Storie originali > Soprannaturale > Maghi e Streghe
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Autore: Night_    05/10/2015    0 recensioni
Procedevo. Camminavo. Respiravo lentamente la polvere che si infiltrava nelle narici, che mi faceva starnutire. Scostavo i rami, ci ringhiavo contro – tutto questo continuava. Continuava e continuava e continuava.
Mi sembrava di essere capitato in un arrogante e maestosa matriosca, nuda di colori vivi, rivestita del vuoto più totale.
Non uscirai.
Mi fermai. Ne ero sicuro, il mio sangue doveva essersi congelato nelle vene. Non sentivo più calore dentro – ero morto?
Genere: Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NOTA DELL'AUTRICE:

C'è una cosa assolutamente incredibile: riesco a finire un capitolo al giorno.

Questo, datemi retta, E' UNA DELLE COSE PIU' BELLINE JSDPFOJSFOS; sarà perché è una storia in prima persona, che ritengo essere più semplice da scrivere, sarà perché Edward è un tizio che nella mia testa ho capito all'istante, sarà perché tutto ciò mi ispira un casino.

Mah.

MAH.

Ma chissene dai, l'importante è che non ho blocchi. (le ultime parole famose---)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo sgomento della protezione

 

 

 

 

 

 

 



 

Spiegai la mappa sulla superficie della scrivania, di fronte ai miei occhi.
La guardai, abbassando leggermente la palpebre; era palese che si trattasse di una mappa di longeva – e anche molto – data, forse poteva addirittura risalire a trent'anni fa', da quello che vedevo; sostanzialmente, un pezzo di carta dai bordi – e non solo – stropicciati, largo quaranta centimetri e alto trenta. Il colorito giallognolo prendeva sfumature marroni qua e là, come se qualcuno gli avesse fatto saggiare il calore di una fiamma.
E in effetti, il bordo destro, per tutta la lunghezza, era bruciacchiato.
Cautamente, attraversai tutta la mappa con i palmi delle mani, stendendola e assorbendo con il tatto la carta rovinata e delicata. Era rovinata ma leggibile.
Probabilmente... sarebbe persino possibile recarsi in questa terra delle streghe. Probabilmente, potrei decidere di andarci – comunque, la parte di me che aveva sempre prevalso, continuava a sputare quegli insulti. Come frecce precisamente scoccate, sfrecciavano nell'aria fino a giungermi alla testa e di nuovo sprofondavo nella razionalità: l'insulsa maschera di senso che mi ero sempre ostinato a portare. Per quanto meraviglioso e semplice fosse a volte, altre, invece, era come soffocare.
Staccai le mani per avvicinare la schiena alla dorsale, chiuso in un pensieroso silenzio.
Pensandoci, che senso avrebbe intraprendere un viaggio che si prospettava faticoso e lungo per raggiungere un posto che di sensato non aveva niente? Probabilmente, era solo una specie di gioco. 
Certo, c'era da capire perché diavolo si trovasse nella mia soffitta.
Era questo piccolo dettaglio della storiella che mi tratteneva dalla decisione finale: fargli assaggiare ancora le fiamme, a quella mappa, o utilizzarla come dovrebbe essere usata. Inseguire quelle indicazioni, i disegni fitti e dettagliati, percorrere le strade – e giungere fra le streghe.
Streghe.
Da piccolo – indovinate! Non credevo alla loro esistenza. Mi sembrava un'assurdità che delle donne, anziane e giovani, saltassero in groppa ad una scopa per solcare i cieli di notte e sfiorare le nuvole opache. Era assurdo. E poi, il colpo di grazia, erano le magie che teoricamente sarebbero in grado di fare. 
Ancora, mi sembrava un'assurdità ben peggiore di Babbo Natale o il quadrifoglio.
Quindi... che fare?
«Edward?». La voce di Annabel non arrivò energica e priva di rispetto per i superiori, ma calma e bassa – sulla soglia della porta. Hm.
Sollevai pigro lo sguardo e con la coda di esso, la osservai nella sua piccola statura, avvolta dai capelli neri lasciati sciolti e ondulati come onde di un mare di notte e gli occhi rivolti a me. Alla mano sinistra, c'era un documento. Per me, eh? «Entra», dissi, tornando alla scrivania con i gomiti. Annabel fece un cenno ed entrò. Il ticchettio dei suoi tacchi neri e lucidi sembrava scandire il tempo e dare una pacca al silenzio infiltrato; già, dopo ieri sera... suppongo di aver esagerato.
Magari, chissà, avrei dovuto dirle che sì, ero suo, di sua proprietà – il solo pensiero mi fece stringere duramente le labbra fra di loro.
Non ero di nessuno.
E men che meno lo sarei stato di Annabel, l'unica persona che ritenevo una cara amica, ma dalla quale non avevo mai chiesto degli aiuti, dalla quale non contavo minimamente. Ieri sera, per me, era stata la prima ed ultima volta – mi sentivo stupido per averle chiesto una mano per questa faccenda. Avrei pensato io a tutto, a cercare informazioni su quella mappa, ma sapevo bene quanto Annabel fosse portata per le ricerche insidiose.
Ma, a questo punto, era inutile.
«Questo è per te», disse a voce bassa – ma non sembrava imbarazzata o cosa –, quando fu davanti alla scrivania, lasciandoci scivolare sopra il foglio. Proprio sopra la mappa. «Un autorizzazione per i prossimi scavi».
Annuii.
Poi, sgranai gli occhi – giusto. Il lavoro, dovevo portarlo avanti. Il lavoro che ormai facevo da cinque anni, il lavoro che mio padre mi aveva praticamente lasciato nell'anima – ma non come eredità: sapevo che l'aveva fatto per lasciarmi campo libero, nella scelta. E di questo gli ero davvero grato.
Non potevo lasciare tutto per partire, dal nulla.
«Ho... ho incontrato Abigail e papà, fuori», mormorò Annabel. Le sue sopracciglia, anche se basse sugli occhi, erano piuttosto nascoste dai capelli sulla fronte. «Ma è tutto okay?».
Come una lama, la punta della mia penna trafisse il foglio, rapida ed efficacie. In fondo, scrissi il mio nome e cognome per autorizzare e confermare questo prossimo punto di scavo. Uhm, magari potevo andarci anch'io. Non era certo questa parte amministrativa ad interessarmi, dell'archeologia – non era nemmeno archeologia!
«Sì, immagino di sì», dissi. «Solo che il tatto di tua padre, a volte, è destabilizzante. Come il tuo, comunque».
Annabel mi guardò con occhi confusi, non disse nulla. Stava metabolizzando le mie parole e cercando di connetterle per capire a cosa mi stavo riferendo – poi, con la coda dell'occhio e un sopracciglio alzato, vidi le sue spalle avere un sussulto. Direi che aveva inteso.
«Dio mio», esclamò. «Avrà detto un'altra delle sue stupidate. Mi dispiace!».
Mah, non era la fine del mondo.
«Un giorno dovrò cucirgli la bocca. Scusami, davvero. Non... oddio, non ci avrà riprovato con Abigail, vero?».
A quella domanda, sollevai la testa e lasciai la mia penna nera sul legno della scrivania, guardandola con un espressione quieta. «E' quasi divertente», dissi, mentre le mie dita scivolavano al documento e, tra il pollice e l'indice, lo rendevo ad Annabel. «Non ci pensare. Vabbene».
Forse non andava esattamente bene, ma... comunque, non era una situazione poi molto fastidiosa; mia madre ed Arthur non si vedevano praticamente mai, visto che lei era occupata con la nonna e lui col lavoro e, più importante, non c'era quella “scusa” che portasse mia madre da Arthur o viceversa.
A questo punto, se Arthur mi avesse pugnalato per poter chiamare mia madre a raggiungerci all'ospedale, innocentemente, non mi sarei sorpreso. E per la terza volta in vita mia, avrei avuto l'occasione di vedere come quella donna non riuscisse a versare traslucide e calde lacrime.
«Se lo di--- aspetta, ma quella non sarà... la mappa?».
«Ah?», aprii gli occhi e guardai Annabel nei suoi, sorpresi quanto incuriositi. Lei appoggiò le mani sul bordo della scrivania e si protasse in avanti, stringendo i bicipiti contro il petto - e quello occupò il mio raggio visivo, non per mio desiderio, eh. Però sembrava che dovesse esplodere da un momento all'altro.
«Ah, sì», dissi, abbassando lo sguardo sul giallo della mappa. Poi, le schioccai un'occhiata.
E lei indugiò. Senza spostarsi o cambiare posizione, aggrottò la fronte e si umettò le labbra con la lingua vermiglia, guardò la mappa come se stesse cercando di capirne l'essenza.
Alla fine, sospirò.
«... mi fai dare un'occhiata?».

 

 

 

***

 

 

 

La mattina dopo – faceva quasi caldo – era Domenica e mi svegliai più tardi del solito; non vidi l'orario ma a giudicare dal sole che trapassava i vetri del soggiorno e lo irradiava ampiamente, dovevano essere le dodici di mattina. La sera prima avevo lasciato lo studio verso le dieci di sera e, con le palpebre che premevano per scendere sugli occhi, ero tornato a casa e mi ero messo a letto. Questa stanchezza era inspiegabile. Specie perché, da un po' di tempo a quella parte, non avevo avuto il tempo di recarmi sugli scavi e facevo solo lavoro d'ufficio.
Forse era sonnolenza – forse era noia.
Mah.
C'era da dire che stavo diventando sempre più strano; e non mi riferivo alla stranezza tipica di un giovane uomo che – a quanto sentivo – avrebbe dovuto passare le notti fra una discoteca e il letto di una ragazza di cui, puntualmente, avrebbe scordato il nome, ma di quella in cui non riesci a raccapezzare nemmeno le tue abitudine, il tuo carattere, la tua persona.
Quella in cui ti perdi miserabilmente.
«Ah, sei ancora qua, eh?». I miei occhi si puntarono autonomi sulla palla di pelo fulvo che, le orecchie sollevate, stava scivolando sinuoso ed elegante davanti alla grande vetrata del soggiorno. Il sul pelo era baciato dalla luce e risplendeva ancora di più, probabilmente era anche morbido. Mpf.
Mi passai una mano sulla guancia e poi tra i capelli – uhm, dovevo fare colazione o solo uno spuntino? Erano le dodici e un quarto.
«Quante libertà ti prendi», borbottai, camminando sul parquet accaldato dai fasci del sole, per raggiungere il piano della cucina. E fu mentre aprivo la dispensa sopra ai fornelli che una specie di tonfo mi fece aggrottare la fronte – ah!
«Scendi di qua!».
Quella dannata pulce!
Un conto era circolare per casa mia, un altro che salisse sulla cucina che usavo per preparare i pranzi, le cene e i famigerati spuntini – i suoi peli nel cibo, bleah. Fui tentato di prenderlo per la collottola e lanciarlo da qualche parte, ma la mia esclamazione servì a farlo miagolare sommessamente e poi, con un balzo, a scendere dal ripiano.
«'ccidenti a te», ennesimo borbottio. Dovevo seriamente decidere cosa farne.
Naturalmente, volevo lasciarlo nelle mani di qualcuno di capace, non di certo al primo che sarebbe passato: il problema era che non mi veniva in mente nessuno. L'avrei lasciato a mia madre, ma... come avevo già detto, era occupata con la nonna.
Pace all'anima mia, insomma.
Un gatto era l'ultimo impiccio di cui necessitavo.
E poi – din dong. Il suono del campanello mi arrivò imprevisto, disturbante, indesiderato, a dirla tutta, mentre nella mano sinistra una fetta di pane aspettava di essere ricoperta di dolce marmellata violacea. La guardai, piegando le sopracciglia in un espressione desolata.
Aaah, che scocciatura, di prim----... a mezzogiorno.
Andai alla porta trascinando i piedi e sospirando un paio di volte. Non avevo voglia di vedere nessuno: ciononostante, guardai all'occhio magico e poi aprii.
Ricordate quando avevo parlato del mio spazio personale invaso da una certa ragazza dai capelli corvini? Ecco. Questo era il perfetto esempio di ciò a cui mi riferivo.
«Ho trovato qualcosa di assolutamente importante», Annabel parlava velocemente e strizzando gli occhi mentre, travagliante come un tornado e con i capelli ondulati stranamente vaporosi, entrava in fretta e furia – mi passava di fianco, mi oltrepassava.
Aveva trascinato con sé il tiepido calore della giornata, di quel sabato di Febbraio: se provavo a ricordare, era il primo sabato soleggiato del mese. Ricoperti dalle nuvole plumbee e dal cielo intristito, le pelli dei londinesi avevano una tonalità pallida, quasi cadaverica. Era difficile trovare qualcuno dalla pelle dorata, graziata dal sole
E prima che potessi accorgermene, il mio salotto vorticava come il centro di un tornado – poi capii che era Annabal che mi trascinava sul divano rosso accostato contro la parete.
Con la sua giacca nera lunga fin sopra alle ginocchia sembrava una scacchiera di dubbio gusto.
«Ascoltami bene», e anziché ascoltarla bene come vi aveva appena impartito, mi soffermai a guardare dentro le sue iridi, un colore scuro che si confondeva nel cioccolato fondente, con briciole luccicanti ad accenderli – lumi ardenti.  Brillavano davvero un sacco. Mi chiesi cosa riusciva a renderli così vivi. Temevo e sapevo che i miei, della tonalità cerulea, il fondo di uno sporco mare, non avevano quella luce vivida.
Le sue mani si attaccarono alle mie spalle, fasciate dalla leggera stoffa della maglietta di cotone – le dita afferrarono come trappole.
«Non devi assolutamente averci a che fare», le sue labbra si muovevano lentamente, ma non ero certo che stesse parlando con quel tempo. Voleva assicurarsi che recepissi il messaggio?
Non arrivò.
Non lo recepii.
«Ed? Ed, mi hai sentita?», esclamò – sgranai gli occhi, li strizzai e li chiusi. Poi, in silenzio, annuii distrattamente. Sentivo la superficie degli occhi bruciore come se fossero stati schiaffeggiati dal vento.
«Non ne sono granché sicura», disse Annabel, aggrottando la fronte. «Ripeto: non devi averci a che fare. Capito?».
Stavolta, la sua voce e le lettere – prima mischiate fra di loro – mi arrivarono limpide e chiare, le colsi sul momento, ma... non ne capivo la motivazione: non dovevo avere a che fare con la terra delle streghe, era questo ciò che voleva dirmi, vero? Certo, certo.
«Ho capito», risposi, lentamente, infastidito. Aprii gli occhi e li ruotai su quelli di Annabel. Lei aveva ancora le mani strette sulle mie spalle, cominciavo a sentirne la pressione. «Non devo averci a che fare per quale motivo?».
Annabel lasciò scivolare i suoi palmi giù dalle mie spalle, cadendo sul mio petto e poi, come scottati, si ritirarono al proprio.
«E' pericoloso. Molto pericoloso».
Pericoloso – bisogna guardarsi le spalle. Cosa poteva esserci di pericoloso? Che domanda stupida, penserebbe qualcuno eppure, guardando tutta la faccenda, c'era qualcosa di anche più sciocco della mia domanda.
Le streghe.
Ecco, la mastodontica sciocchezza.
«Pericoloso», ripetei, cercando di capirne meglio le sfumature. Lei fece un leggero cenno, talmente impercettibile che i suoi capelli restarono immobili. Socchiusi le palpebre e sprofondai nella morbida dorsale del divano. «Capisco. In ogni caso, non avevo deciso di volermi introdurre chissà quanto, in questa storia. Solo... ».
«Solo?».
«Mi chiedo cosa ci sia di tanto pericoloso... ». Mi fermai, chiusi la bocca – guardai la silhouette del gatto passare. Annabel seguì il mio sguardo e lo soffermò, aprendo un poco le labbra con stupore, su quella bestiaccia. Poi disse delle cose. Non ne sentii mezza.
In quel piccolo, fulgido istante – quel millesimo di attimo – il mio cervello pensò in grande, mi disse di sbarcare in quel “pericolo”. Mi disse, sussurrando e deliziandomi l'udito: «Rischia».
«Annabel... », e lei si girò al mio docile richiamo, inclinando il capo d'un lato – totalmente ignara.
Inchiodai il mio sguardo nel suo e un ghigno mi artigliò la bocca.
«Ci ho ripensato. Mi recherò lì». 

  
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