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Autore: Hermione Weasley    13/10/2015    3 recensioni
“Non siete il primo che è venuto a vedere la strega,” alluse, il sospetto vivissimo.
“Io non credo alle streghe,” non poté fare a meno di sottolineare, vagamente risentito dall'essere stato accomunato ai superstiziosi babbei del villaggio.
“Però siete venuto a vederla comunque,” la ragazza non voleva proprio mollare il colpo. Si sentì messo alle strette, innaturalmente indispettito.
“Ero curioso.”
“Quindi ci credete.”
“No, che non ci credo. Questo posto è piccolo e gli estranei sono sempre fonte di curiosità, non vi pare abbastanza?”
---
XVIII secolo. La vita di Clint Barton, figlio adottivo dell'eccentrico lord Phillip Coulson, cambia radicalmente quando una presunta strega viene ad abitare nel bosco vicino alla villa della famiglia. Clint dovrà fare i conti con la superstizione, gli obblighi, le responsabilità e forze in gioco molto più grandi di lui.
[1700 AU] [Clint/Natasha] [apparizioni di tutti gli Avengers + alcuni personaggi di Agents of Shield] [COMPLETA]
Genere: Avventura, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 8

~

 

Il cielo si stava ormai schiarendo sulla linea dell'orizzonte. Il sole era solo una macchia fumosa che faceva capolino tra le sagome azzurre delle colline. La scarsa luce si riverberava pigramente sull'acqua del fiume; gorghi di un blu profondo come la notte che andava diradandosi, ma che con il sorgere del giorno avrebbero riacquistato la solita tonalità giallognola di sempre.

La figura di Natasha si muoveva con sicurezza e determinazione davanti a lui. Non si era mai voltata da che avevano abbandonato il bosco, né per sincerarsi delle sue condizioni, né per permettergli di raggiungerla.

Aveva aperto bocca solo per rassicurarlo sul fatto che la freccia avrebbe fermato l'emorragia e che se ne sarebbero potuti occupare durante la prossima sosta. Sosta che Clint aveva scoperto essere più lontana di quanto avesse inizialmente pensato.

Ci avevano messo un'ora ad uscire dalla vegetazione e raggiungere il corso d'acqua, quasi cinque per ripercorrere la strada già fatta, stavolta al contrario. Se non altro non c'era il tanfo che li aveva accompagnati – assieme alla compagnia di saltimbanchi – lungo la via più interna.

La stanchezza era tanta e il sonno gli premeva sugli occhi come un macigno. Ma non aveva rallentato e non si era lamentato, limitandosi piuttosto a tenere il passo della donna. Man mano che i minuti scivolavano via, anche il dolore al braccio sembrò sparire in un antro oscuro della sua testa, insieme all'indolenzimento dei muscoli, alle vesciche ai piedi per il troppo camminare, alla fitta fastidiosa sotto la scapola destra. Clint si sentiva uno schifo, ma si era improvvisamente ricordato di quanto fosse facile andare avanti per inerzia, mettere un piede dolorante davanti all'altro, all'infinito. Fermarsi avrebbe spezzato l'incantesimo e riportato alla sua attenzione tutte le magagne che stava cercando di ignorare.

Natasha continuava a lanciare fugaci occhiate alla sua sinistra, osservando con circospezione la linea degli alberi che andava allontanandosi e diradandosi sempre di più, sicuramente temendo un qualche attacco o imboscata. Non successe niente del genere, ma l'allerta rimase alta e lo era tuttora.

Un puntino scuro parve materializzarsi davanti ai suoi occhi, sospeso in lontananza tra le due rive. Sbatté le palpebre nel tentativo di metterlo a fuoco, ma anche la sua vista era troppo stanca per funzionare adeguatamente.

“Siamo quasi arrivati al ponte.” La voce gli era uscita come un borbottio arrochito dall'insonnia. “Credo,” ebbe l'accortezza di aggiungere, nella vaga possibilità che fosse solo un'allucinazione.

Si aspettava di vedere la sua informazione messa in discussione, ma tutto quello che Natasha fece fu fermarsi improvvisamente. Clint si sentì soffocare da un repentino moto di panico – non lo sapeva, quella sconsiderata, che se si fossero fermati anche solo per cinque minuti, non sarebbero più ripartiti?

Rallentò cautamente i passi, ma non si fermò, indeciso sul da farsi.

“Che fai?” Le chiese, contando lo spazio che li separava, come sperando di cogliere le sue intenzioni e magari evitare di arrestarsi nel caso fosse solo un falso allarme.

“Dobbiamo sistemarti la spalla,” disse solamente, senza guardarlo e a bassa voce. Sembrava stesse parlando da sola, tra sé e sé.

“Posso proseguire.” Ecco, le era praticamente di fianco.

“Non puoi attraversare il ponte con una freccia conficcata nel braccio,” spiegò solamente, decidendosi infine a rialzare lo sguardo su di lui. Era stanca, gli occhi cerchiati eppure vigili. Per un assurdo istante gli parve quasi di averla sorpresa con le difese abbassate e – per qualche motivo – la trovò... bella. Non che non si fosse accorto di quanto fosse attraente, ma non ricordava di averle mai associato quella specifica parola. Bella. In modo un po' triste, forse. O magari la sua malinconia era inestricabilmente legata alla sua bellezza. Forse non aveva proprio niente a che fare col suo aspetto fisico.

“Hai l'aria di uno che sta pensando un sacco di cazzate.” L'amorevole appunto di Natasha lo riportò coi piedi per terra.

“E' quello che stavo facendo,” confermò senza esitazioni, dimenticando prontamente la sfuriata sentimentaleggiante che l'aveva occupato solo qualche attimo prima.

Si era fermato e non se n'era neppure accorto.

“Non mi sento più i piedi,” gli sfuggì, beccandosi un'occhiataccia.

“Hai una freccia infilata nel braccio e ti lamenti dei piedi?”

“Bè, se proprio vuoi metterla così...” Se doveva essere sincero non si sentiva più neppure il braccio.

“Siediti,” gli ordinò perentoriamente.

Obbedì, rendendosi conto che, sì, forse era più vulnerabile, ma pure più stronza. Evidentemente c'era un sottile equilibrio da rispettare: l'ostilità era inversamente proporzionale all'indifferenza. Non le piaceva sentirsi così – ragionava Clint – esposta. Forse era l'alba che incombeva su di loro o magari i fumi dell'insonnia, ma gli sembrò completamente diversa dalla donna infuocata dei suoi sogni, o la muta castigatrice avvolta dalle fiamme che aveva scoperto nella casa del tagliaboschi.

La guardò mentre poggiava a terra il loro bagaglio (arco incluso) e si metteva a rovistare nella piccola bisaccia che si portava sempre dietro e di cui Clint ignorava il contenuto. Ne tirò fuori una scatola larga e appiattita di legno scheggiato, tenuta chiusa da un sigillo d'ottone. Era divisa in diversi scomparti a loro volta coperti. La lasciò aperta sul prato per recuperare un sacchetto di tela.

La luce si faceva via via meno timida; la macchia sfocata del sole si alzava lentamente tra le colline, perdendo progressivamente il suo alone di fumosa foschia. Tra pochi minuti sarebbe iniziato ufficialmente un nuovo giorno. Un altro gran bel giorno di merda, precisò Clint, sperando – se non altro – di potersi tenere il braccio. Non era ancora pronto a rinunciarvi.

Tornò su Natasha mentre stava srotolando della garza bianca. Fece per chiederle qualcosa, ma la donna si alzò e si allontanò senza una parola, lasciandolo solo con tutto quell'armamentario incomprensibile mentre lei passava in rassegna la bassa vegetazione svariati passi più in là. Osservò, annusò e leccò (le leccò sul serio) foglie di diverse forme e dimensioni, finché non parve aver trovato quelle che facevano al caso suo. Ne raccolse una manciata e tornò indietro, facendo come se niente fosse.

“Adesso ho capito perché credevano fossi una strega,” biascicò, rivolgendole un sorriso esausto.

Di solito era in grado di funzionare anche con poche ore di sonno, ma più tempo passava e più doveva prenderne atto: non aveva molto controllo sulla sua faccia o sulla sua bocca in quel momento. Si ripromise di stare zitto per non dire stronzate... non più del solito, se non altro.

“Chi ha detto che non sono una strega?” Rilanciò lei mentre gli porgeva l'otre del vino. “Bevi.”

“Oh... merda,” imprecò a mezza voce, come se fosse bastato quel suggerimento a ricordargli che sarebbe stata un'operazione dannatamente dolorosa.

“No, è vino,” ribatté lei, ignorando le implicazioni delle proprie parole.

Clint bevve, inghiottendo con avidità il liquido dolciastro per sedare una sete che non si era concesso di registrare. Nel frattempo Natasha gli si era avvicinata, organizzando i suoi strumenti per averli a portata di mano o – sospettò – per distrarlo. Subito dopo, infatti, afferrò la freccia e, per un orribile istante, Clint ebbe paura che fosse sul punto di tirarla fuori senza alcun preavviso. Ma si limitò a prendere la misura della propria mano sullo stelo di legno e a spezzare il resto.

Lo aiutò a sfilarsi la casacca di pelle e – senza chiedergli il permesso – aprì uno squarcio per tutta la lunghezza della manica della camicia. Le sue dita erano sorprendentemente delicate mentre sfioravano l'avambraccio per permetterle di osservarlo da più angolazioni. Un'immagine ben precisa gli si materializzò davanti agli occhi.

“Una donna mi ha accusato di averti lasciato bere il mio sangue,” si ritrovò a dire, puntando lo sguardo altrove, sul sole ormai a metà del suo cammino. “Mi sono appena ricordato di quella volta che mi hai tolto la scheggia dalla mano.”

L'illazione aveva una che di ridicolo, eppure in qualche modo Natasha aveva davvero assaggiato il suo sangue. Fosse stato superstizioso avrebbe temuto di essere stato soggiogato grazie a qualche astruso sortilegio di magia nera, ma per sua sfortuna non lo era.

“Gli ignoranti sono più scrupolosi di quanto si pensi,” rispose la donna, “le loro accuse hanno sempre un qualche fondamento di verità. E' quello che le rende pericolose.”

“Quindi non sei una strega,” constatò.

“Non ho detto questo,” lo corresse.

“A che ti serve tutta quella roba?” Stava cercando di non pensare all'atroce dolore che lo attendeva, ma la consapevolezza continuava a farsi tenacemente strada tra le nebbie del sonno e dell'alcool.

“Ad assicurarmi che tu non muoia per un'infezione.”

“Oooh, quindi ti piaccio.” Non avrebbe saputo spiegare da dove gli fosse uscito, ma era successo e adesso gli veniva persino da ridere. “Almeno un poco, dico.”

Natasha lo stava bellamente ignorando, concentrandosi piuttosto sullo strappare la manica di quella che aveva tutta l'aria di essere una camicia pulita.

“Non importava che usassi una delle tue,” aggiunse Clint.

“Infatti è una delle tue,” lo rassicurò, rubandogli una mezza risata.

“Ovviamente.”

E poi... successe. Più che un'onda, il dolore si presentò sotto forma di una cascata gelida. Gli si riversò addosso con un attimo di ritardo e lo attraversò come un fulmine, risvegliando ogni singola porzione di pelle che sfiorava, richiamando tutto il suo corpo all'attenzione affinché potesse percepirlo in tutta la sua straordinaria intensità. Qualcosa di caldo cominciò a scendergli lungo il braccio, ma tutto ciò a cui riusciva a pensare era il dolore, il modo in cui sembrava aver occupato tutto lo spazio disponibile della sua mente. Gli sembrava di essersi dilatato a dismisura per contenerlo tutto e allo stesso tempo di essere stato compresso e ridotto ad un singolo punto pulsante.

“Rimani sveglio.” La voce di Natasha sembrò arrivare da mille miglia di distanza.

Si voltò per guardarla, ma i lineamenti del suo viso gli apparvero confusi. La vista gli si era sfocata.

“L-La f-fai facile...,” si ritrovò a strascicare, ma neppure si rese conto d'averlo fatto.

“Rimani sveglio, Clint.”

“S-Sono... s-sono...,” deglutì, mentre le linee si confondevano davanti ai suoi occhi, sgranandosi sempre di più, tuffandosi le une nelle altre finché tutto quello che vide fu un mare di nero.

Cadde in un sonno senza sogni.

 

*

 

Riaprì gli occhi sulle crepe del soffitto.

Li richiuse un attimo dopo.

Il suono leggero dell'acqua gli solleticava gli orecchi.

La stanza sapeva di chiuso e di muffa, e il letto non l'avrebbe definito comodo neppure sotto tortura. Eppure si sentiva stranamente in pace con se stesso e col mondo.

Fece vagare lo sguardo assonnato più in basso, incontrando la schiena nuda di Bobbi proprio accanto alla finestra chiusa da un telo lercio. Una sottile striscia di luce penetrava dal perimetro del davanzale che il panno non riusciva a sigillare del tutto.

Provò una fitta d'eccitazione improvvisa mentre risaliva con gli occhi lungo il corpo nudo della donna. Sembrava bianchissima nel buio della stanza, in piedi nella tinozza dove amava farsi il bagno. Se ne concedeva uno ogni giorno, d'estate, quand'era sicura di non rischiare un raffreddore; ma evitava sempre di bagnarsi i capelli, troppo lunghi per essere asciugati in tempo.

La guardò mentre si chinava sulle ginocchia, a raccogliere qualcosa da terra. Avrebbe voluto chiamarla, dirle di raggiungerlo, baciarla e adagiarla sul letto, maledicendo la pelle umida che gli impediva di afferrarla e stringerla come avrebbe voluto. Magari avrebbe sepolto il viso tra le sue cosce, così morbide e lisce, e le avrebbe dato un buongiorno come si deve.

Il sesso di prima mattina era una delle cose che preferiva. Era pigro e rilassato proprio come piaceva a lui; quando la pelle sa ancora di sonno e i baci sono indolenti, i movimenti rallentati di chi non è del tutto sicuro di cosa stia succedendo, il piacere che le si disegnava sulla faccia ancora solcata dai tenui segni impressi dal cuscino. La clandestinità della loro relazione faceva sì che non succedesse tanto spesso – Clint evitava di trattenersi fino al giorno seguente, quando allontanarsi di nascosto sarebbe stato più problematico – ma si ritrovava spesso a desiderare quell'intrecciarsi di braccia e gambe, le risate sommesse e soffocate nel materasso dalla superficie irregolare.

Serrò le labbra, mentre un prurito familiare lo rianimava e i fumi del dormiveglia cominciavano lentamente a diradarsi. Bobbi si rimise in piedi, portandosi un secchio sopra la testa. Doveva aver deciso di lavarsi anche i capelli e, infatti, dopo un attimo si rovesciò l'acqua addosso. Le scese in rivoli lungo il collo e le spalle, creando strisce invisibili sulla schiena prima di tuffarsi lungo le curve del fondoschiena e le linee dritte e sode delle gambe.

Ebbe quasi l'impressione che l'acqua le fosse rimasta attaccata alla schiena, mantenendole sulla pelle, come per magia, il disegno irregolare dei rivoli trasparenti.

Ma poi si accorse che la trama non era dell'acqua, ma della pelle stessa.

E quelli non erano serpentelli d'acqua, ma cicatrici. Bianchissime e spesse, le attraversavano circa i tre quarti della schiena. L'eccitazione cedette il passo ad un allarme improvviso: qualcuno l'aveva fustigata.

Si mise a sedere di scatto, procurandosi una fitta di dolore al braccio. E la sensazione piacevole sembrò sgombrargli definitivamente il cervello mentre prendeva atto di dove fosse e con chi. I capelli della donna, infatti, non erano lunghi e biondi, ma rossi come fuoco; le lambivano a malapena la base del collo.

Natasha.

Trattenne il respiro e provò un incomprensibile moto di nausea. Era stata frustata. Più di una volta perché le linee si intersecavano in più punti, alcune erano in rilievo, altre solo delle tracce biancastre che spiccavano appena sulla pelle diafana. Più la guardava e più la rete di cicatrici si infittiva, come se tutta la superficie del suo corpo non fosse altro che un insieme di cuciture l'una sopra l'altra, il ricamo di un pazzo senza controllo.

La guardò strizzarsi i capelli e recuperare un telo chiaro appeso ad un chiodo infisso nel muro. Prima che se lo avvolgesse attorno al corpo, la sua attenzione venne calamitata da un segno più evidente degli altri.

Un marchio circolare in cui era inscritta una clessidra, impresso sulla sinistra, proprio alla base della schiena. Lo stesso che Boris, il Mangiafuoco, le aveva mostrato la notte precedente. Avrebbe voluto riflettere, sviscerare e contare i frammenti che era riuscito a raccogliere sul suo conto fino a quel momento, rimetterli insieme per dar loro una parvenza di significato.

Ma Natasha era uscita dalla tinozza e si era voltata verso di lui mentre si asciugava i piedi su qualcosa di abbandonato sul pavimento.

“Ti sei svegliato,” disse con l'aria di chi sapeva perfettamente di essere osservata. “Credevo fossi svenuto definitivamente.”

“Dove siamo?” Le chiese, stropicciandosi il viso con una mano mentre con l'altra – con estrema nonchalance – si avvicinava un cuscino dall'aria pulciosa attirandolo tra le gambe casualmente incrociate. L'eccitazione si era tramutata in panico, ma non voleva correre il rischio di mostrarsi troppo interessato.

“In una locanda,” rispose e riavvicinò il letto per frugare nella bisaccia abbandonata in fondo al materasso. “Nel primo villaggio dopo il ponte,” aggiunse, forse sentendosi prodiga di informazioni (tanto per cambiare).

Metà del suo cervello si stava sforzando di capire come diavolo fossero arrivati in quel posto da che si era addormentato (suonava meglio di: era svenuto) sulla riva erbosa del fiume; l'altra si perdeva a constatare come la donna non si fosse minimamente scomposta nonostante sapesse di essere stata sorpresa completamente nuda in presenza di un semisconosciuto. Non solo non sembrava importarle, ma le mancava anche la malizia che si sarebbe aspettato in caso di un deliberato atto di seduzione. Non l'aveva voluto provocare, si rese conto. Come se la nudità non fosse che un dato di fatto come qualsiasi altro – gli alberi, le case, il fiume.

“Sei riuscita a portarmi fin qui da sola?” Si costrinse a chiedere, giusto per non rimanere in silenzio come un dannato stoccafisso.

“Sei un po' pesante, ma non è la prima volta che me ne vado in giro con un uomo in collo,” disse serissima, selezionando dei vestiti puliti dal povero assortimento di cui disponeva.

Le credette. Per qualche assurda ragione, credette seriamente di essere stato trasportato fin lì a braccio da una donna poco più bassa di lui e apparentemente dieci volte più debole.

E poi qualcosa di improbabile – persino più improbabile della nudità disinteressata di lei – successe. Le labbra le si strinsero l'una nell'altra e il viso le si contrasse in modo strano.

Stava trattenendo una risata.

Natasha stava (quasi, va bene) ridendo. Lo stava prendendo in giro, ecco cosa.

“Che fottuta stronza,” imprecò, lanciandole addosso il cuscino, dimenticandosi per un attimo del perché l'avesse stretto a sé tanto per cominciare. Si aspettava di vederglielo schivare, ma si lasciò colpire e l'urto, praticamente impalpabile, parve darle il permesso di sorridere.

“Sono molto lusingata dalla tua fiducia nella mia prestanza fisica,” commentò ammirata, anche se non lo stava guardando, occupata com'era a tirar fuori una camicia nera, pulita, ma un po' troppo grande per la sua stazza.

“Come no,” sbuffò in risposta, imponendosi di recuperare un minimo di autocontrollo.

“Un contadino passava di lì con un carretto,” gli spiegò. “Gli ho dato un soldo per convincerlo a caricarti là sopra, tra rape e patate, e portarti dall'altra parte.”

Invece che sfilarsi il telo e indossare la camicia, Natasha indossò la veste sopra l'asciugamano, assicurandosi di essere coperta prima di sfilare la stoffa umida e abbandonarla sul letto.

“Sei diventata pudica tutto insieme?” Si ritrovò a chiederle, maledicendosi per la sfacciataggine. Ma lei non parve turbata, anzi, gli sorrise con aria saccente.

“Non è per me, è per te,” puntualizzò. “Quei cuscini sono pieni di parassiti schifosi e non vorrei che te ne prendessi qualcuno pur di convincerti che non potrei sopravvivere alla vista di un uomo eccitato.”

Si sentì irritato e divertito al tempo stesso, ma soprattutto imbarazzato.

“E' una cosa che succede, la mattina,” tentò di giustificarsi.

“Lo so.”

“Specialmente se c'è una donna nuda nella stanza.”

“Ma davvero?” Si era infilata dei pantaloni puliti.

“Pensavo fossi un'altra.”

“Sta' zitto,” lo rimbrottò. “Conosco tutti gli oscuri segreti del mondo, Barton.”

Gli lanciò un'occhiata esplicita e finì di vestirsi.

“Datti una mossa,” lo esortò. “Vestiti e raggiungimi di sotto. Mangiamo qualcosa e ce ne andiamo.”

La seguì con lo sguardo mentre indossava gli stivali, raccoglieva le sue cose e usciva dalla stanza senza una parola di più.

Pensò che fosse la persona più strana che avesse mai incontrato.

 

*

 

La trovò seduta al tavolo più appartato – quello d'angolo – dello stanzone al pianterreno. Il pomeriggio stava ormai volgendo al termine e la locanda cominciava ad animarsi. Clint individuò senza troppa difficoltà gli ubriaconi abituali; erano quelli che sembravano essersi mimetizzati con l'ambiente e far parte del mobilio insieme a tavoli logori e sedie consunte.

Le finestre erano aperte e lasciavano entrare una luce calda e dorata, accompagnata da un vago olezzo di letame (vago perché vi si era ormai assuefatto, probabilmente).

Appoggiò il mucchio delle sue cose sulla sedia libera lì accanto e le si sedette davanti. La donna, senza una parola, spinse verso di lui un piatto pieno di una brodaglia rossastra in cui galleggiavano pezzi di ortaggi non meglio identificati. O forse carne di un qualche animale sconosciuto. Ma aveva fame e non si lamentò; si appropriò del cucchiaio abbandonato nel piatto ormai vuoto di Natasha e se ne servì per consumare il suo pasto.

La donna non fece alcun commento: era chinata su un libretto punteggiato da simboli fitti che sembrava assorbire tutta la sua attenzione. Lo riconobbe come quello che le aveva visto leggere nella chiesetta di padre Selvig.

“Stai studiando un nuovo incantesimo per farmi il malocchio?” Le chiese, sentendo la ferita al braccio tirare fastidiosamente.

“Fare il malocchio a te è come attaccare un ospedale per i poveri con un reggimento dell'esercito,” rispose atona, sollevando a malapena lo sguardo su di lui prima di rituffarsi nella lettura.

Gli venne da ridere, sinceramente e senza secondi fini.

“Non so come ho fatto a non accorgermene prima,” constatò incredulo.

“Di che?” Si fece guardinga, facendo vagare lo sguardo tutt'intorno come se Clint l'avesse messa in allerta riguardo un pericolo imminente.

“Sei divertente.”

La tensione le abbandonò le spalle, permettendole di rilassarsi... quel poco che Natasha sembrava essere in grado di rilassarsi, almeno.

“Se è un complimento, perché suona come un insulto?” Gli ritorse contro, apparentemente stizzita. Però doveva aver catturato la sua attenzione perché richiuse il libro, tenendo il segno con l'indice a separare le pagine spesse e unte, offrendogli una visuale d'insieme sul suo viso.

“Forse non sei molto abituata ai complimenti,” commentò allucinato.

Gli sembrò sul punto di insultarlo, ma non disse niente.

“Che stai leggendo?” Le chiese piuttosto, riprendendo a mangiare la sbobba che si era rivelata essere più saporita del previsto. Non seppe dire, però, se era un bene o un male. Sperò soltanto che qualcuno non ci avesse sputato dentro; Natasha ad esempio.

“Un libro.”

“Sul serio? Mi sembrava fosse un montone quel coso,” la sfotté per la risposta inutile.

La donna alzò gli occhi al cielo, irritata.

“Sono racconti,” si decise a dire.

“Racconti,” ripeté, come sovrappensiero. “Di che parlano?”

“Di un tizio che viene ucciso perché parla troppo,” rispose a tono, reclinando il capo di lato per incenerirlo più comodamente con lo sguardo.

“Wow, suona avvincente!” Finse di non aver colto l'allusione, e nascose un sorriso nell'ultima cucchiaiata di zuppa. “Voglio sapere cosa c'era qua dentro?”

“Probabilmente no.”

Le porte della locanda si aprirono e richiusero per lasciar passare un gruppetto di uomini sporchi e sudati; dei contadini che avevano appena smesso di lavorare, forse. Si portarono dietro un forte odore di animale e risate sgradevoli e raschianti.

Clint scoccò loro una rapida occhiata, ma Natasha li ignorò consapevolmente, tornando al suo libro. La osservò per qualche istante prima di decidersi a richiamare l'attenzione dell'ostessa per chiederle un po' di vino.

“Che ti ha detto il Mangiafuoco ieri sera?” Si decise a chiederle a mezza voce, quando fu sicuro di non essere ascoltato.

“Niente di rilevante.”

Stavolta la risposta non-risposta di Natasha lo irritò enormemente.

“Hai intenzione di trascinarmi in giro per il regno tenendomi all'oscuro di tutto?” Non aveva voglia di scherzare adesso.

“Sei libero di andartene in qualsiasi momento.” Si era innervosita e Clint non riusciva a capire perché.

“Avete lo stesso marchio,” gli uscì più come una constatazione che una vera e propria domanda.

La vide stringere i pugni, le nocche imbiancate e le dita contratte contro i palmi delle mani.

“Voglio sapere di che si tratta,” aggiunse, beccandosi un'occhiata di fuoco.

“Non ti riguarda,” sibilò a denti stretti. Più appariva calma e più era arrabbiata, ormai l'aveva capito.

“Sì, invece, se ci farà finire nella merda.”

I nuovi arrivati scoppiarono di nuovo a ridere alle loro spalle, qualcuno fischiò un paio di volte e per un orribile attimo Clint temette che i richiami fossero indirizzati a loro. Ci manca solo questa, pensò lugubre. Natasha, invece, continuava a fingere assoluta indifferenza.

“Non ti succederà niente. Ha a che fare col mio passato, puoi smettere di agitarti,” il tono era sostenuto e sulla difensiva.

“Non mi sto agitando.”

“Ehi, amico, perché non vai a farti un giro?” Clint rialzò lo sguardo per incontrare gli occhi acquosi di uno degli omaccioni che si stavano divertendo a loro spese, provvidenzialmente materializzatosi accanto al loro tavolo. Era fiancheggiato da un paio di compagni, ognuno dall'aria meno raccomandabile dell'altro; avanzi di galera sfuggiti dalle maglie della giustizia, era ovvio.

“Sto benissimo dove sto, amico.” Pensavano davvero che avrebbe abbandonato Natasha al suo destino? Ma per chi cazzo l'avevano preso? “Non ci sono più i criminali di una volta,” si lasciò sfuggire in tono incredulo. “Da quando in qua chiedete alla gente di fare il lavoro sporco al posto vostro?”

“Perché non chiudi quella fogna?” Domandò uno dei tre, il volto ripiegato in un grugno animalesco.

“Perché a differenza di qualcun altro ho ancora tutti i miei denti da mettere in mostra.” Le parole gli uscivano di bocca senza che avesse il tempo di riflettere; il che, di solito, era un pessimo segno. “Quanti denti avete? Cinque in tre? Un bel modo di risparmiare sul barbiere.” (*)

Qualcuno gli afferrò lo schienale della sedia e la trascinò all'indietro con lui sopra.

“Non siete carini,” sibilò un attimo prima che uno dei tre si avventasse su Natasha, stringendola per una spalla.

“Ti va una passeggiata, bellezza?” Una minuscola parte di Clint provò una pena infinita per quel coglione, ma l'altra – decisamente più rilevante – non vedeva l'ora che la donna gliele suonasse.

“Avviati che poi ti raggiungo,” furono le parole di Natasha che decretarono l'inizio delle danze.

Un attimo prima l'atmosfera era rilassata e placida, quello dopo si scatenò il caos.

La vide scostare bruscamente la mano del tizio e schiantergliela sul tavolo, conficcandogli nel dorso il coltello che aveva estratto senza farsi notare. Lo lasciò così, inchiodato al legno, mentre col pugno libero lo colpiva in pieno volto.

Clint era troppo preso dal moto di ammirazione che lo colse senza alcun preavviso per evitare il primo cazzotto, ma fu abbastanza pronto da schivare il secondo.

“Figlio di puttana,” imprecò a denti stretti, saltando in piedi per far fronte ai due che gli vennero addosso. “Se mi hai rotto lo zigomo te le suono di santa ragione.” Torse il polso ad uno e respinse con un calcio nello stomaco l'altro. “Se insistete ve le do di santa ragione comunque! Basta chiederlo per favore.”

Con la coda dell'occhio si accorse che gli amici dei tre brutti ceffi si erano uniti alla banda per dar loro man forte, ma Natasha se la stava cavando egregiamente e nemmeno lui era poi così male: scoprì con soddisfazione di ricordare ancora come si fa a botte.

Furono pochi minuti di traffici incomprensibili, al termine dei quali quattro corpi panciuti e gementi giacevano a terra, mentre il quinto era chinato sul tavolo, la mano ancora immobilizzata dal coltello.

Un dolore sordo gli stava pulsando nel braccio in corrispondenza della ferita, mentre metà della faccia sembrava sprigionare un calore impossibile.

“Andiamocene,” suggerì Natasha, raccogliendo in fretta le loro cose sotto gli sguardi basiti degli altri avventori e dell'ostessa che stava tornando indietro con una brocca di vino fresco.

Clint si rammaricò sinceramente di non poterlo assaggiare, ma togliersi di mezzo aveva la precedenza assoluta.

“Sei proprio bravo a sedare gli animi,” commentò Natasha mentre l'affiancava in direzione dell'uscita.

“Ho imparato dalla migliore,” le restituì a tono. Avrebbe tentato di essere più conciliante se lei non l'avesse fatto innervosire a suon di segretezza.

Aveva già una mezza idea di riallacciare le fila del discorso, quando – ormai a pochi passi dalla porta d'ingresso – il riquadro della soglia non si riempì di ombre scure e minacciose: gendarmi.

Frenarono di colpo, voltandosi praticamente all'unisono per tentare la fortuna dalla porta sul retro... ma altre tre divise blu si palesarono all'altro capo della stanza.

Erano circondati.

Li avrebbero arrestati.

Dopo avergli lanciato un'occhiata fugace, la donna alzò le mani a mo' di resa. Malgrado tutto, Clint imitò la sua posa.

“Ogni giorno con te è un dono di Dio,” la prese in giro.

Natasha non sembrò gradire la battuta.






(*) in passato era normale che i barbieri svolgessero alcune mansioni tipiche dei dentisti e dei chirurghi.

 

Note: un capitolo un po' più tranquillo (ma per poco, s'intende) per permettere ai nostri due eroi di conoscersi meglio (poco per volta anche questo). L'insofferenza di Clint nei confronti della segretezza di Natasha è solo all'inizio... ma staremo a vedere! Nient'altro da aggiungere per adesso :) Riusciranno i nostri eroi a togliersi dai guai? Lo scopriremo nella prossima puntata!
Intanto ringrazio chi legge & recensisce, ché mi fa sempre piacere, e ovviamente la sociabeta Eli :*
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)
  
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