ERA UNA NOTTE BUIA E
TEMPESTOSA…
Si alzò sulle punte e posò l’occhio destro sullo spioncino,
sfiorando con la punta delle dita il legno bianco della porta di casa sua;
cercò di cogliere ogni più piccolo movimento proveniente dal pianerottolo,
dalla rampa di scale e persino dall’ascensore, ma niente. Tutto era fermo,
immobile. Come al tentativo precedente. E a quello prima ancora. E a quello
prima ancora.
A dire il vero tutto era piuttosto fermo da giorni. Ogni
tanto, molto tardi la sera ad onor del vero, sentiva
dei rumori provenire dall’appartamento che stava dall’altra parte del
pianerottolo; quando succedeva correva alla porta e si ripeteva meccanicamente
la solita scena, quasi una sorta di rito, un balletto ben studiato:
sollevamento sulle punte, occhio fisso nello spioncino, denti affondati nel
labbro inferiore in una atroce tortura.
All’improvviso di nuovo un rumore, una porta che si chiudeva
al di là del pianerottolo, e l’istinto di rimettersi di vedetta ruggì nel suo
petto, ma dovette frenarlo perché aveva appena preso tra le braccia la sua
nipotina nata poche settimane prima. Guardò quel visetto roseo e paffuto che
riusciva sempre a strapparle un sorriso, anche e soprattutto in quei giorni in
cui stranamente sentiva di non meritare di essere felice. Ed in effetti non lo
era. Felice. Era tutto l’opposto: aveva voluto e preteso i suoi spazi, la sua
libertà e la sua indipendenza e se ne era pentita dopo neanche un paio di
giorni. Era una sensazione sgradevole, fastidiosa, seccante, rendersi conto di
avere sbagliato. Non le sembrava di aver preteso troppo, in fin dei conti:
aveva appena chiuso una relazione che durava da anni, aveva pur diritto ad un
pausa di riflessione! Oddio…in realtà,
non aveva chiuso proprio niente, visto che era arrivata in ritardo a quella
maledetta udienza! E Renzo ora era troppo impegnato per anche solo pensare di
chiamare l’avvocato per fissare una nuova udienza: doveva fare il padre, oltre
che il nonno! Di nuovo una colata di acido le attraversò l’esofago arrivando
allo stomaco come un fiume di lava incandescente: il pensiero della seconda
paternità di Renzo sarebbe stata una ferita sempre aperta, doveva solo imparare
a conviverci. Certo, c’era stato un momento in cui il pensiero di quel
tradimento non la turbava così…un periodo in cui le era sembrato di poter
tornare ad essere felice, di poter avere una vita nuova. Ma era di nuovo
cambiato tutto, non per colpa sua. Ovviamente.
Il viso di Gaetano sorridente che la accoglieva in
commissariato la mattina dopo la loro prima notte insieme si affacciò
prepotentemente nella sua mente. Una fitta all’altezza del petto, che decise di
ignorare, mentre un sussulto della piccola Camilla richiamò la sua attenzione.
-Non corri alla porta questa volta, mamma?
La voce di Livietta arrivò improvvisa alle sue spalle.
-Livietta, pensavo stessi dormendo.
La ragazza scosse il capo senza distogliere quei due grandi
occhi azzurri da quelli color cioccolato della madre.
-Non gli hai ancora parlato?- chiese poi ignorando i silenzi
di Camilla.
-Parlato a chi?
Per tutta risposta Livietta alzò il sopracciglio sinistro con
l’aria di una a cui non la si fa.
-Vuoi davvero giocartela così?
-Livietta…
-Livia.
-Come, scusa?- chiese Camilla sorpresa da tanta fermezza nel
tono di voce di sua figlia.
-Livia. Sono Livia. Sono adulta, sono una mamma, ora. Mi
sembra arrivato il momento di chiamarmi Livia, non ti pare?
-Certo…certo- balbettò in risposta Camilla. Faticava ancora a
credere che la sua bambina fosse cresciuta tanto e fosse ora una madre;
smettere addirittura di chiamarla con il suo nomignolo affettuoso le sembrava
impossibile.
-E visto che sono adulta, vorrei mi trattassi come tale.
Quanto ancora devo aspettare per sapere cosa è successo tra te e Gaetano?
Camilla posò lo sguardo sulla piccola che ancora teneva in
braccio. Non aveva ancora raccontato a nessuno della chiacchierata (se così si
poteva chiamare) avuta con Renzo e Gaetano davanti alla macchinetta del caffè
in ospedale il giorno in cui erano nati Lorenzo e la piccola Camilla. La
ragione? Beh, la versione ufficiale comprendeva scarsità di tempo, lontananza
della sua amica Francesca per un convegno ed altre scuse patetiche dello stesso
tipo. La verità era che sapeva di aver fatto una cosa quantomeno discutibile:
non tanto nella sostanza, quanto piuttosto nella forma.
-Allora?- incalzò Livia decisa ad andare fino in fondo. Erano
giorni che Gaetano non si faceva vedere: prima del parto, passava di tanto in
tanto, la mattina prima di andare in ufficio o la sera al rientro. Ma da quando
erano tornate dall’ospedale, del commissario si erano perse le tracce. E meno
Gaetano si faceva sentire, più sua madre sembrava diventare inquieta, benché si
facesse in quattro per non darlo a vedere.
Era chiaro come il sole che in ospedale doveva essere successo qualcosa:
e quando lui si era definito un “amico adottato” le era stato evidente che sua
madre doveva aver in qualche modo ridimensionato il ruolo di Gaetano nella sua
vita. Il perché però le era sconosciuto e francamente incomprensibile: erano
mesi che non vedeva sua madre felice come nei giorni in cui si incontrava di
nascosto con il vicino di casa e poi, di punto in bianco, lui era tornato ad
essere solo un amico. Doveva essersi persa dei pezzi di quella storia per
strada. Non che avesse mai voluto indagare in proposito: all’inizio perché in
qualche modo sperava che i suoi avrebbero ricucito di nuovo lo strappo, in
seguito perché non era pronta ad essere la confidente sentimentale di sua
madre.
Ma ora era diverso: chiaramente qualcosa di grosso era
capitato e non era sicura che sua madre fosse nelle condizioni mentali per
prendere una decisione ponderata…perlomeno non mentre il suo ex marito
diventava padre per la seconda volta da un’altra donna. E c’era anche il non
tanto remoto rischio che la nuova condizione di nonna potesse averla convinta
di dover stare ancora di più accanto a sua figlia, sacrificando se stessa.
Per questo si trovava ora ad insistere come mai aveva fatto
prima e avrebbe lasciato quella stanza solo quando sua madre si fosse decisa a
sputare il proverbiale rospo.
***
Tende tirate, finestre chiuse, porte ben sigillate ovunque e
cuffie ad alto volume nelle orecchie. Voleva essere certo di non sentire nulla,
non il benché minimo rumore provenire dall’appartamento di fianco al suo. Lo infastidivano
persino i vagiti della nuova arrivata: non che ce l’avesse con lei, ma qualsiasi
cosa lo portasse a ricordare quanto accaduto in quel maledetto ospedale era
cosa assai sgradita.
A dire la verità, erano alquanto sgraditi anche tutti i
ricordi della sua vita precedente, al momento….per la precisione tutti i
ricordi relativi agli ultimi dieci anni della sua esistenza. Persino la sua
stessa immagine riflessa allo specchio gli dava la nausea: forse perché in
tutto questo tempo, tutto il lavoro che aveva fatto su di sé era stato fatto in
un certo senso per lei.
Quella stessa lei, che dopo averlo usato come e quando gli
era servito, lo aveva mollato sull’orlo del baratro. Era così che Gaetano si
sentiva: in bilico sull’abisso e con una gran voglia di buttarcisi dentro.
E dire che lui per lavoro aveva imparato a conoscere la
persone, a valutare e a giudicarle con una certa precisione sin dal primo
momento, dalla prima parola pronunciata, ma con la professoressa Baudino si era sbagliato di grosso. Anzi, aveva preso
proprio la proverbiale tranvata. Ora che a mente fredda
(beh, quasi fredda) ripensava a quegli ultimi dieci anni, doveva ammettere a se
stesso che di segnali negativi ne aveva avuti a bizzeffe: vengo da te, mi
faccio fare la dichiarazione d’amore e poi ti mollo; torno da te, ti giro
attorno come e quanto voglio per soddisfare la mia curiosità investigativa, ti
bacio e poi ti mollo; ci rivediamo, ti convinco a sposare Roberta, te la faccio
mollare all’altare e poi scappo in Spagna; ti ritrovo a Torino, ricominciamo
con i Vermouth e le indagini, ti ospito a casa mia mentre mio marito non c’è,
poi ti invito ad una festa a casa mia e mi faccio mio marito con te che mi
guardi. Per finire con il botto: vengo a letto con te, ma non siamo una coppia…forse
in futuro, chissà. E lui sempre a rincorrerla, sempre ad aspettarla, sempre ad
amarla.
Per non parlare del nuovo arrivato: Michele Carpi. Scalzato per
anni da Renzo, da Livietta, persino da Potty ed ora…da
Michele Carpi. Per lui Camilla gli aveva mentito guardandolo dritto negli
occhi, aveva rischiato la galera per lui. E non gli erano sfuggiti nemmeno i
cambiamenti di lei: più solare, più felice, più luminosa…tutto da quando era
riapparso Michele Carpi. Anche Renzo l’aveva capito.
Dio, come aveva fatto ad essere così ingenuo? Lui non era mai
stato niente per Camilla, se non la tentazione, forse la sua iniezione di
autostima, ultimamente il toy-boy, ma poi che altro? Nulla.
Era bastato il primo ostacolo e lei aveva mollato. LO aveva mollato, per la
precisione. La verità, anche se gli costava ammetterlo, era solo una: lui la
amava, lei no. Si era crogiolato per anni nella convinzione che lei lo amasse,
ma fosse troppo leale e onesta per mandare all’aria un matrimonio, per distruggere
la felicità della famiglia e tutto solo per stare con lui. In realtà, non lo
amava affatto: amava forse l’idea di essere inseguita, cercata, voluta,
desiderata…ma non certo lui.
Il vicequestore dovette ricacciare indietro a fatica il
groppo in gola che minacciava di esplodere in un pianto a dirotto, ma era
stanco di mostrarsi debole e vulnerabile: era accaduto poco tempo prima con
Torre, al quale aveva confidato con voce tremante che senza Camilla lui non
poteva stare. A ripensarci si sentiva un totale e completo idiota. Per la
rabbia scagliò un cuscino del divano contro la libreria. Quella libreria che
avevano comprato e montato insieme. Odiava quella libreria, odiava quella casa.
Odiava pure l’intero palazzo dove due anni prima l’aveva per caso rincontrata. Odiava
Torino e se avesse potuto avrebbe mollato tutto su due piedi e se ne sarebbe
andato. Anche se scappare in qualche modo l’avrebbe data vita a Camilla: come
aveva fatto con Praga lui e Barcellona lei. E poi a Torino c’era ormai la sua
vita: Tommy lì si sentiva a casa e non voleva costringerlo ad un nuovo
trasloco, anche se con lui viveva solo pochi giorni al mese. E c’era pure
Torre: lasciarlo solo a Torino dopo averlo “deportato” dalla capitale solo per
seguirlo non gli sembrava affatto corretto.
Però doveva fare qualcosa; non poteva restare lì, a due passi
da lei, vivendo come un eremita chiuso in casa per la paura di incontrarla e di
dare sfogo a tutta la sua frustrazione. Doveva dare una svolta alla sua vita,
chiudere il capitolo Baudino ed andare avanti.
Si alzò dal divano, prese il primo borsone che trovò nell’armadio
e vi infilò un paio di vestiti e la foto di lui e Tommy che teneva in salotto. Poi
si guardò attorno, prese le chiavi di casa e uscì senza voltarsi indietro.
Tutta la sua determinazione andò a scontrarsi con la vista
della porta di casa di Camilla, chiusa davanti ai suoi occhi. L’istinto di bussare
con tutta la forza che aveva in corpo, di dirle quanto la odiava per quello che
gli aveva fatto, per come lo aveva ridotto, era così forte che dovette fare uno
sforzo sovraumano per fermare la mano che combatteva per entrare in azione. Gli
bastò tornare con la mente a quell’ospedale e a quella macchinetta del caffè
per cacciare indietro il desiderio di ritrovarsela davanti: in quel momento il
pensiero del suo viso riusciva solo a farlo infuriare più di quanto credeva
umanamente possibile. Persino più di quando litigava con Eva per Tommy.
Inforcò le scale, felice che fosse il cuore della notte e che
nessuno potesse vederlo in quello stato; ma ovviamente il destino doveva
avercela con lui per una ragione che ancora non riusciva a comprendere.
-Vai da qualche parte?- domandò una voce che riconobbe subito
come quella di Renzo. L’uomo stava spingendo nel cortile il passeggino di suo
figlio nel tentativo di farlo addormentare.
Gaetano non rispose nemmeno, non ce n’era bisogno.
-Senti, se è per quello che è successo in ospedale o negli
ultimi mesi…io…- tentò di giustificarsi l’uomo evidentemente stravolto dalla
paternità, dall’essere diventato contemporaneamente nonno e persino dai mesi di
lotte senza esclusione di colpi con il poliziottosuperpiù.
-Non è per quello- fu il laconico commento del commissario.
-Quindi non stai scappando nel cuore della notte come un
ladro?
-Adesso sei tu il poliziotto?
-Per carità, me ne guardo bene. In famiglia Camilla basta e
avanza.
Fu sufficiente sentire pronunciare quel nome perché tutti i
muscoli di Gaetano si contraessero in uno spasmo involontario di dolore e
rabbia mal celati.
-E così non stai scappando- continuò Renzo avendo notato la
reazione dell’ex rivale in amore. Già, ex. Perché se quegli ultimi giorni gli
avevano insegnato una cosa era proprio quella che nella vita di Camilla non c’era
posto per Renzo, non almeno come marito. E, nonostante lo smarrimento inziale,
Renzo aveva realizzato che gli andava bene, che Camilla a modo suo lo aveva
perdonato e aveva trovato il modo di far funzionare civilmente i rapporti tra
loro come una buona famiglia allargata. Quello che invece non gli era affatto
chiaro era il comportamento che aveva tenuto nei confronti di Gaetano: lo aveva
amato per anni, desiderato con ogni fibra del suo corpo per un decennio ed ora…lo
aveva mollato. Non poteva credere si trattasse di Michele Carpi…apparteneva al
passato come e più di Renzo! Eppure se Gaetano stava ora davanti a lui in mezzo
al cortile con un borsone in mano le cose tra lui e Camilla non dovevano essere
migliorate più di tanto. E in un certo senso lo capiva pure, anzi parteggiava
per lui: dopo dieci anni di onorata fedeltà e dedizione il poliziotto si
meritava più di qualche settimana di sesso e di una pidocchiosa pausa di
riflessione annunciata davanti ad una macchinetta del caffè.
-Non sto scappando, anche se non credo che la cosa ti
dispiacerebbe- rispose Gaetano.
-Invece ti stupirà sapere che un po’ mi dispiace, sai?
-Perché non potrai più avermi sotto controllo? Tranquillo. È tutta
tua. Non voglio più averci niente a che fare- non riusciva a sentir pronunciare
quel nome, figuriamoci dirlo lui stesso ad alta voce.
-E ti arrendi quindi?
La resa non era proprio nelle corde del commissario, non lo
era mai stata, ma dovette ammettere che in quel caso non poteva fare
diversamente.
-Mettiamola in questo modo: non vedo il motivo di continuare
a lottare per qualcosa che solo io ho desiderato sin dall’inizio.
Renzo avrebbe voluto dire molte cose. Troppe. Non gli sarebbe
bastata la notte intera per confutare l’affermazione del commissario, ma lesse
negli occhi di Gaetano quella stessa disperazione che aveva visto nei suoi nel
momento in cui si era reso conto che aveva perso Camilla per sempre. Si limitò
ad annuire.
-Allora, buona fortuna, vicequestore Berardi- Renzo allungò
la mano e strinse energicamente quella di Gaetano.
-Anche a te, Renzo.
Il silenzio della notte avvolse il commissario che senza
nemmeno voltarsi a dare un’ultima occhiata alla finestra di Camilla si
allontanò stanco ed improvvisamente solo come non lo era mai stato in tutta la
sua vita.
Angolo dell’autrice:
premetto che non so come andrà a finire questa storia, nel
senso che già mentre scrivevo questo capitolo avevo delle idee che man mano si
sono modificate con lo scorrere delle dita sulla tastiera. Quello che vi deve
essere chiaro è che in questo momento non sono una fan di Camilla, perciò non
posso assicurare il lieto fine. Ho deciso che mi lascerò trasportare dalle
emozioni del momento mentre scrivo senza programmare troppo…del resto a noi le
cose vengono meglio quando non le programmiamo giusto? (cit. non del tutto
voluta). Per tale ragione ogni vostro commento sarà gradito e utile anche per
indirizzare il corso degli eventi.
A presto. L.