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Autore: Adeia Di Elferas    03/11/2015    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Rovigo si era arresa, e gli scontri tra veneziani e truppe estensi sembrava essersi momentaneamente placata.
 I messaggeri entravano e uscivano a spron battuto dalle porte di Roma, per andare a riferire ogni minima novità al papa, che, dal canto suo, mandava direttive senza posa, come fosse lui stesso il generale a capo di Venezia.
 In più le notizie da Civita non erano molto confortanti. Aveva sentito dire che suo nipote Girolamo si stava dimostrando restio a prendere parte ai consigli di guerra e che non pareva intenzionato a sottostare a nessuna regola militare.
 Forse troppo tardi, Sisto IV si stava accorgendo di aver sottovalutato il fronte meridionale e che molti tra i suoi cardinali parlottavano sempre più spesso alle sue spalle, chiedendosi con sempre minor discrezione se papa Della Rovere fosse davvero l'uomo giusto per tenere le redini di Roma in un momento tanto delicato.
 Caterina, nel frattempo, godeva della lontananza del marito come un carcerato gode dell'ora d'aria.
 Si teneva informata sugli esiti degli scontri, certo, ma lo faceva con la curiosità di un pettegolo e non con la preoccupazione di una vera Romana. Era più attenta alle notizie che le arrivavano da Imola e Forlì, le sue città. In particolare, le faceva piacere sapere che Imola era sempre tranquilla e che a Forlì, malgrado tutto, il clima era pacifico e i nuovi rivellini delle Rocca di Ravaldino erano già pressoché perfetti.
 Passava le sue giornate a ripassare le sue nozioni di alchimia, azzardandosi a preparare nuove misture e unguenti, giocava coi figli – soprattutto con Cesare e Bianca – e quando li lasciava con le balie si dedicava alla spada e all'equitazione.
 Sisto IV non amava mostrarsi interessato apertamente all'arte bellica, perciò indagò con molta discrezione presso il maestro d'armi e gli altri soldati che aiutavano Caterina nei suoi addestramenti e tutti dissero di lei le migliori cose.
 Gli dissero che cavalcava come pochi, riuscendo a restare in sella anche nelle curve prese a grande velocità. Il maestro d'armi fu particolarmente fiero nell'ammettere che la tecnica della giovane era già più che discreta, ma che, da quando l'aveva presa sotto la sua ala, era diventata eccellente.
 Tutti erano pronti a tessere le lodi della giovane donna milanese che pareva avere in sé tutte le buone qualità della sua città d'origine: amava lavorare duramente, la fatica non la spaventava e preferiva il sudore della fronte all'agio di un buon salotto.
 Inoltre Caterina, da quando era a Roma, non si era mai tirata indietro da nessuna battuta di caccia, nemmeno quando era in stato interessante, dimostrando un certo gusto per un'attività tutt'altro che sedenteria.
 Un'idea bizzarra cominciò a frullare nella mente del papa, che però non osava parlare apertamente di quell'intuizione fugace che ormai riempiva i suoi pensieri.

 “Certo, certo, la cavalleria pesante è una possibilità, ma la trovo così scontata...” sbuffò Roberto Malatesta, dandosi un colpo sulla coscia col pugno chiuso: “Questa guerra la voglio vincere, non mi basta un esito neutro!”
 Malatesta dondolava il capo di quando in quando, figurandosi una carica di cavalleria, che, in passato, gli avrebbe di certo permesso una vittoria ampia e rapida, ma che da qualche tempo pareva essere una tecnica superata. 
 Sempre meno scontri venivano vinti grazie a una carica del genere. Adesso andavano di moda altre cose, armi più sofisticate, strategie e tattiche più raffinate, più subdole. Non era più solo uno scontro di forza, ma uno scontro di sotterfugi e sorprese...
 “No, diavolo, la cavalleria non va bene per nulla...” borbottò tra sé, digrignando i denti come un cane rabbioso.
 Tutti i presenti ascoltavano in silenzio, ben sapendo che presto il comandante si sarebbe deciso per l'attacco.
 Erano a un paio di miglia di distanza dal nemico e il caldo dell'agosto li stava esasperando.
 Se era vero che combattere con la neve era una tortura, nemmeno lottare assillati dal sole e dalle zanzare era una bella cosa.
 “Quanti soldati in forze abbiamo?” chiese Malatesta, grattandosi il mento su cui cresceva una barba arruffata e scura.
 “La malaria ci ha colpiti duramente.” provò a dire uno dei suoi sottoposti, con un sospiro che non lasciava presagire nulla di buono.
 Malatesta schiacciò tre zanzare con una sola manata: “Al diavolo la malaria! Lei e il papa e tutti quelli che ci stanno facendo morire uno a uno!” sbraitò, scattando in piedi: “E quel damerino del Conte Riario che fine ha fatto?”
 Nessuno seppe rispondere, così Malatesta si impose di darsi una calmata. Se avesse vinto, Conte Riario o meno, il papa avrebbe dovuto accettare la sua bravura sul campo e forse avrebbe smesso di sottovalutarlo. Doveva essere lucido e ragionare.
 Guardò a lungo la mappa, poi, con un sorriso storto che si apriva sulle labbra dure, annunciò: “Cari miei, è venuto il momento di mettere in campo i miei balestrieri.”

 Girolamo Riario stava seduto su uno sgabello da campo, imbronciato e cupo. Si chiedeva che mai ci facesse lì. Non era di alcuna utilità e non aveva idee. Avrebbe voluto dare il suo apporto alla discussione della campagna, ma la sua mente era completamente sgombra.
 Tutto ciò che riusciva a pensare era il rifiuto di sua moglie, il modo in cui si erano congedati l'uno dall'altro.
 Se lei fosse stata lì con lui, di certo le cose sarebbero andate diversamente. Malatesta avrebbe avuto qualcuno con cui parlare delle sue assurde idee per la battaglia e Girolamo avrebbe potuto restarsene defilato senza attirare così tanto l'attenzione di tutti.
 Cosa poteva farci lui, se Dio gli aveva dato un cuore d'asino?
 Erano passati i tempi delle scorrerie e delle baldorie e ora non gli restavano che un sacco di rimorsi, di rimpianti e di paure. E chissà per quanti anni ancora avrebbe vissuto a quel modo...!
 “Mio signore...” disse Roberto Malatesta, entrando nel padiglione di Girolamo.
 Questi alzò appena lo sguardo, giungendo le mani sul petto: “Ditemi pure.” concesse.
 Roberto Malatesta strinse il morso, irritato oltre ogni dire, e disse, con voce malferma: “Abbiamo preso una decisione definitiva in merito al proseguo della battaglia. Domani sferreremo l'attacco. Vi farò sapere con più precisione a che ora cominceremo, in modo che possiate prepararvi per tempo.”
 Girolamo sentì il fiato mancargli nei polmoni. La bocca era secca e quando provò a parlare, la lingua non riusciva a scorrere.
 Gli ci volle un minuto buono prima di riuscire a gracchiare: “Benissimo. Aspetto di sapere, dunque.”
 Malatesta gli lanciò una lunghissima occhiata ricca di scetticismo e di una strana curiosità, poi si congedò con un cenno del capo e uscì dal padiglione.
 Una volta solo, Girolamo deglutì a ripetizione, il pomo d'Adamo che saliva e scendeva impazzito. Le mani gli sudavano e il cuore batteva fortissimo.
 Che mai ci avrebbe fatto lui, in mezzo a dei soldati urlanti con la spada in pugno? E se una freccia l'avesse trafitto? E se il cavallo l'avesse disarcionato? E se...
 Teneva ormai la testa tra le mani, gli occhi sbarrati e le labbra che si muovevano veloci a ripercorrere preghiere antiche come il mondo che solo un uomo in punto di morte ricorda di sapere.
 
 “Non voglio dire che questa sarà la fine del nostro santo stato, ma, perdonatemi, amici miei...!” stava dicendo Rodrigo Borja, le braccia platealmente aperte e un'espressione addolorata in volto: “Ma io dico, come ci siamo arrivati, come...!”
 I cardinali che lo stavano ascoltando sembravano rapiti dal suo eloquio e quando Caterina passò loro accanto, solo alcuni di loro la notarono.
 A Rodrigo, ovviamente, non scappava nulla, per cui non appena si accorse della presenza della donna, si voltò verso di lei, facendo sì che tutti finalmente la notassero: “Madonna Caterina...” le disse, accorato, ma con gli occhi freddi e lontani come sempre: “Ma che notizie giungono da vostro marito, il nostro carissimo Girolamo?”
 Caterina era accaldata, di ritorno da una breve cavalcata che l'aveva spinta fin quasi in aperta campagna. L'ultima cosa di cui voleva parlare, in quel momento di ritrovata libertà, era Girolamo Riario.
 Tuttavia temeva troppo le sottigliezze dello spagnolo per sottovalutare quella domanda.
 “Mio marito e Roberto Malatesta stanno tenendo ottimamente il confine.” disse, con un sorriso ampio e credibile: “E presto contano di far cadere l'attacco del Duca di Calabria, ponendo fine a questa orribile vicenda.”
 “Vostro marito guida le truppe vaticane, vero?” chiese il Borja, che ora con il suo sguardo le faceva capire che sapeva molto più di quello che avrebbe mai ammesso.
 Caterina non si lasciò intimidire: “Ovviamente. Di concerto con Malatesta, nostro abilissimo comandante. Sua Santità sa bene chi scegliere per guidare i soldati di Roma, non abbiate paura.”
 Rodrigo fece un profondo respiro e chinò appena il capo: “Le vostre parole ci rassicurano molto.”
 Al che Caterina fece una breve riverenza e ricominciò a camminare: Sisto IV l'aveva cercata e si era fatta aspettare anche troppo.
 Mentre si allontava dal capannello di porporati, la giovane udì distintamente Rodrigo Borja commentare: “Povera ragazza... Non le dicono nulla della situazione al confine perchè è troppo fragile, si preoccuparebbe troppo, troppo...”
 Caterina dovette mordersi le labbra per impedirsi di tornare indietro e sistemare Rodrigo Borja una volta per tutte.
 

   
 
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