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Autore: Hamartia    06/10/2015    1 recensioni
2575 a.C. Menfi, Egitto.
Era una notte fredda come tante altre, il firmamento splendeva sulle mura bianche della capitale e sul deserto circostante. La luna rendeva la sabbia così bianca da farlo sembrare un panorama lunare.
Al porto di Ineb-hedj gli unici suoni erano quelli dell'acqua del Nilo, che scorreva tranquilla tra le leggere imbarcazioni di papiro lì attraccate, il gracidare delle rane nascoste tra le piante della riva e una leggera brezza muoveva le canne, diffondendone il fruscio.
Genere: Avventura, Sovrannaturale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità
Capitoli:
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Capitolo I
~

Il tempo passava, gli anni scorrevano impetuosi come le inondazioni del Nilo e le due bambine crescievano in fretta a palazzo insieme ai figli del Faraone Snefru. Le innumerevoli mogli del sovrano erano delle madri apprensive e sempre attente alle due piccole dee nonostante non fossero loro figlie. Si prendevano cura di loro, nutrendole e lavandole, coccolandole e viziandole come ogni bambino dovrebbe essere coccolato e viziato. Ma loro erano molto più di due semplici bambine e veniva data loro più attenzione del dovuto.
Il Faraone, quando non era in viaggio, si ritrovava spesso a discutere col sacerdote capo della sorte delle piccole dee, chiamate anche "le figlie di Nut", l'appellativo con cui ormai il regno le chiamava. Nella grande sala del trono quasi completamente vuota se non fosse stato per le uniche presenze del sovrano e del sacerdote, Snefru sedeva sul suo trono di legno ricoperto d'oro e sui era inciso con i lapislazzuli il suo divino nome: Snefru, colui che arreca la perfezione. Kaaper al suo cospetto ascoltava per l'ennesima volta i timori del sovrano, aspettando il momento giusto per intervenire e dargli la tanto discussa e attesa notizia.
Snefru temeva che se le dee reincarnate fossero cresciute a palazzo si sarebbero sentite prese a parte alla sucessione al trono o, peggio, glielo avrebbero potuto strappare. In fin dei conti lui quand'era nato non era letteralmente apparso per magia sotto una coltre stellata con un animale sacro quanto pericoloso a proteggerlo. Loro avrebbero potuto farlo e il popolo non si sarebbe opposto, anzi le adorava già ora che erano ancora due infanti. E probabilmente una volta sul trono si sarebbero fatte la guerra tra di loro, perché un regno non si può certo governare in due. L'Egitto si sarebbe diviso, la guerra si sarebbe diffusa come una malattia. No, dovevano sparire dal palazzo reale il prima possibile, a costo di sfidare gli Dei stessi.
Kaaper dal canto suo teneva molto alle bambine, che fossero davvero state mandate dagli Dei o no - ma questo lo ammise solo a se stesso - perciò, in accordo con gli altri sacerdoti, voleva che le piccole dee crescessero al tempio e sotto la sua supervisone sarebbero diventate due sacerdotesse. Giò mentre lo diceva vedeva il suo sovrano illuminarsi di gioia.
«Ottima idea mio sommo Kaaper! Appena le due bambine saranno in grado di parlare e capire saranno affidate a voi. E mi raccomando: che siano educate in modo che l'idea del trono non passi nella loro testa neanche per un attimo..» il Faraone, con la voce decisa e profonda, col suo sguardo fiero e freddo contornato di nero e il viso dai lineamenti affilati, il mento spigoloso accentutato dalla barba posticcia guardò il sacerdote, affondando gli occhi nei suoi, e se li avesse avuti, ogni pelo sul suo corpo si sarebbe drizzato dal terrore.
«Ma certo mio Faraone, le uniche cose a cui dovranno pensare saranno accudire i malati e i morenti e presenziare alle processioni e ai riti.» rispose tranquillamente il buon sacerdote, nascondendo l'inquietudine. Sapeva di non dover temere il Faraone, perché lui, il Dio che regnava sul popolo d'Egitto, teneva molto al suo saggio parere.
«Meraviglioso! Ti ringrazio Kaaper, ora puoi tornare ai tuoi abituali compiti.» e con un mezzo sorriso ed un cenno del capo il Faraone congedò Kaaper.
Con un lieve inchino il sacerdote lasciò i ricchi e sfarzosi ambienti del palazzo, per tornare ai suoi compiti, felice di aver dato una buona notizia a Snefru. Il cielo era l'impido e l'afa pomeridiana cominciava a farsi sentire mentre Kaaper camminava Sulla strada sabbiosa per il tempio. L'euforia si impossessava di lui e gli veniva quasi voglia di canticchiare: presto avrebbe avuto quelle due meravilgiose bimbe con se al tempio; avrebbe insegnato loro tutto ciò che sapeva, le avrebbe viste crescere come le figlie che non ha mai avuto.


Qualche anno dopo..

«Sorellina aspettami! Non correre così veloce!»
«Sbrigati Udajet, se il pelatone o qualcuno degli altri sacedoti scoprono che non siamo al tempio sono guai!»
«Non chiamarlo così! È il sacerdote capo!!!» urlò Udajet di rimando, indignata dall'insolenza della sorella.
«Non è mica qui ad ascoltare dai! Chi se ne importa!» la spensierata risata di Nekhbet colorò l'aria circostante, alleggerendo per un attimo il pesante caldo di un pomeriggio inoltrato. Quel caldo in cui tutto è tranquillo e silente, quel caldo che normalmente prosciuga tutta l'energia dal corpo umano senza fare alcunché. Per due bambine che di energia ne hanno da vendere, quel caldo appiccicoso e soffocante non faceva alcuna differenza.
Le bimbe correvano a perdifiato su una stretta via secondaria verso il tempio, spronando i muscoli delle piccole gambine ad andare più veloce nonostante la stanchezza per aver giocato tutto il pomeriggio. Ciocche di capelli biondi e corvini si aggrovigliavano nel vento per la corsa. I sacerdoti non avevano cuore a tagliarli per far indossare loro una parrucca, non ancora almeno.
Per l'ennesima volta la determinazione del carattere vivace della piccola Nekhbet aveva convinto sua sorella a sgattaiolare dal tempio per andare a giocare tra i banchi del mercato. Un piccolo atto di ribellione che era ormai una consuetudine a cui neanche la paurosa e timida Udajet sapeva più dir di no.
Kaaper aveva detto loro di restare nella loro stanza a studiare i geroglifici da "Il libro dei morti", copiarli su un papiro e impararli a memoria. Per delle bambine che non sentivano altro che il richiamo del gioco il compito si rivelò alquanto noioso, finché Nekhbet, capelli biondi e dritti, occhi neri e profondi, incarnato olivastro, con la sua aria da furbetta, alzò la testa dal papiro e propose di uscire di nascosto per andare a giocare e magari andare a spaventare qualche disgraziato giù al mercato fingendo di lanciargli qualche maledizione divina. Udajet, sguardo di smeraldo indeciso un poco nascosto dai lunghi capelli corvini leggermente ondulati che le incorniciavano il pallido viso, aveva acconsentito a patto di non intimorie nessuno; era solo una bambina ma aveva già capito che era meglio non giocare sui compiti di dea incarnata minacciando qualcuno per gioco o solo per qualche dolcetto e qualche veste di lino colorata. Dal suo punto di vista erano solo capricci. Stupidi capricci di bambina. Ma per la sorella non era così. Per Nekhbet tutto era un gioco e, per quanto odiasse studiare tutto il giorno, le piaceva di tanto in tanto approfittare della sua carica di Dea in Terra.
Dopo essere evase da una delle tante porte del tempio, una di quelle da cui non passava quasi mai nessuno, corsero verso il mercato e lì vi restarono tutto il pomeriggio a rincorrersi tra le bancarelle o a giocare al gioco del serpente1 con gli altri bambini, gioco che piaceva particolarmente alla graziosa Udajet. I bambini, almeno loro, le trattavano come fossero persone normali, delle semplici coetanee che volevano solo giocare senza essere giudicate per ogni parola, ogni esperssione. Almeno finché non facevano le solite curiose e odiose domande che solo i bambini possono fare: "come potete essere sorelle se siete così diverse?", "perché vi regalano sempre le cose più costose?", "non ho mai visto parrucche di quel colore, come l'hai fatta? Con i peli di cammello?", "Hai la pelle troppo chiara, sei per caso malata?". E continuavano così, fino al momento in cui lacrime di rabbia riempivano gli occhi della piccola Udajet e la sua bocca sputava insulti e minacce, che erano le ingenue offese di un bambino, e Nekhbet, prendendola per mano la portava lontana e si faceva dare dalla gentile anziana della bancharella dei frutti, i datteri più dolci. Cosa c'era di meglio per attenuare la rabbia e la tristezza?
Una volta sbollita la rabbia, stavano ancora gustandosi quelle dolci prelibatezze quando si accorsero che si era fatto tardi: a momenti Kaaper sarebbe tornato al tempio e avrebbe controllato il loro lavoro. Ringraziarono la donna per i suoi magnifici frutti e la sua gentilezza promettendole un posto tra le stelle insieme a loro, e cominciarono a correre spedite come il vento verso il tempio.

Kaaper era appena tornato al tempio dopo l'ennnesimo colloquio col Faraone per organizzare la festa di Opet che si sarebbe tenuta dopo poche settimane. Camminava tranquillamente attraverso i corridoi del tempio, i suoi passi echeggiavano tra le alte mura e le varie statue di pietra finché si fermò e fu silezio: era arrivato alla stanza delle bambine, stava fissando la porta chiusa di legno e nessun suono proveniva dall'interno. Temeva che le bimbe fossero nuovamente uscite a giocare di nascosto. Avevano tutte le ragioni per farlo ma era pericoloso per loro e per le credenze del popolo. Chissà cosa poteva sfuggire dall'ingenua bocca di una bambina che tutto il regno crede una dea? E chissà come il popolo avrebbe interpretato quelle innocenti parole? Se uscivano doveva essere presente anche lui. Ma anche se lo facevano di nascosto non aveva cuore per punirle, erano solo delle bambine, era normale per loro voler solamente giocare alla loro tenera età, così si limitava a farle studiare più del normale.
Era il momento della verità: aprì piano la porta e infilò la testa all'interno.
«Buonasera gran sacerdote Kaaper!» le bimbe lo avevano accolto in coro, sedute al grande tavolo nella loro stanza, papiri sparsi ovunque e pennellini alla mano, che lo guardavano con quei sorrisi innocenti e gli occhi vivaci, pieni di vita e di speranza. Kaaper spalancò la porta ed entrò nella stanza sorridendo: la soddisfazione per averle trovate così dedite allo studio era per lui immensa.
«Buonasera mie piccole dee! Vedo che siete ancora a lavoro, che meraviglia! Ma per oggi avete studiato a sufficienza, ora potete andare a cenare nella sala grande e poi vi potrete coricare.»
Udajet e Nekhbet fecero un po' d'ordine nella stanza e poi composte, senza correre e senza fare confusione, si avviarono verso la sala grande del tempio per la cena. Sorridendo si lanciavano sgardi di sotterfugio: anche questa volta l'avevano scampata per miracolo.


1: una specie di gioco dell'oca.
   
 
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