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Autore: Non ti scordar di me    11/10/2015    7 recensioni
[Sequel Amore Proibito]
E dopo anni di lontananza, Elena e Damon Salvatore si rincontrano in un altro contesto e con altri sentimenti.
Elena è in bilico tra due mondi diversi: un mondo di sorrisi finti o un mondo di apatia. Lei non fa parte né di uno né dell’altro.
Damon ha trasformato il ‘proibito’ che provava per Elena in altro: in odio e sarcasmo mal celato.
Elena non ha rinunciato alla vita. Lei vuole salvarsi. Non vuole sentirsi un reietto della società.
Damon non ha più fiducia in nessuno. Lui non vuole salvarsi. Vuole trovare un metodo per chiudere tutto.
I due una volta che si rincontreranno cosa faranno? E soprattutto, i due lasceranno alle spalle il loro legame di sangue?
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Dalla storia:
«Se ora sei così sicura di te e combatti questa merda che hai intorno, è merito mio. Ti ho reso io forte, bimba.» Commentò stanco.
-
«Un fiammifero.»
«Un fiammifero?» Chiesi.
«Un fiammifero che prova a battere le tenebre. Ecco cosa sei.» Disse Damon.
-
«Lei era un’oppressa. Lui era un sopravissuto.»
-
E i due come si comporteranno? Lasceranno che il loro ‘proibito’ vinca su quello che pensa la gente?
Non ti scordar di me.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert | Coppie: Damon/Elena
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta
Capitoli:
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Capitolo tredici.
Free.
 
C’erano delle volte in cui non sapevi precisamente cosa stavi facendo, non riuscivi più a ragionare lucidamente perché qualcosa ti annebbiava la vista o il lume della ragione, altre volte preferivi chiudere gli occhi e scollegare tutto solo per illuderti che tutto sarebbe potuto andare bene.
Oh, nel caso mio tutto questo non funzionava.
Non funzionava un cazzo.
Perché se la ruota girava per tutti, non girava assolutamente per me. Per me, mai qualcosa doveva girare nel modo giusto. Assolutamente nulla, non c’era nulla che girasse dalla mia parte regalandomi un centesimo della felicità che meritavo…Oops, forse non la meritavo? Forse tutto quello che aveva fatto mi aveva portato dov’ero ora e forse la ruota girava per tutti quelli che la meritavano, non per quelli che non meritavano nulla.
E io sapevo troppo bene dove mi trovassi, io ero nel lato sbagliato ovviamente.
Ero precisamente nel lato sinistro, quello sfigato. Nella mia mente era diviso tutto a destra e a sinistra, ogni volta che dovevo agire in qualche modo stilavo mentalmente sempre due liste e se nella lista alla destra c’erano le opzioni più intelligenti da utilizzare, potete immaginare cosa ci sia nella lista alla sinistra.
E conoscendomi, sapevo perfettamente quale lista avrei scelto alla fine. Perché, quindi, continuare a stilare queste due liste se alla fine mi ostinavo a seguire sempre la parte oscura del mio cervello – decisamente era anche la parte che funzionava meglio –?
Perché nella mia fottutissima mente contorta avrei avuto più possibilità di portare a termine ciò che avevo in mente seguendo le idee più pericolose che mi venivano in mente.
Ecco, decisamente per qualche mese ero riuscita in qualche modo a tenere a bada la parte più distruttiva di me. La parte in cui il mio subconscio mi suggeriva magari di tirare un pugno alla cassiera che mi chiedeva ripetutamente delle informazioni che non sapevo, o di tirare una cinquina a quel coglione dell’Agente Young che ancora ostinava a perseguitare me e la mia famiglia per le informazioni su King & Co.
Da quando avevo parlato con Damon, erano passate tre settimane e mezzo – quasi un mese a breve – e tra le sedute dallo psicologo, le uscite normali che io stessa organizzavo, le serate al karaoke, qualche sessione di studio che mi servivano per recuperare la moltitudine di esami che avevo perso e tante altre attività che avevo organizzato pur di distrarlo un po’ dalla sua monotonia erano diventante un’abituè per entrambi.
E anche se fingevo che tutto stesse andando per il meglio, sapevo che quelle due settimane erano state le peggiori che avessi passato in tutti quei mesi. Oltre che mentire a Damon – ovviamente le bugie per incontrare l’Agente Young si facevano sempre più frequenti, maledetto lui e la sua incompetenza! – non riuscivo più a reggere io stessa quello standard di vita.
Perché, decisamente, fare la brava ragazza non era la parte che faceva per me; non mi calzava e per quanto stessi cercando di impersonarla al meglio questo mio insolito comportamento iniziava a puzzare a troppe persone.
Dio, fare la parte della brava ragazza è così noioso. Non che fossi una killer seriale – sebbene ci fossi vicina dal diventarlo –, ma certamente non faceva parte del mio stile attuale di vita passare i pomeriggi sui libri e la sera ai barbosi eventi organizzati in locali dal nome maledettamente impronunciabile e con compagne di corso che volevano mettere le grinfie su mio fratello.
Ripensandoci, come facevo a vivere prima della comparsa di Damon nella mia vita? Ero la tipica adolescente con un’amica, problemi familiari e solite cazzate che tutti affrontavano almeno una volta nella vita a diciassette anni.
Poi mi ero rovinata. Rovinata non rappresentava neanche un decimo di come mi ero seriamente ridotta nel giro di qualche anno, eppure se avessi l’opportunità di tornare indietro non cambierei questo stile di vita; cambierei solo qualche decisione.
Il pericolo, l’adrenalina, il sangue che pompa, il cuore che minaccia di uscire dal cuore erano delle sensazioni che avevo scoperto relativamente da poco ma non volevo abbandonarle.
Non volevo tornare alla normalità, eppure io mi ero ricostruita una facciata nel giro di qualche giorno, ho costretto me stessa a sorridere e obbligarmi a recitare la parte della collegiale per far assaggiare la normalità a Damon.
Io avevo vissuto nella normalità, nella noia per la maggior parte della mia vita – sedici anni non erano affatto pochi –, Damon invece era l’esatto opposto.
Non aveva avuto un pizzico di normalità, catapultato nella grande metropoli di Londra fin da quando era piccolo, con solamente sua madre e nessuno a sostenerlo.
Non aveva avuto la mia infanzia.
Il piano era quello di ridargli ciò che non aveva avuto: uscite, sbronze normali in un locale, quattro chiacchiere davanti una birra e stronzate del genere.
Eppure mi ero resa conto che ormai quello non era più affare mio. Non riuscivo ad ubriacarmi in un bar, non riuscivo neanche a sentirmi felice sostenendo una chiacchierata con qualche ragazza del mio corso.
Ero di un altro mondo, un mondo che non sapevo neanche esistesse fino a poco tempo fa.
Era come se ogni più piccola particella del mio corpo mi dicesse di ritornare alla mia vita, all’Elena che guidava una motocicletta completamente ubriaca, all’Elena fuori di testa che accettava di occultare un cadavere per sentire il brivido.
Ero risucchiata in uno di quei vortici che ti risucchiavano più della droga, così la vedevo la mia situazione. Avevo maledettamente bisogno di prendere un sospiro da quel mese estenuante per me e aveva un assaggio di quello che mi ero persa in quel poco tempo.
E l’avrei anche fatto, senza alcun problema; però la mia coscienza – Dio, la detestavo in questi momenti – mi ricordava che Damon aveva bisogno di quell’aria più calma, di quell’aria più vivibile e allora cancellavo tutto quello che avevo programmato.
Ogni singolo programma andava a puttane solo se la mia mente proiettava il nome Damon. Una di quelle sensazioni che ti prendevano lo stomaco e si allargavano fino ad arrivare al cervello e al cuore.
Situazione alquanto scomoda.
Stavo, gradualmente, perdendo il controllo di quello che io avevo creato. Ed era bizzarro vedere quello che avevo creato soffocarmi, eppure sarei disposta a lasciarmi soffocare pur di farlo respirare un secondo.
Come se fossi drogata, come se rivivere il brivido e l’adrenalina fossero la mia eroina.
Ma le dipendenze peggioravano, dopo l’eroina c’era sempre qualcosa di più pesante no?
In questo caso non sapevo assicurarmi se sia più forte il bisogno di riavere la mia vita o il bisogno di far avere a Damon la vita che desiderava.
 
*
Katherine Pierce.
Dio, quanto la stavo odiando in quel momento. Quella piccola stronza perfino dall’altro mondo – o ovunque si trovasse in questo momento – mi stava rovinando la vita.
L’unica cosa che io sapevo più della polizia era che Trevor Wood era stato ucciso per sbaglio. La sua morte era la tipica morte causata da una stupidaggine, si era trovato al momento sbagliato nel posto sbagliato. Pensare che se avesse tardato qualche minuto in più o non si fosse piazzato davanti alla porta ora sarebbe stato vivo mi metteva i brividi.
La polizia aveva tra le mani due casi, uno nuovo di zecca tra le mani che non risolveranno molto facilmente e uno vecchio lasciato marcire nel passato fin ora, fin quando King non si era rifatto vivo in qualche modo.
Cosa sapevo io, di Katherine Pierce?
Sapevo che era una ragazza asociale, con problemi di autostima, chiusa in un mondo tutto suo con la paura costante di morire.
Sapevo che era morta, che si era suicidata buttandosi giù da un ponte. Sapevo che Damon l’amava alla follia e che lei era ancora troppo giovane per morire a quell’età.
Cosa sapeva la polizia, di Katherine Pierce?
Sapeva che era una ragazza d’oro, con amici raccomandabili e un fidanzato discutibile per uno stile di vita particolarmente diverso dal solito.
Sapeva che era fidanzata con Damon Salvatore e che era amica di Joseph King, due dei nomi più conosciuti nei sobborghi e nelle stradine malfamate di Londra.
Decisamente percorrevamo strade diverse con direzioni diverse ma con una stessa meta. E nonostante la polizia fosse convinta che eravamo una squadra, io avevo deciso di fare a modo mio.
Non potevo certamente permettere a quei bastardi di arrivare prima di me alla soluzione e poi spiattellarla su tutti i giornali senza pensare alle conseguenze.
Avrei dovuto scoprire cosa stava succedendo, capire se Damon c’entrasse qualcosa, parlargli e poi…senza ombra di dubbio, ammazzare King in caso fosse lui il responsabile del finto suicidio di Katherine.
I fascicoli parlavano chiaro, Katherine Pierce aveva stretti rapporti con King. O almeno, così sembrava, dalle descrizioni dei genitori della ragazza.
Puntualmente, ogni lunedì e mercoledì la ragazza usciva la sera in compagnia di questo misterioso ragazzo che non era certamente Damon e ritornava solamente il mattino successivo ad orari improbabili, certe volte neanche ritornava.
L’unico punto che non mi tornava e non tornava neanche alla polizia era la completa assenza di una dichiarazione da parte di Gabriel*, fratello della ragazza. Fratello che io stessa avevo conosciuto due anni fa quando avevo messo piede per la prima volta in Inghilterra.
Ricordavo ancora il tatuaggio sul suo braccio: una K. Mi metteva i brividi, non lo vedevo più da tempo, alla pista di motocross non si era mai fatto vivo, dalla volta in cui l’avevo incontrato all’aeroporto due anni fa non l’avevo più visto se all’inizio della mia permanenza a Londra e un…un’altra volta.
Oh merda. Come ho potuto dimenticarmi di una cosa del genere?
Raccolsi immediatamente le scartoffie che giacevano sul mio letto, infilando nella federa del cuscino – mi sembrava l’unico posto sicuro per nascondere dei documenti così importanti -, presi le chiavi della moto e sgattaiolai fuori da camera mia.
Damon era rinchiuso nella sua stanza, lo capivo dalla musica spacca timpani che provenivano dalla camera. Decisamente, Stefan lo stava infastidendo con il suo stile di musica preferito – orribile, a mio modesto parere.
Non portai neanche con me la borsa, sarebbe stata solo di impiccio. Tutto ciò che mi serviva l’avevo a portata di mano: cellulare nella tasca dei pantaloni, chiavi di casa nel giubbotto e le chiavi del motorino tra le mani.
Possibile che non mi era venuto in mente prima? Mi maledii, partendo verso la mia destinazione. Diedi un’occhiata veloce al mio orologio: avevo scarsi tre quarti d’ora per trovare quello che cercavo, poi sarei dovuta ritornare a casa e prepararmi per un’altra magnifica serata, una ragazza biondina aveva invitato Damon alla festa della sua confraternita ed ovviamente l’avrei accompagnato – sia perché mi aveva invitato ad andare con lui e non potevo declinare l’invito sia perché da solo nella confraternita di quell’arpia bionda non ci sarebbe entrato –.
Nel frattempo, riflettevo sull’ultima volta che avevo visto Gabriel.
Non ricordavo com’era possibile, ma un paio di mesi prima del ritorno di Damon in Inghilterra mi ero imbattuta proprio in quel ragazzo.
Ero al supermercato, presa dalla fretta di tornare a casa per sistemare il tutto avevo urtato qualcuno che non si era rivelato un semplice sconosciuto.
Gabriel Pierce mi guardava desolato, osservando la confezione di latte distrutta a terra che si allargava velocemente sul marciapiede.
«Dio, scusami…» Mi aveva detto scrutandomi attentamente. L’avevo riconosciuto velocemente e dire che mi sentivo a disagio era poco. Non volevo proprio avere a che fare con lui, anche perché era strano essere a stretto contatto con il fratello della ex ragazza di mio fratello, fratello di cui ero ossessionata.
«Sta più attento la prossima volta, che ne dici?» Avevo allora risposto io, celando la mia acidità anche se era tangibile l’aria tesa che aleggiava tra noi due.
«Casa mia è a qualche passo, ho un cartoccio di latte come nuovo.» E la prima cosa che pensai fu che il ragazzo aveva bisogno di imparare dei modi migliori per abbordare le ragazze.
«Non ce n’è bisogno.» Avevo mormorato stizzita, volendo liberarmi di lui.
Ero così convinta di non lasciarmi abbindolare, di continuare dritto per la mia strada e risalire sulla mia macchina parcheggiata lì vicino.
Eppure alla fine mi ero ritrovata a casa sua. E non era come me la immaginavo: la mia fervida fantasia aveva immaginato un luogo più silenzioso, più cupo e con un’aria stantia che rendeva impossibile una normale vita all’interno di quella casa.
Sorprendentemente non c’era nessuno, non c’era il silenzio poiché la televisione era stata lasciata accesa, non c’erano troppe fotografie e le poche che c’erano non rappresentavano certamente Katherine.
Questo mi fece sentire poco meglio, poi entrai in cucina e spalancai gli occhi vedendo diversi cartoni ancora aperti pieni di vestiti, effetti personali, disegni prettamente femminili.
«Scusa il disordine…» In realtà non ci avevo neanche fatto caso. Più che altro ero maledettamente curiosa, come sempre. Perché tutti quei cartoni imbottiti di oggetti che evidentemente non erano suoi?
«Non ti preoccupare…Piuttosto, è da un po’ che non ti vedo, tutto bene?» All’inizio, quando avevo appena messo piede a Londra passava intere giornate alla pista di motocross e – datemi della paranoica – sentivo i suoi occhi puntati costantemente sulla mia schiena.
«Ho viaggiato un po’, l’aria di Londra mi stava soffocando.» E non insistetti più, perché evidentemente stava ancora affrontando il suo dolore e io non ero nessuno per mettere il naso nel dolore altrui e cercare di comprenderlo, non era certamente compito mio.
«Spero ti sia schiarito le idee…» Dissi spostandomi innocentemente verso il tavolo da pranzo su cui erano poggiati la maggior parte dei cartoni, imballati e non.
I miei occhi ricaddero sul primo cartone. Era l’unico che non sembrava potesse scoppiare da un momento all’altro: erano sistemati all’interno svariati diari di dimensioni modesti, ne erano almeno una decina.
Istintivamente allungai la mano per toccarne uno, ma «Erano di Katherine.» la voce di Gabriel mi fece sposare istantaneamente l’attenzione su qualcos’altro.
«E’ tutto quanto di Katherine?» Chiesi quasi a disagio. Se prima non avevo avvertito un’aria pesante, ora sembrava l’esatto opposto.
Gabriel sembrava quasi sugli attenti, una molla pronta a scattare da un momento all’altro.
«Sto sistemando la sua stanza. E’ la prima volta che…» Lasciò il discorso in sospeso ma avevo afferrato il concetto.
Non riuscii neanche a replicare, poiché lo osservai prendere quel cartone sotto i miei occhi ed imballarlo per poggiarlo su un altro già sigillato.
Come non ero riuscita a capire che quei diari contenessero la risposta a tutto?
Il lasso di tempo dal suicidio di Katherine al tentato omicidio era di qualche giorno, in quei pochi giorni avrebbe dovuto scrivere qualcosa all’interno del suo diario – diario che probabilmente Gabriel non aveva dato nella mani della polizia, altrimenti l’Agente Young mi avrebbe detto della sua esistenza.
L’idea di presentarmi a casa sua non era niente male, peccato che ora mi ritrovassi davanti il portone di casa Pierce e la mia moto parcheggiata lì vicino.
Come ci entro in casa? Mi maledii.
Presa dal lampo di genio non mi era assolutamente venuta in mente un valido motivo per poter entrare in casa sua. Frustata mi sedetti sulla moto, sperando che mi venga in mente qualche idea.
Il mio sguardo era concentrato su un punto fisso davanti a me, la mia mente stava pensando diverse soluzioni ma non mi ero resa conto che la soluzione era esattamente davanti a me.
Un signore stava trafficando con il motore della sua automobile e un sorriso spuntò sul mio volto.
Quella sì che era un’idea geniale.
 
Tralasciando il fatto che ero in ritardo sulla mia tabella di marcia e che mi rimanevano solamente dieci minuti per entrare in casa di Gabriel, cercare quei fottuti diari e ritornare a casa mia; ora stavo bussando alla porta di casa Pierce sperando con tutta me stessa che ci fosse solo lui in casa.
La porta si aprì dopo pochi istanti e…Dio è dalla mia parte. Pensai vedendo Gabriel sull’uscio della porta guardarmi con un’espressione mista tra il sorpreso e lo sconcertato.
«Elena?» Mi chiese aggrottando le sopraciglia, evidentemente sorpreso della mia presenza lì. Accennai un sorrisetto verso di lui e annuii schiarendomi la voce.
«Elena Salvatore in persona.» Dissi sfoderando le mie capacità persuasive. Poggiai una mano sulla maniglia della porta spalancandola completamente.
«Wow, non ti vedo da mesi…» Era a disagio. Neanche io mi sentivo a perfettamente a mio agio a parlare con lui, ma dovevo calarmi nella parte.
«Speravo di trovarti a casa, in verità…» Sussurrai utilizzando un tono innocuo, un tono che non era mio. «Ho forato, mi sono ricordata che abitavi qui e ho pensato forse Gabriel potrebbe aiutarmi?»
Quasi mi veniva da piangere. Per due motivi distinti.
Il primo era che ero entrata così bene nella parte da meritarmi un premio per la recitazione e il secondo motivo – nonché più importante – era che avevo voglia di strapparmi i capelli pensando a quello a cui avevo sottoposto la mia povera moto.
«Sei in macchina?» Mi chiese accennando un sorriso. Scossi la testa e gli indicai la mia motocicletta parcheggiata poco distante da casa sua.
«Potresti darle un’occhiata? Non sono, ancora, una meccanica…» Gli dissi scostandomi da davanti alla porta allontanandomi di qualche passo facendogli segno di seguirmi.
Era la prova dell’otto. Se mi avesse seguito, sarei riuscita a risolvere una buona parte dei miei problemi.
«Diamoci un’occhiata.» Mi disse uscendo completamente di casa sua seguendomi.
Bingo.
«Ti serve qualcosa o si può risolvere facilmente?» Gli chiesi con un sorriso consapevole. Non era un semplice problemino, io stessa avevo forato la mia ruota e mi ero accurata di forarla con attenta precisione.
«Mhm, credo che avrò bisogno di una ruota nuova.» Mi disse. «Seguimi, nel ripostiglio dovrebbe essercene una della mia vecchia moto, credo possa andare bene per il tragitto da qui a casa tua»
Avevo accennato al fatto che forse la ruota una volta tanto stava girando dalla mia parte? Non avevo la più pallida idea di dove si trovasse il suo garage, sapevo però che non era quello il mio obbiettivo.
Io dovevo assolutamente entrare in casa, trovare camera della ragazza e sperare che i diari non li avessero riposti da qualche altra parte. E per realizzare tutto questo mi rimanevano solamente cinque minuti.
Rassegnata al fatto che avrei fatto sicuramente tardi e che forse in qualche modo sarei riuscita a scampare la serata alla confraternita di quella stronzetta, mi schiarii la voce attirando l’attenzione di Gabriel.
«Ehm, potrei utilizzare il bagno?» Chiesi incerta, sperando che abboccasse al tranello.
Vidi un lampo di incertezza passare negli occhi del ragazzo, deglutì insicuro e poi accennò un movimento cauto del volto aprendo la porta di casa sua.
«Sali le scale, prima porta a destra.» Disse, sorridendo. «Vado a prendere la ruota, nel frattempo.»
Entrai in casa con il cuore in gola e salii velocemente le scale, identificai immediatamente il bagno e chiusi la porta alle spalle sbattendola con forza.
Aprii la porta non prima di aver fatto passare un paio di minuti, quasi a volermi accertare che Gabriel non fosse incerto sul mio obbiettivo.
Dopo esser uscita dal bagno e aver chiuso la porta nel modo più silenzioso possibile feci qualche passo avanti e mi guardai attorno.
C’erano tre porte, di cui una era certamente camera di Gabriel – fu semplice da riconoscere, vi era un mega cartello in nero che vietava l’accesso a chiunque. Ridacchiai leggermente e la sorpassai, andando ad istinto aprii quella accanto dando per scontato che la sorella dormisse accanto a lui.
«Troppo scontato.» Diedi voce ai miei pensieri. Certamente quella non era camera di Katherine, perché certamente Katherine non dormiva su un letto matrimoniale ancora sfatto.
Rimasi ancora più sconvolta quando mi resi conto di aver scartato a priori la camera della ragazza.
Perchè mettere un cartello del genere sulla porta della camera della sorella?
Entrata dentro, chiusi la porta alle spalle a chiave.
Oh, beh, se prima avevo qualche dubbio sulla personalità di Katherine Pierce ora era anche peggio. Era del tutto fuori strada, quella camera non rappresentava minimamente Katherine innocente ragazzina Pierce.
Era grigia. Anzi, tutto quanto era grigio. La stanza sfiorava tutte le tonalità del colore cupo, a partire dal copriletto fino ad arrivare alle tende.
Mi avvicinai alla scrivania, sopra vi erano una serie di libri di psicologia – non avevo la più pallida idea che le interessassero quei temi -, un computer nuovo di zecca e un solo portafotografie.
Ero sempre più convinta di aver sbagliato stanza, la fotografia all’interno rappresentava Gabriel e una ragazza dai capelli corvini e gli occhi marroni, con un trucco eccessivo e un rossetto nero sulle labbra.
Curiosai in quella stanza senza prestarci attenzione, fin quando non aprii l’anta dell’armadio e mi resi conto che in quella stanza qualcuno ci viveva.
Quella era l’unica spiegazione a quelle lenzuola pulite poste e quei cuscini che profumavano di pulito.
Forse aveva buttato tutto? Aveva dato fuoco a tutto quello che apparteneva alla sorella?
Richiusi l’anta e decisi di uscire da lì. Avrei veramente fatto un solo passo in più se la mia attenzione non fosse ricaduta nuovamente sul pc.
Mi aveva dato l’impressione di essere nuovo di zecca, la verità era che era fin troppo nuovo. Quel computer era troppo nuovo per appartenere a Katherine, non era stato neanche prodotto quattro anni fa.
Notai che era già acceso, segno che qualcuno era entrato recentemente in quella stanza.
Il desktop era sommerso di cartelle ognuna con un titolo diverso, di cui ovviamente non sapevo il significavo e non avevo neanche il tempo per aprirle tutte e controllarle personalmente.
Katherine 2002.
Katherine 1996.
Katherine 2005.
Non sapevo nulla di lei, quella camera non la rappresentava affatto, non vi erano tracce della ragazza eppure quel computer era pieno di cartelle con il suo nome. Probabilmente erano solo fotografie.
Era nata il mio stesso anno, o almeno dalle informazioni che avevo di lei.
Era del 1996. Damon era del ’94. Se fosse ancora viva, avrebbe avuto vent’anni.
Katherine 2010. L’anniversario della sua morte. E poi subito dopo vi erano un’altra serie di cartelle dal nome quasi impronunciabile. Alla fine cliccai due volte sulla cartella, sperando che si aprisse al più presto.
Vi erano più di cento file all’interno, costatai che erano solamente fotografie…delle pagine di un diario. Mi serviva urgentemente il cartaceo, che probabilmente era stato perduto.
La data che segnava la fotografia però segnava l’inizio del 2010, probabilmente una data troppo lontana dal giorno del tentato omicidio.
Quella situazione era più complicata di quanto potessi immaginare, non avevo abbastanza tempo per scorrere tutte quelle fotografie e analizzarle nei dettagli.
Chiusi repentinamente quella cartella e lasciai il computer così come l’avevo trovato.
Diedi un calcio frustata a terra e sbattei i pugni sulla scrivania. Possibile che Gabriel avesse offuscato tutto quello che riguardasse la sorella? Non aveva neanche senso. Perché togliere di mezzo gli ultimi ricordi di tua sorella? Perché metterli su un computer e non lasciare semplicemente il cartaceo?
Perché il cartaceo è una prova troppo schiacciante. Se ci fosse stato qualcosa di scandaloso in quei diari, qualcosa che avrebbe attestato che quella di Katherine non era un suicidio…Gabriel li avrebbe consegnati alla polizia, giusto?
O forse, stavo cercando di proteggere e Damon dalla persona sbagliata? Per ultima cosa frugai nel comodino.
Era in legno scuro. Ovviamente pieno di scartoffie che osservai passivamente. Erano solo appunti, disegni, cose inutili che non mi sarebbero servite a nulla.
Notai, però, che il cassetto era poco profondo. Qualcosa non tornava.
Afferrai il cassetto e lo tirai completamente fuori dal comodino, lo svuotai cautamente e oltre alla caduta di tutti i fogliettini che erano riposti all’interno caddero una teca di legno che probabilmente era stata incastonata all’interno del cassetto e un diario.
Riposizionai tutto alla perfezione mentre riflettevo dove mettere il diario. Certamente non potevo uscire da quella camera con quel diario in mano.
Per ora l’importante era uscire dalla camera, aprii la porta e corsi nuovamente verso il bagno.
Gabriel non si era ancora fatto vivo, possibile che non avesse neanche un sospetto?
Mi chiusi all’interno del bagno e posai il diario sul lavabo pensando a qualcosa.
L’unica cosa da fare era nasconderlo. Mi sbottonai il giubbotto di pelle e infilai il diario sotto la maglia grigia, senza problemi ritirai la zip della giacca e mi morsi il labbro.
Non avrebbe funzionato.
«Elena?» Sobbalzai sentendo la voce del ragazzo dietro la porta e sospirai, non sapendo cosa dire. In qualche modo sarei dovuta uscire dal bagno.
«Scusami, non mi sento molto bene…» Aprii la porta e osservai Gabriel in silenzio, cercando di capire in qualche modo se sospettasse di qualcosa. Mi portai le mani sul ventre e misi su una delle espressioni più dolorose che potessi improvvisare.
«Vuoi che ti accompagni a casa?»
Scossi la testa e pregai in silenzio che finisse tutto lì. Dovevo andarmene da quella casa.
 
*
Se prima pensavo che forse qualcosa stesse girando per il verso giusto, ora ero più che certa che qualcuno lassù stesse cercando di mettermi i bastoni tra le ruote.
Scampavo ad un guaio, ne trovavo un altro a poco tempo di distanza.
Ero appena rientrata in casa, avevo chiuso alle mie spalle la porta sperando di non dare troppo nell’occhio. Non ero neanche riuscita a sospirare e prendere una boccata d’ara.
«Da chi stai scappando?»
Sobbalzai nel sentire la voce di Damon calma e pacata, mi girai e mi colse alla sprovvista inquadrandomi con i suoi occhi azzurri.
«Da nessuno.» Neanche pensavo di trovarlo seduto su quella poltrona: era immobile, le gambe accavallate e sul volto vi era un’espressione pensierosa. Da quanto tempo, precisamente, era seduto lì?
«Cosa nascondi?» Un’altra domanda a cui non sapevo rispondere.
Fui incerta pochi secondi, non sapendo cosa intendesse con quella domanda. Mi chiedeva cosa nascondevo, ancora, sotto la maglietta o mi chiedeva cosa gli stavo nascondendo in generale?
«Riformulo la domanda: per quale ragione stai nascondendo quello che sembra un libro?» Era stato molto più che preciso. Dritto al punto.
«Non è qualcosa che ti possa interessare, Damon.» Gli dissi, non accennando neanche un sorrisetto. Non volevo fargli credere che si trattasse di una cazzata, perché non lo era. E non volevo neanche dirgli la verità, perché quella sarebbe stata semplicemente…troppo.
Troppo per lui, che avrebbe scoperto particolari della morte della sua ex ragazza di cui neanche sapeva l’esistenza.
E troppo, anche, per me. Dirgli la verità, significava ammettere a me stessa di essermi immischiata in una situazione fin troppo complicata.
«Elena.» La sua voce arrivò alle mie orecchie dura e perentoria. La sua mano si poggiò delicatamente sul fianco destro, mi attirò poco più vicino a sé e posò le sue labbra sul mio lobo.
«Qualsiasi cosa riguardi te, mi interessa.» Lo stomaco era sottosopra, come succedeva sempre quando ero troppo vicina a lui.
«Siamo in ritardo per quella festa.»
«Si vede che non sei tagliata per la vita da universitaria…» Mi sussurrò all’orecchio, cingendomi la vita con entrambe le braccia. Posò il suo mento sulla mia spalla e lentamente strofinò il suo naso contro il mio collo.
«Possiamo andare alla vecchia pista di motocross, non pensi?»
Decisamente non era quella la proposta che mi aspettavo da lui.
«Non ci andiamo da tempo. King potrebbe essere nei paraggi…» Gli dissi. Mi girai per osservare la sua reazione, non era spaventato da un probabile incontro con King; sembrava tutto fuorchè intimidito da quel bastardo.
«Non fanno per noi quei posti. Non fanno per noi le serate seduti con la musica di sottofondo, non siamo noi quei fratelli seduti su una sedia in camoscio, non siamo noi quei fratelli che bevono vino costoso. Tutto questo non fa per noi, non siamo noi.»
Ebbi la sensazione che avesse intuito quello che stavo facendo per lui. Come se in qualche modo avesse potuto sentire tutte le emozioni che provavo quando ero seduta in uno di quei locali al centro di Londra infilata in uno di quei tubini neri troppo scomodi.
«Noi abbiamo bisogno di provare tutto. Ora più che mai non dovremo rifugiarci in una realtà che non è nostra.» Mi spiegò, stringendo le sue mani nelle mie.
Quel mese era stato uno dei peggiori della mia vita, non riuscivo proprio a passare ogni giorno in completa tranquillità. Mi guardavo attorno, alla ricerca di qualcosa da fare.
Qualcosa di nuovo, che mi avrebbe messo ancora alla prova, che mi avrebbe spinto al limite e mi avrebbe aiutato a superarlo.
«Non credo sia una buona idea. Non va affatto bene tutto questo. Non è assolutamente normale che io la mattina mi svegli pensando a cosa fare per provare un po’ di adrenalina. Io dovrei svegliarmi, andare all’università, studiare, avere un futuro…Ma questa non mi sembra vita. » Sussurrai.
Era così strano alzarsi la mattina e pensare che la tua vita era diventata una serie di azioni che avresti dovuto ripetere per troppo tempo.
«Perché non è più la tua vita. Elena, tu vuoi provare tutto. Noi siamo quel tipo di persone che fanno di tutto pur di vivere veramente. Un giorno avrai una famiglia e cosa potrai dire della tua vecchia vita? Di quanto fosse tanto facile quanto noiosa? O magari, racconterai fieramente ciò che hai fatto fin’ora?» Mi chiese con tono di voce persuasivo. «Vuoi una vita piena, non l’avrai continuando a vivere nella convinzione che questa vita mi faccia stare meglio.»
Colpita ed affondata.
«Perché non mi fa stare meglio, chiaro?» Non sapevo da quanto tempo si tenesse dentro tutte quelle parole, sapevo però che condividevo ogni parola che aveva detto fin’ora.
Eravamo talmente simili da pensarla allo stesso modo, da condividere le stesse emozioni e da decidere di buttarci a capofitto in imprese che avranno conseguenza catastrofiche…Tutto pur di scoprire ogni giorno un’emozione diversa.
«E cosa ti fa stare meglio? Esiste qualcosa che ti fa stare seriamente meglio? Perché i tuoi sto bene del cazzo, non convincono più nessuno.» Gli dissi, sperano che potesse capirmi. Ogni giorno era sempre la stessa cosa, non c’era un solo giorno in cui non gli avessi chiesto come stava.
E la sua risposta era sempre la stessa, ci avevo fatto l’abitudine a sentire sempre quelle due parole ma mai sarei riuscita a crederci al cento per certo.
«Vuoi saperlo? Vuoi sapere cosa mi fa stare bene?»
Successe troppo velocemente. Un momento prima Damon spostava le sue mani sui miei fianchi e faceva aderire i suoi fianchi ai miei, il momento dopo portava la mano destra sul mio volto e un secondo dopo le sue labbra erano sulle mie.
Fui quasi presa alla sprovvista, ma dopo lo sgomento iniziale lo strinsi a me più forte che potevo. Lo stavo stringendo a me con tutta la forza che possedevo, quasi a farlo diventare una seconda pelle perché delle volte era quello di cui avevi bisogno.
Non avevi bisogno di quei baci spettacolari, con le luci soffuse e l’atmosfera romantica.
Delle volte ti facevi bastare quello che ti si presentava senza pensare a come succedeva, l’importante era che era successo.
Non mi importava se tra me e Damon c’era quel fastidioso diario ad impedire il contatto completo tra i nostri corpi, non mi importava di stringerlo in quel modo quasi ossessivo, non mi importava di quello strato di vestiti in eccesso a coprire entrambi.
Stava succedendo, cogli l’attimo prima che sparisca. Ripeteva il mio cervello a macchinetta.
«Tu. Tu con i tuoi abbracci che spaccano le ossa, tu con i tuoi atteggiamenti, tu con i capelli spettinati, tu con un sorriso a incresparti le labbra, tu con il tuo modo di mandarmi a fare in culo.» Grugnì, accarezzandomi la guancia.
«Voglio ubriacarmi, voglio fumare sigarette, voglio farmi una canna, voglio correre su una motocicletta, voglio fare tutto basta che ci sia tu.» Mi spiegò con gli occhi spalancati.
Non ero brava a comprendere i sentimenti delle persone, per quanto cercassi sempre di sforzarmi c’era sempre qualcosa che mi sfuggiva.
Con Damon, invece, succedeva l’esatto contrario. Con Damon avvertivo tutto, persino i sentimenti più stupidi e futili li avvertivo dal primo all’ultimo e la parte strana era che ne ero contenta.
Ero contenta di poter assaporare tutti i nostri momenti con la consapevolezza di dare un nome a quello che sentivo.
«Sai cosa vorrei io? Vorrei solo che ti stessi zitto e che mi baciassi ancora, coglione.»
E probabilmente non saremo mai liberi del tutto, forse non potrò mai camminare mano nella mano con lui e non potrò mai uscire con lui, questo non cambiava nulla.
Questo non significava che non eravamo liberi, significava che le piccole libertà che ci concedevamo erano riservate a pochi.
E seguì un bacio, poi un altro e un altro ancora fin quando entrambi non avevamo il fiato per continuare.
Vedevo lo sguardo di Damon, così preso da quello che eravamo che all’improvviso quel diario che avevo nascosto stava diventando troppo pesante.
C’era qualcosa che mi stava dicendo che continuare a mantenere quel segreto non mi avrebbe aiutato a nulla, anzi avrebbe solamente peggiorato il tutto e avrebbe anche creato una crepa tra il rapporto che io e Damon stavamo creando.
«Damon…» Avevo la voce ridotta a un debole sussurro, il che lo insospettì visto che arricciò il naso e incurvò le sopraciglia.
Mi allontanai da lui e sbottonai il giubbotto, sotto lo sguardo sorpreso di Damon che non riusciva a capire cosa stessi facendo.
«Ti devo parlare di una cosa che non ti ho detto.» Gli dissi, portando al petto il diario che lui non aveva evidentemente riconosciuto.
«Cosa?» Aveva indurito la voce, mi guardava con un occhio critico ed mentalmente stava già pensando cosa non gli avessi detto.
Sospirai.
King forse ha ucciso Katherine, io sono andata da Gabriel alla ricerca di qualcosa di indefinito e ho trovato questo diario. Mi avrebbe ucciso e sarebbe rimasto anche sconvolto perché a) avrei sganciato una bomba a orologeria che non sapevo quando sarebbe scoppiata, b) avrei dovuto raccontargli del piano che ho messo in atto per prendere quel diario e c) avrebbe capito che ho fatto irruzione in casa della sua ex ragazza e ho frugato in quella che doveva essere camera sua.
Chissà cosa è successo su quel letto. Fin’ora non avevo neanche pensato a cosa quei due avessero fatto su quel letto, quasi mi venne la pelle d’oca ma decisi di non pensarci. O sarei impazzita.
«Qualcuno ha tentato di uccidere Katherine.» Prima bomba. «E penso che quel qualcuno sia King.» Seconda bomba.
Chiusi istintivamente gli occhi, aspettandomi una di quelle reazioni esagerate e tipiche di Damon, mi aspettavo una sfuriata, una serie di bestemmie, magari anche un pugno al muro…ma mai mi sarei immaginata di vedere Damon di fronte a me a squadrarmi in silenzio non sapendo cosa fare.
Perché sì, Damon Salvatore non sapeva cosa fare. Stava cercando di temporeggiare con me.
Sorprendendomi, non fece nessuna mossa falsa.
«Con chi hai parlato, Elena?» Chiese preoccupato. E allora capii che forse era meglio se avessi parlato prima con lui, prima di mettermi in mezzo in fatti che non mi riguardavano in prima persona.
«Tu lo sapevi?» Replicai con gli occhi sbarrati. «E come puoi aver accettato il piano di King? Possiamo sbatterlo in prigione per doppio omicidio e uscirne puliti!» Forse non proprio uscirne puliti. In qualche modo io sarei stata interpellata, su quel cadavere c’erano le mie impronte e avevo la netta sensazione che Damon si sarebbe messo in mezzo nonostante non c’entrasse.
Il corvino scosse la testa divertito e poi scoppiò in una risatina che mi diede sui nervi.
«Non può essere King.» Dissi stizzito.
Già sapeva del quasi incidente di Katherine, non gli era neanche venuto il dubbio che quel suicidio fosse una messa in scena per coprire un omicidio? Possibile che non avesse ancora capito che razza di persona era Katherine Pierce? E soprattutto, perché non sospettava di King?
«Come puoi esserne certo?» Gli chiesi assottigliando gli occhi in due fessure.
«Ne sono certo perché quella sera in cui qualcuno ha cercato di uccidere Katherine, lui era con me.»
Alzai lo sguardo verso di lui e capii che non solo la polizia era fuoristrada ma che io non ero un passo avanti a loro.
Sia io che la polizia eravamo in un vicolo cieco, da anni non riuscivano ad incastrare King perché forse lui non c’entrava realmente con quel quasi omicidio.
«Perché sei venuto a Mystic Falls, Damon? Dubito che sia veramente per la tua discutibile condotta scolastica.» Gli dissi con voce autoritaria.
In tutta quella storia c’era seriamente qualcosa che non tornava. Andarsene da Londra per venire a Mystic Falls sapendo che la tua ragazza era morta per via di una terza persona, non aveva assolutamente senso.
«Perché dopo Katherine, c’ero io.» Dopo Katherine, c’era lui? Ripetei mentalmente più volte quella frase e non riuscivo a darmi una spiegazione che potesse sembrare normale.
«Cosa vuoi dire?» Non sapevo se volessi veramente sapere la sua risposta, ma ormai ci ero dentro. E volevo mettere un punto al grande mistero che si aggirava intorno alla morte di Katherine Pierce.
«Voglio dire che c’è qualcuno che ha tentato di uccidere me, dopo di lei.»
Merda.
Ora capivo che fin’ora Damon combatteva su un proprio binario e che solamente ora mi aveva permesso di salire sul suo treno.
La domanda da farsi era: il treno arriverà a destinazione?
 
 
 
 
 














Dalla specie di annuncio che ho lasciato vi avevo fatto capire che sarei tornata presto.
So che è passato forse troppo tempo, ma ho capito che scrivere deve essere un piacere, non un obbligo.
E quando non ho nulla da scrivere, è meglio non scrivere nulla invece che mettere stupidaggini online giusto per mettere un capitolo che magari non vale nulla.
Questo che avete letto vale molto poco per me, ma io sono un’autocritica spaventosa. Lo ero prima e ora in questi tempi credo sia peggiorata di gran lunga i miei modi di rivedere/giudicare le storie/i capitoli.
Ho riletto tutto ciò che ho scritto ed è tutto mediocre, mi fa veramente pena. E rispetto a quello che sto progettando – ma che non pubblicherò – mi fa veramente schifo.
La storia in sé la trovo buona, ma la stesura mi ha lasciata senza parole. Perciò cercherò di migliorare questa storia e contemporaneamente la sto riscrivendo con personaggi originali, narrazione alla terza persona e altri dettagli che aggiungo man mano.
Tralasciando la parte ‘autocritica’ del capitolo e della storia in generale, passo al contenuto.
Questo capitolo più che altro ‘informa’ diversi progressi, anche se vi assicuro che la storia è leggermente complicata – forse è per questo che mi è difficile scrivere i capitoli.
Ammetto di essermi divertita a scrivere la parte ‘investigativa’ del capitolo – la storia era nata come un romanzo d’amore, poi per sbaglio si è evoluta in altro.
Sta di fatto che questo intrigo mi ha aiutato a creare personaggi migliori, più decisi e con una storyline migliore di quella che avevo in mente.
La trama non l’ho mai cambiata radicalmente, ho sempre avuto le idee chiare ma ovviamente ci sono stati molti miglioramenti e anche idee che dovevano sorprendere voi lettori (spero di esserci riuscita in qualche modo).
Comunque, ora che avete il quadro della storia più confuso del previsto cosa farete? Continuerete? Avete già capito qualcosa? E soprattutto siete seriamente convinte che King non c’entri nulla?
Poi vorrei sapere cosa ne pensiate di Damon, vi aspettavate una cosa del genere da lui? Secondo voi qualcuno ha seriamente tentato di uccidere lui e Katherine? Perché?
Vi lascio con questi interrogativi e ringrazio le ragazze che mi hanno spronato a continuare sia via recensione sia alle ragazze che mi hanno contattato privatamente.
Sappiate che non mi aspetto nulla da voi, per come mi sono comportata capisco perfettamente che non vogliate più seguirmi. Ho scritto questo capitolo un po’ come…prova? Ho piacere a continuare questa storia, se a qualcuno interessa ancora.
A presto, in caso qualcuno voglia ancora sopportarmi.
Non ti scordar di me.

  
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