deve prendere niente di più.
La finestra è sigillata. Non c’è modo di aprirla.
Afferra una sedia e colpisce la vetrata. Il contraccolpo quasi gli sloga le
spalle. Il cristallo infrangibile nemmeno si graffia.
Colpisce
ancora, più e più volte, e la decisione si trasforma nella frenesia di un
animale in trappola. Appare
una crepa, ma la sedia si spacca. La scaglia via e corre a cercare
qualcos’altro, gettando tutti gli oggetti inutili che gli capitano sotto mano,
fino a quando non trova un cilindro di acciaio e ricomincia a picchiare sul vetro
incrinato, e la crepa diventa una piccola frattura. Afferra una sbarra
metallica, il corpo centrale di un appendiabiti, la conficca nel foro e fa leva,
allargando la frattura. Finalmente, il cristallo elastico cede e si spacca. Si
protegge le mani con un paio di guanti da laboratorio, di quelli usati per maneggiare
oggetti pesanti e roventi, e afferra i bordi dello squarcio, continuando
intanto a colpire con l’appendiabiti, strappando frammento dopo frammento,
fino a quando la vetrata non è quasi del tutto ai suoi piedi, a pezzi. Fiocchi
di neve entrano mulinando dalla finestra sfondata, il loro pacifico fluttuare
alterato dal cambio di pressione.
Afferra
manciate di neve dal cornicione e le inghiotte avidamente. Non tocca acqua da
due giorni. Solo quando ha soddisfatto la sete si arrampica sul bordo sottile della
finestra, tenendosi con cautela all’intelaiatura.
Il vento lo squassa e gli fa sbattere il camice e i capelli fino quasi ad accecarlo. Fa freddo e c’è solo il vuoto, davanti di lui. Un volo di centinaia di metri.
Un fiume nero come fango e
sangue si allarga nella città. Da quell’altezza, il suo diffondersi nelle
strade è quello di un liquido che si spande per capillarità in un foglio di
carta assorbente.
Fiocchi
di neve grassa e lenta gli volteggiano intorno. Ne osserva uno, cerca di seguirne
la caduta verso i giardini del castello. Solo qualche giorno prima - sembrano giorni, ma credo siano trascorsi mesi,
o forse anni - lui era in quei giardini a
giocare con la neve e pensare all’estate seguente.
E’
grottesco che si preoccupi di bere, che si preoccupi di mantenere l’equilibrio
proprio ora. Ma la volontà di vivere non si indebolisce certo a causa della
morte imminente. Semmai diventa più violenta e nulla è più bello che pensare
a quando si scioglierà la neve e tornerà una nuova estate.
Nessun’altra
estate. Mai più.
Non
raggiungerà vivo il terreno e il mare di ombre. Si schianterà prima contro una delle terrazze inferiori.
Ma
non ho sentito morire Even.
Basta
lasciare la presa e sporgersi un po’, non tanto. Poi, ogni ripensamento sarà
inutile.
Con
cautela, scende dal bordo della finestra.
Non
è cambiato niente.
Ci
sono solo due uscite e una di esse è un salto nel vuoto. O può restare qui a
morire di fame.
A
pensarci bene, c’è una sola uscita.
Non
ho sentito morire Aeleus.
Al
di fuori, le ombre graffianoartiglianomordono picchiano la porta, rese
frenetiche dalla vicinanza, rese rabbiose dai campi di contenimento che le
separano dalla preda agognata.
Il
suo cuore batte insieme a quei colpi. Ma ci si abitua anche alla paura, alla
fine. O ci si perde in essa.
Se
la
scelta è fra un futuro incerto e una morte sicura, allora non c’è scelta e
non c’è fuga.
Si
alza e comincia a spegnere i macchinari, come ha fatto tante volte, alla fine di
un qualsiasi giorno di lavoro. E’ solo un po’ più lento del solito, si
sofferma più a lungo su ogni gesto.
Poi tocca alle luci e quando l’ultima luce è spenta, non gli resta altro da fare
e non ha più scuse cui aggrapparsi per rimandare.
picchianopicchianopicchiano
Non
smettono mai, richiamati da quel Cuore negato loro tanto a lungo. L’ultimo, nel castello, sfuggito alla loro fame.
Lo
aspettano. Inutile farli attendere ancora.
Le
mani gli tremano tanto che solo al quarto tentativo riesce a passarne una sul
sensore e aprire la porta.
Roxas
è sdraiato per terra, le braccia a croce, perso in un’esistenza che non gli
appartiene. Un
uomo che non vive più da quasi dieci anni osserva il ragazzo.
Cerca
di fendere quella marea nera e ribollente. Riesce a fare solo pochi passi prima
di cadere. Le ombre si ammassano su di lui. Grugniscono e sibilano, mentre gli
aprono il torace e frugano in cerca del Cuore. C’è un rumore umido, quando i
loro artigli strappano i muscoli dalle ossa. Dolore, quello non tanto. Il trauma
gli impedisce di accorgersene.
Nonostante
la sua scelta, si ritrova a combattere con i denti e le unghie, come gli stessi
esseri che lo divorano vivo.
Ienzo
muore con il sapore della carne nera di un’ombra in bocca.
* * * * * * * * * * * * *
Mi fa davvero piacere sapere che i miei personaggi colpiscono nel segno. Anche perché non è che nella mia storia ci sia molto altro, diciamocelo. Ma stavolta temevo di avere cannato e che il povero Xaldin sembrasse l’orco malvagio. Sono schifosamente fiera di me e vi ringrazio tutti tantissimo ^__^
Naturalmente hanno motivi. Non fanno le cose random e tantomeno ‘perché sono cattivi’, così come gli eroi non le fanno ‘perché sono buoni’. Quelli non sono motivi. Sono giudizi e odio le suddivisioni. Buoni di qua, cattivi di là e gli sfigati che stanno in mezzo a prenderle da tutti. Certo non potevo non dare ragioni proprio a Xemnas (a proposito, Chris, giù le zampette da lui o te le trancio!). Non solo è il personaggio con la storia più drammatica, è pure il più biasimato. Eppure c’è gente ben più feroce, folle e maniacale che pure è assurta agli onori del fandom. Io do colpa al redenzionismo. Lui non si redime, non si mette in testa che è cosa buona e giusta sparire e pretende di esistere con il suo io. Cattivo, cattivo nobody.
A parte speculazioni da fandom, si sa ben poco dei 13, ma l’idea di Xemnas come il pazzo tiranno che schiavizza i suoi per accumulare potere mi pare una delle più campate per aria. In realtà, fra tutte le motivazioni attribuite ai nobody, la sete di potere fine a sé stessa è forse quella che considero più improbabile. Mancano le ragioni, mancano le pulsioni, manca tutto perché perseguano un simile obiettivo. Tranne che come mezzo per sopravvivere e quello non ha nulla a che fare con la sete di potere in senso umano, che sarebbe addirittura controproducente. La sola ragione per cui riesco a immaginarmeli fare una cosa simile è per scommessa o per curiosità. Per poi abbandonare non appena ottenuto il risultato.
Alla
fine del gioco Xemnas è fuori come un balcone, ma i
dieci anni precedenti non si possono
cancellare. Xemnas deve avere il consenso dei suoi. Se tutti, o la maggioranza,
fosse contraria, non avrebbe modo per obbligarli, e tentarci… beh, auguri.
Prima di sbarellare, quello è stato un grande e deve avere sbarellato pure in
tempi recenti, o non sarebbe arrivato dov’è.
Ok,
forse l’idea dell’organizzazione che cambia gestione come una società per
azioni non è molto considerata, ma i nobody ricorrono alla forza bruta solo
come ultimissima risorsa. Con tutti i loro poteri, più che altro parlano. Basta pensare ad Axel, che
commette una strage praticamente senza alzare un dito ^O^
Naturalmente, è insensato giudicare malvagio Xemnas per come agisce con Sora & c. Come la gente si comporta con gli amici e come lo fa con i nemici sono cose completamente diverse. Prendiamo proprio Sora. E’ un ragazzino adorabile con i suoi. Non alzerebbe un dito su di loro, nemmeno se tirato per i capelli. Riku docet. Con i nemici è un killer efficientissimo e spietato, deciso a imporre il suo ordine del mondo con ogni mezzo. Vale per tutti, Xemnas compreso.
Tantomeno è cattivo perché obbliga Axel a dare la caccia a Roxas. Roxas è una risorsa di cui i nobody hanno disperatamente bisogno, mentre nelle mani del nemico rappresenta un pericolo. Recuperarlo o eliminarlo è necessità, ma di cattiveria non ne vedo manco l’ombra.
Anzi,
una delle ragioni per cui non riesco a figurarmi uno Xemnas uso a terrorizzare i
suoi accoliti è proprio Roxas e il modo in cui scappa. Se ne va con il magone dicendo che nessuno gli vuole bene e
non lo fa neanche di nascosto, cosa che non sarebbe tanto difficile, visto
che può teletrasportarsi. Cammina beatamente per il castello. Lo vede solo Axel, ma in quel momento poteva passare di lì tutto lo stato maggiore. Non è
l’atteggiamento di chi subisce i più impensabili abusi, terrorizzato all’idea
di una tremenda punizione. E’ quello del bambino capriccioso che esce di casa,
sbatte la porta e i genitori si rendono conto che fa sul serio solo quando
poi non lo vedono a cena.
E già che c’era, Axel poteva pure rifilargli un paio di
ceffoni e trascinarlo dentro, invece di fare quell’imbarazzante scena madre e
aspettare ordini. Non è che se un quattordicenne dice di voler scappare di casa
bisogna per forza dargli retta e star lì a vedere che succede. Che vuole che
succeda? Che magari incontra un rapitore di bambini che gli fa fare gli snuff
film. Praticamente quello che capita a Roxas.
La vera idiozia di Xemnas è stata mandargli dietro la persona più sbagliata. Ma lui rifiuta di riconoscere qualsiasi legame emotivo fra i nobody. Non si pone neppure il problema dei sentimenti di un killer, che non crede esistano.
Il
nostro eroico leader, pazzia a parte, ha due problemi. Il primo è che permette
ai suoi nemici di controllare le sue azioni e in quel momento ha già perso. Poi
è un tattico e uno stratega pessimo. Il che non significa essere incapaci come
guide. E’ che la mente bellica doveva essere qualcuno dei caduti di Oblio,
visto che da quel momento i nobody cominciano il declino. A
quel punto, l’incapacità strategica diventa sì un disastro.
Poi
molti dell’organizzazione sembrano un po’ troppo fedeli, perché lui fosse
un tale mostro. La cosa è evidente alla fine, quando Sora li bracca nelle loro
sale. Situazione classica delle fanfic? Xemnas, maniacalmente, ordina ai miseri
resti dei suoi servi di affrontare Sora. Uno per uno. E loro, pur sapendo che
vanno a farsi macellare, obbediscono. Se no Xemnas…
Che
fa? Li uccide? Perché una minaccia sia effettiva, bisogna mettere il soggetto
di fronte a qualcosa peggiore di quello cui va incontro. Ma Xemnas non può fare
niente di peggio di quello che fa loro Sora. Anch’io
all’inizio pensavo che i 13 si mettessero in fila per farsi ammazzare, ma non
è vero. Suicidi a parte, o cadono per questioni interne, oppure presi di
sorpresa sul campo di battaglia. Gli ultimi si trovano il nemico in casa e
cercano di fermarlo, quando potrebbero benissimo trasportarsi su qualche altro
pianeta e piantare lì Xemnas e Sora a risolversela da soli.
E
qui arriviamo al senso ‘paterno’ di Xigbar. Lui si fa avanti per primo.
Persino prima di Luxord che, secondo la logica del branco di iene, è la carta
più spendibile.
Luxord
non aveva molte speranze contro Sora e, a quel punto, Xigbar avrebbe dovuto
comunque affrontare il nostro piccolo custode. Mentre Xigbar aveva molte più
possibilità e se fosse riuscito a far fuori Sora, avrebbe salvato anche Luxord,
oltre a Xemnas e Saix. Quindi è stato un ragionamento logico, quello di Xigbar.
Però non si poteva escludere del tutto la possibilità che sarebbe stato Luxord
a vincere. Xigbar avrebbe avuto solo da guadagnarci a restare in seconda linea.
Al peggio, la sua situazione non sarebbe cambiata.
Beh,
direi che con questo ho risposto un po’ a tutti ^__^
Voglio
però ringraziare singolarmente Rixika, che si è accorta di una cosa che mi sta
molto a cuore, cioè che sto cercando di dare una cronologia al tutto. So già
che dovrò alterare quella del gioco, ma è necessario. Ci sono cose davvero
improponibili. Tipo, Roxas scappa di casa, fa due passi ed è catturato da Riku.
E Riku come fa a sapere che se ne va proprio in quel momento? Una botta di culo
o lo aspetta al varco? E se è così, nessuno dell’organizzazione si è
accorto che un nemico vagola da tempo indeterminato sul loro pianeta? A
proposito, mentre il loro prezioso custode viene ripassato come un tappeto
dietro l’angolo di casa, che fanno? Si danno al ricamo?
Vedo
che anche tu hai qualche problema con Naminé. Cara ^O^
In
realtà ho trovato parecchia gente che la odia, solo che lo fa per motivi
curiosi. Quanto a me, sono perdutamente pro-Roxas e questo non si traduce in
‘dolenti riflessioni sul povero giovinetto condannato’, ma nel volere fare
piazza pulita di coloro che lo fanno secco.
Invece
non mi sorprende per niente l’antipatia per Sora. Condivido. E’ di una
stupidità esasperante. Per di più sembra sempre tirato di cocaina e zucchero.
Viene voglia di sparargli nel sedere un’intera partita di proiettili
tranquillanti. O una pallottola direttamente in fronte.
Capisco perché Riku è diventato emo/angst/oscuro. Era un ragazzo simpatico e solare, prima. Poi ha conosciuto Sora e ha deciso che la carriera di cavaliere delle tenebre è più riposante, possessione demoniaca compresa.