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Autore: Adeia Di Elferas    06/11/2015    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~
 Prospero Colonna si stava massaggiando il mento, pensieroso. Il cielo coperto non lo lasciava ben sperare. Se fosse scoppiato un temporale, sarebbe stato pressoché impossibile utilizzare le bocche da fuoco e di certo la battaglia si sarebbe trasformata nella solita azzuffatina tra cavalieri.
 Il Duca di Calabria non gli parlava da giorni, da quando gli aveva impedito di stanziare i suoi soldati a Marino.
 Anche se aveva cercato di spiegare quanto fosse una scelta dettata dalla necessità e non dal proprio volere, il Duca l'aveva presa sul personale e nemmeno aveva voluto discutere nel dettaglio con lui i piani per quella giornata.
 Prospero sapeva solo che quel pomeriggio si sarebbe scatenata una grande battaglia contro l'esercito del papa, guidato da Malatesta e che al seguito di quest'ultimo, gli era stato riferito da una delle sue spie, c'era anche il nipote stesso di Sisto IV, niente meno che il castellano di Castel Sant'Angelo in persona, amico personale degli Orsini e aperto contestatore dei Colonna.
 Per quel che gli riguardava, Prospero non si sarebbe spaventato nemmeno davanti al diavolo in persona, figurarsi davanti a un misero Conte!
 Con uno sguardo perplesso ancora rivolto alle nuvole scure e minacciose, Prospero finì di legarsi i gambali e si mise in piedi, sciogliendosi un po' i muscoli, prima di andare a radunare le truppe.
 
 Roberto Malatesta stava pregando, cosa che non era avvezzo a fare. Quelle nuvole sembravano essere state mandate proprio da Dio e gli sarebbe bastato un piccolo temporale per rendere perfetta quella che era sembrata solo un'idea azzardata.
 Erano quasi le tre del pomeriggio e l'afa si faceva sentire come non mai. Le zanzare erano noiose e nell'aria si respirava un'elettricità incredibile.
 Il rumore di centinaia di uomini in armi disturbava la quiete che precedeva la tempesta, ma a Malatesta piaceva, quel fracasso composto.
 Sapeva che il Duca di Calabria, Alfonso, aveva tirato indietro i suoi uomini, lasciando in avanti quelli dei Savelli e dei Colonna. Li aveva messi in sicurezza, in seconda linea, quindi i suoi restavano in minoranza, se le spie avevano fatto buoni calcoli, però si erano ben fortificati nella rocchetta...
 Le forze erano pronte, soprattutto i balestrieri e in lontananza si potevano intravedere i primi cavalieri nemici farsi avanti, assieme alle bocche da fuoco.
 Malatesta respirò a fondo due volte, annusando come un segugio l'aria gravida di tempesta, prima di dare il segnale con la mano.
 Non appena fece segno ai suoi di cominciare con l'attacco che tanto aveva pianificato, una goccia di pioggia gli colpì l'elmo. E a quella ne seguirono molte, sempre più grandi e piene di forza.
 Mentre i suoi avanzavano, Malatesta rideva.

 “Dannazione!” esclamò Prospero Colonna, mentre i suoi fuochisti gli facevano segni con le braccia.
 La pioggia si era fatta vedere, alla fine, e più che un temporale estivo, aveva scatenato una vera e propria tempesta.
 Non si vedeva a un palmo dal naso e il terreno stava già diventando fanghiglia.
 Le bocche da fuoco erano inservibili, così bagnate e per quanto gli addetti ai cannoni provassero ad accendere la miccia, non riuscivano a far partire nemmeno un colpo.
 “Avanti! Avanti!” gridava Colonna, alzando il braccio armato di spada, guidando alla carica i suoi cavalieri.
 Come previsto, quella battaglia si sarebbe trasformata nell'ennesima carica di cavalleria dall'esito reso ancora più incerto dalla pioggia.
 Quello che Prospero proprio non si aspettava, era la pioggia di frecce che colpì la prima fila di cavalieri non appena cominciarono la carica.
 Tud.
 Una freccia gli si era piantata nello scudo, che l'uomo aveva alzato per puro caso proprio in quel momento.
 Tud. Tud.
 Altre due piantate nel mezzo dello scudo.
 I cavalli si stavano imbizzarrendo e i cavalieri cadevano nel fango, colpiti in pieno da una freccia o spesso schiacciati dalle loro stesse cavalcature, o semplicemente troppo pensanti e impastati di terra per riuscire a rialzarsi.
 La morte arrivava dall'alto, ma non seguiva la classica campana di una freccia scagliata con un arco. A Prospero bastarono cinque minuti e altri due colpi parati per capire.
 Ma chi diamine aveva avuto l'idea di usare ancora le balestre nel 1482?!
 Passato il momentaneo sconcerto, Colonna tentò di riprendere in mano la situazione, mettendosi a urlare prima ai cavalieri di provare comunque la carica, e poi di tentare di ritirarsi.
 Nessuno dei due ordini era stato seguito, perchè oltre alla pioggia, al panico causato dalle balestre e ai cavalli impazziti, c'era anche il problema della fanghiglia.
 Il terreno era semi-paludoso e quella piggia improvvisa lo stava trasformando in un enorme sabbia mobile. Le zampe dei poveri destrieri restavano imprigionate e anche le bestie più forti e veloci non riuscivano a fare altro che zampettare in tondo, nel tentativo di non affondare.
 Per quanto preso dal panico e dallo sconforto, Prospero Colonna non poté fare a meno di pensare: “Le balestre... Che colpo di genio...”

 Malatesta osservava tutto da una discreta distanza. I balestrieri continuavano a caricare e tirare senza posa e i cavalieri napoletano, là in fondo, morivano come mosche, cadendo nel fango senza più rialzarsi.
 Benché fosse zuppo come tutti gli altri, Malatesta quasi non si accorgeva di quanto fredda fosse quella pioggia d'agosto e pensava solamente alla prossima fase dell'attacco.
 Il comandante era tanto preso da quello che accadeva sul terreno paludoso davanti ai suoi occhi, da non essersi nemmeno accorto dell'assenza del suo illustre ospite: il Conte Riario.
 Quando i pochi cavalieri rimasti stavano ancora cercando di ripiegare per salvarsi dai balestrieri romani, Malatesta urlò: “Fanteria!”
 I fanti, addestratissimi e pronti all'azione, scattarono in avanti come fulmini, dirigendosi senza indugio verso la rocchetta fortificata.
 Malatesta li guardò compiaciuto e, una volta sicuro di aver neutralizzato i cavalieri, smontò da cavallo e si mise a correre per raggiungere i suoi fanti e espugnare con loro la fortezza nemica.

 Prospero Colonna inciampò e cadde in terra, riempiendosi la bocca di fango e sangue. Forse aveva perso anche un dente.
 Poco gli importava, bastava uscire vivo da quell'inferno. Con la coda dell'occhio aveva visto la fanteria pontificia correre verso la rocchetta, quindi ora erano affari del Duca di Calabria.
 Quello che aveva potuto fare, lui l'aveva fatto, ma il terreno e il clima erano stati avversi. Ora se ne sarebbe tornato a Marino in quattro e quattr'otto e avrebbe cercato di salvare almeno quella sua piccola città.

 “Avanti!” urlava Malatesta, e tutti i suoi uomini ripetevano l'incitamento a quelli che seguivano, mentre issavano le scale e uccidevano tutti quelli che si mettevano sulla loro strada.
 Stavano passando le ore, ma nessuno pareva accorgersene. Dalle tre che erano all'inizio, ora s'erano fatte almeno le sette e la pioggia aveva smesso di cadere, rendendo la palude un insieme di aquitrini e zone franche, ideali per la fanteria pontificia, più leggera di quella napoletana e molto più preparata.
 Malatesta parò un colpo, colpì col piatto della spada la schiena di un nemico e voltandosi staccò di netto il capo a un altro. Toccò poi a lui prendere un colpo, sulla gamba, che lo fece inginocchiare, ma Roberto si rimise in fretta in piedi, conficcando la punta della spada nel collo di chi aveva osato colpirlo.
 E andò avanti così ancora quasi un'ora, colpendo, parando e controllando che la situazione fosse sempre a loro favorevole.
 Erano ormai quasi le nove di sera, quando, finalmente, il terreno fu abbastanza asciutto da permettere il colpo finale.
 Come deciso il giorno addietro, la cavalleria pesante pontificia fece finalmente il suo ingresso trionfale sul campo, travolgendo quel poco che restava dell'armata napoletana e spazzando via quel che restava degli uomini del Duca di Calabria.
 Lasciando sul terreno fangoso il sangue di oltre milleduecento uomini – di cui più di mille dell'esercito napolatano – Roberto Malatesta fece molti illustri prigionieri ed entrò da vincitore nella rocchetta di Campomorto, acclamato dai suoi soldati come il più valoroso e ingegnoso dei comandanti.

 “Signor Conte...?” chiese il soldato mandato da Roberto Malatesta.
 Girolamo non si mosse. Rimase seduto in terra, dietro al tavolone delle carte geografiche, le ginocchia strette al petto e il viso pallido e sudato.
 “Signor Conte, la battaglia è vinta. Campomorto è nostro.” proseguì il soldato, che non aveva la pazienza di cercare il destinatario del messaggio.
 Sapeva che il Conte Riario era ancora nel padiglione perchè le guardie che stavano all'imboccatura della tenda avevano assicurato che dall'inizio della battaglia fino a quando il sole era tramontato, quell'uomo non aveva lasciato il suo 'nascondiglio', proprio così avevano detto.
 “Il comandante vi desidera alla rocchetta per discutere il proseguo della campagna.” concluse il soldato, raddrizzando le spalle e girando sui tacchi.
 Non appena fu certo che il messaggero fosse uscito, Girolamo si tirò in piedi, malfermo.
 Dunque avevano vinto. Malgrado il temporale che si era scatenato e malgrado le previsioni infauste che gli astrologi avevano fatto quella mattina...
 Bene, allora poteva dirsi salvo. Una battaglia c'era stata e avevano vinto. Aveva pagato il prezzo del suo nome, poteva tornare a Roma.
 Se avessero osato dire che in campo non era stato visto, avrebbe semplicemente spiegato che era stato impegnato in importanti questioni diplomatiche, dando il suo contributo allo sforzo bellico, anche senza menar fendenti in aria...
 Si rassettò un momento, asicugandosi il sudore e raddrizzando la giubba, che si era storta tutta mentre si contorceva per i dolori allo stomaco nascosto dietro al tavolone.
 Si affacciò fuori dal padiglione e chiese che gli venisse portato un cavallo.
 Una guardia sparì e tornò poco dopo, con un ronzino mezzo zoppo e un ghigno beffardo in viso: “Ecco a voi, Conte...” disse, porgendogli di malagrazia le redini.
 Girolamo era troppo grato al cielo di essere riuscito a evitare la battaglia per arrabbiarsi con quella guardia, tuttavia, non appena arrivò laddove fino a poco prima c'era stata la battaglia, non poté evitare di vedere i cadaveri in terra e di incrociare lo sguardo di biasimo dei soldati e dei cerusici che stavano cercando qualche ferito ancora in vita in mezzo ai corpi.
 Una volta alla rocca non gli sfuggirono nemmeno i commenti al veleno che gli uomini facevano indicandolo con un cenno del capo, né come, invece, Malatesta appariva nelle loro parole come un comandande intrepido e valoroso.
 Il rancore per la sua stessa codardia si stava trasformando lentamente in odio per colui che, con il suo coraggio, l'aveva resa ancora più palese.
 Così, quando si trovò di fronte a Malatesta, che era ancora in armatura e tutto sporco di sangue, invece che congratularsi, si limitò a dire, a voce bassa: “Non era poi così impossibili da battere, questi napoletani, se ci siete riuscito perfino voi...”
 Roberto Malatesta non intendeva farsi rovinare que successo da un damerino dal colorito verdastro di chi sta per dar di stomaco, così rise con forza e sghignazzò: “Esatto! Magari ce l'avreste fatta pure voi, se solo aveste avuto il fegato di provarci!”
 Girolamo deglutì con forza e esibì un sorriso incerto. 'Ridete, ridete pure – pensò – finché vi è concesso.'

   
 
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