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Autore: L0g1c1ta    13/11/2015    1 recensioni
Settembre 1939, cade la resistenza polacca. La Polonia svanisce dalla cartina geografica. La città di Varsavia viene distrutta, mattone dopo mattone dai tedeschi e dai russi.
Polonia è morto e Lituania non riesce a superare la morte dell'amico. Con la morte nel cuore, lentamente viene guidato verso la follia e gli verranno aperti gli occhi sulla sua vita.
Polonia, fantasma e defunto, accompagnato da un insolito pulcino, osserva, fra le mura della villa di Russia, il dolore di Lituania.
Entrambi ripercorrono un cammino, entrambi si rendono conto di ciò che avevano e di ciò che hanno perso, per sempre...
...
Luglio 1952, la Polonia rinasce sotto una nuova bandiera. Polonia è morto, ma viene accompagnato nel suo viaggio da Toris e da una nuova presenza. Lituania vive la sua nuova vita con freddezza, nonostante i cambiamenti avvenuti in casa di Russia. Ma ogni cosa cambia con una scoperta avvenuta in una casetta abbandonata nel bosco.
Polonia, in questo mondo cartaceo, osserva i ricordi e gli anni che lo hanno separato dalla sua patria. E si rende conto di quanti sbagli abbia commesso in vita.
Entrambi percorrono un secondo cammino. Chi in un treno per Varsavia, chi con frammenti di ricordi perduti.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Baltici, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Urlo. Corpo rotto. Dita spaccate. Gabbia umana. Anima rotta. Terrore. Libertà. Dov’è libertà? Aiuto. Paura. Aiuto. Aiuto!

“Lettonia, tienigli fermi i piedi. Estonia, veloce!”

“Subito!”

Braccia bloccate. Gambe bloccate. Braccia spaccate. Gambe spaccate. Testa spaccata. Testa rotta. Sangue rosso. Bianco. Troppa luce. Troppa paura. Cuore troppo veloce. Corpo troppo debole. Guanti troppo forti. Lui troppo debole. Paura. Paura. Paura.

Spillo sulla spalla. Spillo d’argento. Spillo freddo. Spillo velenoso. Spillo levato. Spillo andato via. Brividi. Corpo stanco. Occhi stanchi. Sciarpa troppo bianca. Profumo di girasoli. Profumo di primavera. Troppa paura. Corpo troppo pesante. Cuore quasi fermo. Testa pesante. Testa spaccata. Gambe spaccate. Schiena spaccata.

Occhi chiusi.

Troppo stanchi.

Troppo deboli.

Perché mi volete fare del male?

 

 

“Lituania, stai bene?”

“…”

“Lituania, hai fame?”

“…”

“M-Ma… E-Estonia, cos’ha?”

“Lettonia, è scioccato. Lascialo dormire”

“Ma è bianco come un cencio! Ed è anche magrissimo, deve avere fame!”

“Lettonia…”

“Estonia, aiutami! Diamoli una zuppa, del pane… Abbi cuore, Estonia!”

Sta’ zitto! Lituania sta male, stagli lontano, deve riposare”

“Estonia…”

“Lettonia, non ora”

“Ma Lituania…!”

“Lettonia, vattene!”

“C-Che hai ora…?”

“Vattene, Lettonia, vattene! Non è il momento, fallo dormire!”

Estonia… perché piangi?

 

 

“Lituania, dormi, riposati”

No, non voglio morire. Russia non vuole che io dorma più. Se lo faccio, si arrabbierà e mi farà del male.

“Lituania, chiudi gli occhi e dormi un po’”

No, non voglio. Perché volete farmi del male? Cosa vi ho fatto?

“…Lituania?”

Perché sei così sorpreso, Estonia? Mi sto ribellando, dovresti punirmi, dovresti farmi del male, come fa Russia. Russia vuole farmi del male. Perché ti avvicini con così timidezza? Perché esiti e ti guardi le dita?

“…Fratello, stai bene?”

Fratello… Io non ho fratelli, non ricordo di averne mai avuti. Cosa sono i fratelli? Cos’è fratello, Estonia?

“Russia… ti ha fatto tanto male?”

Perché mi chiedi ciò che già sai? Perché non riesci a vedere come sto male? Perché non ti importa, Estonia? Sono fasciato di bianco in tutto il corpo. Solo i cadaveri vengono avvolti con così tenacia nelle bende bianche. E pare che io non faccia eccezione.

“Lituania, mi senti?”

Come potrei sentirti? Russia ha rotto tutto di me. Non ho più una schiena, delle braccia, delle gambe, nemmeno un cuore, Estonia. Un cuore! Ha rotto anche questo, il mio cuore. Non sento più nulla, le mie orecchie sono sorde, non vogliono più sentire le mie stesse urla. Non voglio più sentire nulla. Come potrei sentirti, Estonia? Spiegamelo, te ne prego. Spiegami anche perché hai gli occhi lucidi. Non è solo per il mio corpo rotto, vero?

“Lituania… non sapevo che ti mancasse così tanto Polonia…”

Mi manca il fiato, Estonia, solo il sentirlo pronunciare. Russia mi ha detto cose orribili su di lui, parlava di come l’aveva ucciso. Mentre mi sbatteva come una bambola di pezza, mi raccontava come l’aveva sparato, come ha maltrattato il suo corpo e come l’ha gettato via, chissà dove. L’unico beneficio che mi ha dato è il non sapere dove sia Polska. Raccontava queste cose con così tanta foga e passione che desideravo morire e gli chiedevo di farlo. Piangevo, Russia rideva, io mi disperavo. Faceva male, Estonia. Ero entrato all’Inferno e solo ora ne sono uscito. Non parlarne più, ti prego.

“Non pensavo che… che… che fosse così importante”

Balbetti e ti manca il fiato. Così mi deludi molto, Estonia. Significa che non mi conosci e mai mi hai conosciuto. Fa male capire questo, che non mi hai mai conosciuto. Polonia era l’unico amico che io abbia mai avuto. Non Lettonia, né tu, Estonia, nemmeno quel pazzo di Russia, ma lui, Estonia, lui. Polonia era la mia ancora di salvezza da questa casa e, ora che Russia lo ha sradicato dal fondale marino, sto andando alla deriva e morendo in mezzo alla tempesta.

“Io… io non lo sapevo, Lituania”

Cosa? Che il sangue del tuo sangue sia totalmente diverso da come lo hai mai visto fino ad ora? Io non so soltanto sorridere. Non sono un angelo, Estonia. Russia non sa che io non sono un angelo.

“Pensavo che fosse una cosa da poco, come tutto di Polonia. Io… è difficile da dirlo. Litania… Lituania… perdonami. Non l’ho fatto di proposito… Non volevo farti del male… Io ti voglio bene…

Tremi e piangi, ora queste sono lacrime vere. Non ho il coraggio di mentirti, Estonia. Non posso ripetere le tue stesse parole. Sono ancora deluso, Estonia, e non sarà questo a farmi cambiare idea su di te e su Lettonia. Ho sperato tantissimo che, forse, anche se cresciuti separatamente, potessimo volerci bene, essere una famiglia, dei fratelli. Mi sono sbagliato. Siamo troppo diversi, Estonia. Tu sei egoista, io sono troppo buono, così tanto da continuare a piangere per Polonia, anche dopo quasi un anno dalla sua morte. È orribile, Estonia, chiedimi come potrei fare a volerti bene.

“Lituania… Mi senti? Lituania… non voglio arrabbiarmi più…”

Non hai mai fatto altro che questo, Estonia. Non riuscivi mai ad essere felice, qui, in questa casa. Ti arrabbiavi e maledivi le finestre e le sedie solo per trovarti lì, solo, come tutti noi. Ti ho voluto bene dalla prima volta che ti ho visto entrare in questa gabbia. Eri così diverso da me ed io ero così eccitato di avere un fratello… Ti volevo così bene che provavo a farti sorridere. Ci riuscivo, ma tu eri e sei egoista. Prendevi e non donavi. Così rubavi anche a me la felicità e non lasciavi nulla a me, il vero proprietario. Sei un ladro e un traditore, Estonia.

È inutile che piangi e ti vergogni: so che mi odi, so che mi vorresti morto, so che un giorno i tuoi desideri saranno realizzati. So che sei falso, come lo sei stato fino ad oggi. So che Russia sta ascoltando dietro la porta. Lo so, Estonia, lo so. Quindi, ti prego, vattene via, voglio pensare a qualsiasi cosa tranne che a te o a Lettonia o al mostro di cui vedo gli occhi dallo spioncino aperto.

Ti prego, Russia, va’ via. Ho troppa paura. Non sto dormendo, vedi? Ti prego, non guardarmi più. Mi fanno paura i tuoi occhi. Ti prego, Russia, porta via Estonia e lasciami solo.

Ti prego, Russia, ti prego…

 

 

 

 

 

La mente di Lituania è a pezzi, come il suo corpo, di cui ci volle almeno una settimana per guarire, superficialmente.

La gabbia in cui è ritornato è cambiata. Da dorata, è divenuta grigiastra e sporca. Morta e paziente, pazientosa di vederlo cedere. Lo hanno gettato nella stessa cella, eppure, nota, è tutto diverso. Ha degli avversari, ci sono serpenti in questa gabbia. Serpeggiano vicino alla sua pelle sensibile, le loro scaglie lo graffiano in una pessima carezza. Hanno occhi di fuoco, chiedono maligni di cadere nell’oblio. Lituania è un guerriero disarmato gettato in un’arena buia.

È sempre allerta. Cerca di aggrapparsi alle sbarre più alte della gabbia, per non farsi toccare dai serpenti, per non farsi mordere. Il loro veleno è mortale, non vuole morire. Ma non sempre riesce a tenersi alle sbarre. Quando si ha molta stanchezza, è impossibile concentrarsi. Lituania, soprattutto in questi giorni, perde spesso la presa dalle travi e cade giù, tra i serpenti. Questi lo fissano, si avvicinano, lui tenta di scappare, spesso ci riesce e riprende la presa alle sbarre. Rimane lassù, in alto, a guardare i suoi nuovi compagni di cella.

Nonostante sia passato solo un giorno dalla fine del suo ricovero, ha deciso di lavorare. Più tempo rimaneva in quel letto, meno possibilità aveva di rimanere sveglio. Gli tremano le mani, ha i nervi a fior di pelle, ma, almeno, è sveglio e all’erta. Non ha dormito nemmeno un minuto, ma va bene, può resistere. Ora spazza le lunghe scale di casa, rigido, con la schiena dura e appena ricucita. Non ricordava che fosse così pesante e dura. È compatta come del cuoio, un macigno sulle spalle, le sue ali strappate e mai più ricucite. Gli fa ancora male, la schiena. Forse Estonia non è riuscito a togliere tutti gli aghi e i pezzi di vetro, dopotutto.

Le gambe e le braccia sono guarite in fretta. Come l’aveva ridotto Russia, se fosse stato umano, se sopravvissuto, sarebbe ritornato a camminare solo dopo minimo tre mesi. Se si è una Nazione, anche in tre giorni. La pancia, anch’essa ricucita, è intatta. Non sente più nulla. Almeno di questo è felice. Gli organi sono ritornati intatti come un tempo, per fortuna è riuscito a mettere qualcosa sotto i denti questa mattina.

Ma la schiena lo abbatte molto. Quel nuovo carico che deve portare gli fa male. È troppo pesante e lui troppo fragile per portare quel nuovo macigno. Non riesce a muoversi bene, senza sentire il peso muoversi sulle spalle e lungo la spina dorsale. Spazza ancora, cercando di concentrarsi sulla polvere che sta spostando con la scopa. Riesce a convincere le braccia a muoversi ancora, troppo provate per il sonno.

Alza le orecchie di scatto, avendo sentito qualcosa, forse una porta sbattuta. Il silenzio che ne segue è assillante, la stanza claustrofobica. Si chiude su sé stessa. Il cuore gira e rigira nel suo petto. Non ha idea dove o quale porta abbia sbattuto, era poco concentrato. Non dovrebbe deconcentrarsi, non va bene. Riflette, forse viene da sopra. Si, forse viene da sopra, per questo ha rimbalzato tanto sulle pareti, il suono!

Poggia la scopa, con una lentezza nervosa. Gli tremano le gambe, mentre si poggia al muro per lanciare una veloce occhiata oltre il corridoio. Non vuole farsi né vedere, né sentire. La mano trema convulsamente mentre si poggia sulla parete, la schiena è un blocco di cemento. Guarda, terrorizzato. Il cuore in gola, lo stomaco che protesta. Sente i denti battere tra loro, impazienti e paurosi.

Non c’è nessuno. La porta è ancora chiusa ed è impossibile che qualcuno sia entrato da lì. Il cuore ancora si getta sulle pareti della gabbia toracica, lo stomaco ferma le sue proteste di terrore, i denti si fissano tra di loro, trovata la tranquillità. Continua a fissare quel punto, cercando di convincere le iridi a calmarsi e a non ballare all’interno dell’occhio. Ha raggiunto la calma, non c’è nessuno. Un lungo, straziante, nervoso sospiro esce fuori dalle sue labbra. Non c’è nessuno. Non c’è nessuno… Si stacca lentamente dalla parete, ancora cauto.

“Lituania, buongiorno!” il cuore si ferma per un istante, preso alla sprovvista. Ritorna a sbattere subito dopo, più forte, più aggressivo, più terrorizzato. Sente lo stomaco ritornare a contorcersi, il cervello diventare una poltiglia per la paura. Si volta, è Russia, sorridente e raggiante. Lituania non capisce quest’allegria. La trova orribile. I suoi occhi sono sbarrati, puntati sul suo possibile nemico. Il sorriso di Russia gli muore sotto la sciarpa.

“Lituania…” Russia fa un passo in avanti, la schiena di Lituania scappa dal muro. Avere di nuovo il controllo della situazione, senza essere in trappola, senza la schiena dietro ad un muro, lo tranquillizza. Poco, ma lo tranquillizza. I denti sbattono tra di loro, ritornati a farsi guerra, una battaglia a chi ha più terrore. Russia sembra triste e perplesso. Gli occhi, violacei e caldi, guardano il corpicino tremante del ragazzo. Gli occhi azzurri scavati nel nero lo preoccupano.

“…c’è qualcosa che non va?” inclina la testa, sa la risposta, ma vuole sentirla con le sue orecchie. I denti di Lituania smettono di battere fra di loro e rimangono così, bloccati, senza alcun desiderio di aprirsi. Russia fa un altro passo in avanti, calmo e leggero. Lituania due all’indietro, scattanti e desiderosi di fuggire. Russia sbatte le palpebre, angosciato e fa altri passi in avanti. Lituania tiene la testa bassa, ma gli occhi alti e fermi, e imita Russia, ma facendo dei passi all’indietro.

Questo, subito, diventa una lenta fuga. Russia non vuole che scappi, vuole solo parlargli, non fa niente se Lituania parlerà male di lui. Non fa niente, non vuole arrabbiarsi e non vuole fargli del male. Vuole solo avvicinarsi un po’ a lui, guardarlo negli occhi, vedere come sta. Non ha mai potuto chiedergli se sta bene. Lituania non vuole vedere Russia. Ha paura di lui, gli ricorda i colpi, le mazzate, il sangue sulle pareti e sul pavimento, le urla e il freddo. Ha paura di tutte queste cose e non vuole Russia. Ho paura, supplicano i suoi occhi. Russia legge il messaggio e vorrebbe modificarlo in qualche modo. Vorrebbe che Lituania non lo veda come l’ha visto in quei giorni, chiuso nella sua vecchia casa d’infanzia.

“No, no… Lituania, aspetta!” non lo ascolta, anzi, più parla, più si muove, più Lituania arretra e scappa. Russia non demorde e continua a stargli dietro. Protende anche una mano in avanti, cercando di fermare il ragazzo. Cambiano i movimenti di Lituania, diventati molto più veloci e supplichevoli. La schiena e il collo si piegano per non farsi prendere.

Russia si rende conto di due cose. La prima è che non si trova di fronte a Lituania, ma ad un cardellino terrorizzato di fronte ad un falco, suo predatore. Per questo Lituania è terrorizzato. La seconda, la più terribile in quel momento, è che Lituania non si sta accorgendo di star quasi sulla cima delle scale. Il ragazzo arretra di un altro passo, toccando l’ultimo gradino. Russia ha un moto di panico in petto.

“Lituania, fermati!” getta entrambe le mani, cercando di afferrarlo in tempo. Quel movimento improvviso fa scattare gli occhi a Lituania che, invece di fermarsi, fa un brusco balzo all’indietro. Perde l’equilibrio del tallone e la schiena si frantuma sullo spigolo di uno scalino. Colpito quel punto in mezzo al corpo, il moro sente una scarica di dolore, talmente forte da fargli uscire delle lacrime, velocemente. Russia ha gli occhi sbarrati mentre vede il corpicino magro e ossuto di Lituania ruzzolare giù per le alte scale, senza fermarsi, se non fino alla fine dei gradini.

Un gemito di orrore esce fuori dalla bocca del generale, che fa sobbalzare l’intero suo corpo. Corre subito e lo raggiunge. Il corpo del ragazzo si è fermato a pancia in giù, le braccia e le gambe scomposte, la testa girata dal lato inverso al suo. La sua mole da gigante rimbalza su ogni gradino, schiacciandolo e dandosi balzi per essere più veloce.

“Lituania!” esclama, prima ancora di raggiungerlo “Piccolo, stai bene?” si getta vicino a lui e, nel modo più dolcemente possibile, fa sdraiare la sua schiena sulle sue gambe. Lituania ha gli occhi già aperti e tentennanti. Le palpebre si chiudono di scatto non appena vedono Russia. Geme di dolore e di paura. Le lacrime gli pizzicano gli occhi. Anche loro lo odiano. Russia, allarmato, fa passare il pollice e l’indice sulla sua guancia, insolitamente più rossa del resto del volto.

“Piccolo, ti sei fatto molto male?” Lituania continua a gemere: la schiena fa malissimo.

“S-Schiena…” mormora fra i singhiozzi e le prime lacrime.

Schiena, piccolo?” mormora con lui, cercando di capirlo e con una vena di panico ingrossata sulla gola. Comincia a pulsare, quella vena, blu come l’inverno che ha in corpo.

“Rotta… tutto rotto…” piange Lituania, con la schiena spezzata.

Prima era un blocco di cemento, la sua schiena. Era pesante e dura, intoccabile e sensibile. Quando ha toccato il gradino, quel macigno sulle spalle si è spaccato in mille pezzi. Come se fosse stato fatto di vetro: era infrangibile, indistruttibile, fino a quando non venne toccato là, nel mezzo, e fratturato. Lituania sente qualcosa affondare ancor di più nella carne. Forse Estonia non è riuscito a togliere tutti quei pezzi di vetro, per davvero. Di sicuro qualcuno di quei piccoli demonietti ha trivellato all’interno della carne.

Continua a piangere, sentendo i vari frammenti della sua schiena provare a ritornare al loro stato originario, senza riuscirci. Sono ancora spaccati e non riesce a ricucirli come prima. Si sente fragile ed inutile, in quel preciso istante. Vorrebbe sparire e non essere ricordato da nessuno. Si vergogna di farsi vedere così spezzato di fronte al suo predatore. Ora è caduto giù, nell’oblio, lì c’è un serpente, molto più grande degli altri. Lo guarda, affamato, e lo vuole mordere.

Russia, compreso ogni cosa, cerca di essere di nuovo buono. Sposta il corpo di Lituania in modo da non toccare la schiena, né le spalle. Lo avvolge con le sue braccia, la sua sciarpa sfiora le guance umide del ragazzo. Lo culla, come veniva cullato da bambino dalla sua sorella maggiore. Si toglie i guanti, gli poggia nelle tasche, e con le dita carezza le guance incendiate di Lituania. Attraverso quel poco di carne che possiede il ragazzo, sente il suo cuoricino. Batte molto forte, piccolo e spaventato. Vorrebbe stringerlo talmente tanto forte da non farlo più battere, il cuore, per farlo tornare calmo come prima.

“Non piangere, piccolo…” ma il lituano non riesce proprio a smettere. Non sente le carezze di Russia, nemmeno sa di essere cullato, sa solo che Russia è vicino a lui. Troppo vicino. Sa anche che ha paura e non riesce a fermare il suo cuore terrorizzato. Vorrebbe dire a Russia che non dormirà mai più, così non si arrabbierà, né gli farà del male. Sente dei passetti decisi entrare nella stanza. Il pianto si ferma subito. Lituania si trova in trappola. È caduto troppo in basso nella gabbia e ora non riesce più a ritornare su. Ci sono troppi serpenti ed è troppo buio. Russia alza lo sguardo.

“Fratello… cosa sta succedendo?” chiede Bielorussia, confusa e perplessa. Non sa che pensare, quindi, semplicemente, non pensa a niente. Guarda soltanto suo fratello mentre abbraccia il suo servitore, nulla di più. Nota, però, che sulla schiena del ragazzo si sta formando una grossa macchia rossa. Nota anche che il volto del moro è rosso e rigato di lacrime. Un falso indizio striscia sulla sua pelle. Trattiene il respiro nell’aspettare la risposta.

“Niente, Natalya, è caduto dalle scale e si è fatto male” risponde Russia, cercando di tirare su un sorriso. Bielorussia si meraviglia di sentire il suo secondo nome. I tre fratelli vivevano nella povertà e nella miseria. C’era un periodo in cui non sapevano nemmeno di essere Nazioni. Credevano di essere umani, per questo si erano dati dei nomi, prima di scoprire la loro reale ragione di vita. Era un piccolo segreto, per loro tre. Ma Ivan non aveva mai pronunciato il suo nome in presenza di qualcun altro che non fosse Katja.

Bielorussia si avvicina, più tentennante che preoccupata per Lituania. Russia deglutisce nel vedere lo stato dei capelli del ragazzo che ha fra le braccia. Ricorda, oltre al cibo, al suo prigioniero era negata anche l’acqua. Dopo le cure, i due Baltici hanno cercato di pulirlo con dei panni, ma, ovviamente, non fu sufficiente. Infatti, i capelli di Lituania sono, oltre che sporchi, anche macchiati. Vede chiaramente delle gocce secche di sangue impigliate nelle ciocche, isolando e scoprendo la pelle della cute. Deglutisce ancora, Russia. Deve per forza far passare un braccio sotto la schiena di Lituania per farlo alzare da terra insieme a lui. Ci riesce, con molta fatica per il suo cuore. Il ragazzo protesta con dei gemiti, sente un dolore sordo nel punto in cui Russia ha portato la mano. Bielorussia osserva quella macchia crescere a vista d’occhio. Un brivido la percorre, ma non lo fa notare. La confusione la rende molto debole.

“Natalya, aiutami, per favore. Dove sono le medicine?” la sorella, ancora perplessa e con un brivido di disgusto lungo la spina dorsale, esita, ma per poco.

“Nel bagno qui accanto, vieni” detto questo, prende i lembi della gonna, li solleva e corre. Non vuole far domande ora, non è il momento, l’ha capito dagli occhi di suo fratello. Russia la segue, cercando di non muovere troppo Lituania. Entrano, vengono investiti dalla luce dorata e bianca, ma non è il momento. Bielorussia afferra velocemente un grande asciugamano e lo fa stendere per terra. Russia comprende e poggia Lituania, cercando di essere il più cauto possibile. Lo stomaco di Russia si stringe su sé stesso nel notare che il corpo del ragazzo è molliccio come un lombrico. Lo sdraia a pancia in giù, mentre il ragazzo geme di dolore. Bielorussia, nel frattempo, è salita su uno sgabello e ha trovato una scatola di legno con addossata una croce rossa. Aperta, si rileva piena di boccette e bendaggi.

“Schiena… schiena…” mormora lento Lituania. I due fratelli lo ascoltano, ma solo Russia gli presta attenzione. Bielorussia è troppo impegnata a togliere il grembiule verde e la giacca gialla. Ripulisce le spalle scoperte dal sangue. Lituania lancia un gemito acuto. Bielorussia, nel contempo, ha un sobbalzo e si morde il labbro. Ha tolto il sangue, ma nota un particolare che le fa drizzare i capelli. Il corpo di Lituania, in quei giorni, è dimagrito molto, troppo. Tanto da poter scorgere le ossa una ad una. La spina dorsale è il problema: verso il mezzo è spezzata rudemente, tranciata in due e il corpo del ragazzo, ovviamente, segue quelle due parti spaccate. Le due vertebre scollegate si vedono sporgere fuori dalla schiena, come nel tentativo di strapparla ed uscire fuori. Sembra un verme tagliato in due che un bambino tenta disperatamente di ricollegare le due parti separate. Entrambi i fratelli, realizzato ciò, hanno lo stesso brivido lungo la spina dorsale. Russia, per l’ennesima volta, deglutisce.

“Natalya, non credo che servano le medicine” la sorella aspetta ordini, con la fronte colante. Ha caldo, lì dentro, si sente in trappola e sporca “Vai vicino al ragazzo, alla sua testa. Prendigli le mani, non stringere troppo forte” lei ubbidisce. Si ritrova seduta sulle ginocchia, di fronte alla testa bruna di Lituania, con le mani di porcellana strette alle sue tremanti e tagliuzzate. Russia si sposta più vicino alla schiena del ragazzo.

“Lituania, ascolta: io e Biela siamo qui per aiutarti” Lituania geme, non ritenendo vere le sue parole “Ora ti farò del male, ma durerà poco, te lo prometto” cerca di essere convincente, ma ha troppa paura e ha troppa saliva nella bocca per fare il tutto per bene. Infatti, deglutisce ancora. Lituania ha il cuore fermo nella testa, pulsa di scappare, ma non ci riuscirebbe nemmeno con tutta la sua volontà. Ha paura.

“Se senti troppo dolore, stringi forte le mani di Biela e urla quanto vuoi, non ti vergognare” si tira le maniche della giubba e, con molta esitazione, procede. Le mani ghiacciate di Russia penetrano nella poca carne che gli è rimasta e raggiungono la spina dorsale spezzata, cercando di rimetterla in sesto con la forza. Gli occhi di Lituania lacrimano per il dolore, le mani tremano e stringono forte le piccole di Bielorussia. Non vorrebbe urlare, un cavaliere non urla di fronte ad una donna. Né piange di fronte ad una dama, per questo nasconde il volto nell’asciugamano sotto di sé, vergognandosi nel profondo.

Russia collega le due parti con uno schiocco forte. Lituania non resiste. Col cuore nelle orecchie, urla, sull’asciugamano. Esce saliva dalla bocca spalancata, i denti fuori dalle labbra. Le guance, da rosse, diventano bianche, quasi cineree. Grida il suo dolore e prende vita dalla sua bocca. Il bruciore continua anche dopo il ricongiungimento della spina dorsale. Si vergogna, con tutto sé stesso. Si odia, ha toccato il fondo. Continua a lamentarsi, col cuore rotto, più della schiena.

“Ivan, si sta solidificando l’osso” fa notare Bielorussia, allungando il collo. Getta gli occhi in basso anche Russia. È vero: dopo aver collegato le due parti, ora l’osso si sta ricucendo alla sua gemella. Pare completamente risanato. Russia lascia il nodo che ha alla gola e sospira sollevato. Si guarda le mani completamente intrise nel sangue di Lituania. Per qualche ragione maledetta, lo stomaco continua ad attorcigliarsi su sé stesso. Lituania smette di gemere e passa alle lacrime, tirando spesso su il naso.

“Vuoi…” perde le parole Bielorussia “Cosa vorrai farne, ora?” dice, riferendosi a Lituania. Il ragazzo contrae il corpo e trattiene il respiro. È ritornato il terrore. Russia nota tutte queste cose e sospira. Gli dispiace solo che Natalya sia sempre molto brusca con le parole.

“Ora… ora pulisco un po’. Grazie, sorellina” le rivolge un sorriso stanco. Anche la più piccola si sente esausta, nonostante tutto. Si alza, dà un veloce bacio alla guancia del fratello e si avvia all’uscio. Ma si ferma, all’ultimo.

“Però, più tardi, voglio sapere cosa gli è successo” afferma, come se fosse una minaccia, prima di sparire e sbattere la porta dietro di sé. Russia sorride. La sorellina non intendeva lo stato del ragazzo, intendeva altro che solo il maggiore ha compreso. Alzato, nota che la pelle della schiena, senza carne, si sta risanando velocemente. Russia osserva questo processo fino a vederlo compiersi completamente. Ma le cicatrici, nere, ritornano al loro stato originale. Le sopracciglia di Russia si abbassano.

“Piccolo, ora ci laviamo un po’, sei troppo sporco” Lituania non risponde, ritornando a tremare convulsamente. Russia vorrebbe che non tremasse più. Si sente male solo per questo. Si sciacqua nel lavello le mani e si toglie la giubba. Si tira le maniche della divisa e passa a Lituania. Riesce a sfilargli le scarpe e i pantaloni grigi, fino a spogliarlo completamente.

Lituania si vergogna, si copre il volto con le mani, sia per il disagio, sia per la sensazione terribile di smarrimento e paura che sente dentro di sé. Russia lo poggia nella vasca. Immediatamente il ragazzo si chiude in un bozzolo, facendo scoprire la pelle risanata e coprendo ancora il volto. Russia, seduto sul bordo, apre l’acqua e ne esce tiepida, quasi calda. Il gigante sospira per il vapore che ne esce fuori.

“A me piace molto calda. Tu quale preferisci?” nessuna risposta. Lituania non riesce nemmeno ad aprir bocca, serrata di nuovo. Si vergogna si sé stesso, anche per la sua incapacità di parlare in questo momento. Il senso di inutilità e smarrimento cresce ancor di più. Russia non dà molta importanza al silenzio del ragazzo. In un certo senso, capisce come si sente.

“Non fa niente, allora faccio io!” esclama, allegro. Quell’allegria fa tremare ancor di più il lituano. Russia, quando gli faceva del male, era sempre allegro. Per questo trema ancor di più. Sente i colpi, il ferro sulla pancia, il sangue sulla sua bocca. Trema più forte. La bocca si prosciuga come un deserto.

La vasca è per metà piena, con acqua calda. Russia allunga una mano verso il secondo bordo e afferra un barattolo con del sapone all’interno. Prende la spugna, ci immerge il sapone dentro. Si sposta dal bordo della vasca vicino alla schiena di Lituania. Bagna un po’ la spugna di acqua e la fa passare con cautela sulla schiena rossa.

Quella mano gentile lascia Lituania col cuore nella gola. Russia era sempre gentile, quando gli faceva del male. Ha paura, gli batte forte il cuore. È un animaletto in trappola e ferito. Le sue mani si staccano dal volto e si gettano sul suo cuore. Vorrebbe che non battesse più così tanto. Sotto di sé, vede l’acqua diventare leggermente rossastra. Deglutisce, anche lo stomaco gli fa male: stringe troppo forte. Russia, tolto tutto il sangue, esita un attimo. Passa una mano sulla schiena di Lituania, senza la spugna. È una semplice carezza, un segno di affetto. Russia vorrebbe che lo capisse.

Il tremolio di Lituania smette un attimo, per poi ritornare con più convulsioni. Russia guarda la schiena di Lituania come se fosse la prima volta che la vede. Ha aperto così tante volte quelle cicatrici e quei tagli che, da rossi, sono diventati neri e scuri, violacei e brutti. Sembrano delle vesciche o dei lividi sporgenti. Russia passa una mano anche lì, sui tagli. Lituania, al contatto immediato, sobbalza, trattenendo un gemito. Russia ritira immediatamente la mano. Non si è mai sentito così triste e deluso di sé stesso. Ti ho fatto così male, Lituania?

C’è dell’esitazione nei movimenti di Russia, rimane fermo a contemplare con sguardo cupo le cicatrici del ragazzo. Non riesce a pensare bene. Si vergogna di sé stesso, moltissimo. Non ci aveva mai riflettuto prima d’ora, quanto potesse essere pressante con i suoi giochi. La realtà gettata in faccia, fredda e pungente, fa male e lo uccide. Lituania sente il corpo freddo di Russia fermo alle sue spalle. Si arriccia più in profondità verso la sua pancia, le mani si spostano sulla testa. Tremano anch’elle. Aspetta un colpo, una frustata, lì sulla schiena o in testa. Russia nota e comprende ogni cosa. Assottiglia le palpebre, le pupille violacee fremono e non stanno ferme.

“Non ti farò del male, piccolo…” dolcemente poggia le sue mani ferme su quelle piccole e tremanti. Sono scheggiate, le mani. Alcune non hanno le unghie e Russia sa il perché. Il tremito si ferma a quel contatto. I tremolii si spostano, invece, sulle ginocchia e sulle gambe. Le dita di Russia sono gentili. Passano sul dorso delle mani, sulle nocche e sulle falangi. Tante volte carezza le mani del ragazzo, un inutile tentativo di convincersi di poter cancellare i tagli che gli ha lasciato. Gli occhi violacei sono umidi.

Russia passa ai capelli. Li bagna con l’acqua e la schiuma, e massaggia. Non usa troppa forza, è calmo e cortese, non vuole far del male a Lituania. Eppure, il moro non lo capisce. Torna triste per questa rivelazione. Vede il ragazzo nascondere la testa fra le ginocchia, un’infantile tentativo di cancellare ciò che sta accadendo intorno a lui. Si sente infelice. Sciacqua i capelli bruni del ragazzo. Ora sanno di miele e menta. Gli piace quel profumo. Forse i girasoli europei hanno questo profumo, pensa. Lituania non si accorge di nulla.

“Bene, ora sei pulito. Non senti come sei profumato?” Lituania non riesce assolutamente ad aprire bocca. Con gran parte della sua volontà, annuisce freneticamente, mentendo. Non sente alcun profumo. Sente odore di ferro, molto forte. Quell’odore puzza. Ha solo l’udito, e l’udito sente solo il cuore sbattere contro le costole in un patetico tentativo di fuggire.

Russia tira il tappo, credendo in un miglioramento nel ragazzo. Guardandolo si rende conto di aver capito male e il sorriso gli muore. Mentre l’acqua scorre via, prende un grosso asciugamano e lo poggia dolcemente su Lituania. Gli carezza i capelli umidi. A quel contatto, Lituania trema con più forza. Vorrebbe che togliesse le mani da lui, che non lo toccasse più. Russia avverte il messaggio e smette. Il suo secondo sorriso muore, schiacciato dalla sciarpa e dallo sconforto. Vuole bene a Lituania, vorrebbe che anche lui lo capisse. Forse non è ancora il tempo per dirglielo, di sicuro non lo capirebbe. Ma nessuno ha mai capito Russia.

“I vestiti li porto a lavare. Vai in camera e dormi, piccolo. Riposati, non affaticarti” gli lascia un’altra carezza alla testa, prima di afferrare la giubba. È tentato di lasciargli un bacio, come fa con la sua sorellina. Non è ancora il momento, pensa, e ha ragione. Esce fuori, all’aria fredda e libera. Per una volta ama quel freddo che gli pizzica le guance.

Lituania, con ancora gli occhi fuori dalle orbite, nascosti tra le ginocchia, ricomincia a tremare. Dormire… dormire non va bene. Se dorme, allora, Russia si arrabbia e gli fa del male. Quel che ha detto Russia è sbagliato.

Per questo scuote la testa e ricomincia a piangere, capendo che il gigante bianco vuole per davvero la sua morte.

 

 

 

 

 

La sera va nella loro camera, per dormire. Non è andato a cenare, ma la pancia non protesta.

Entrato, trova subito Estonia che aiuta Lettonia ad indossare la parte superiore del pigiama, incastrata nei suoi ricci. Lettonia si volta, lo guarda preoccupato, ma non apre bocca. Estonia nemmeno lo guarda in faccia, lo guarda dallo specchio. Sembrano notare qualcosa che Lituania non riesce a vede. Hanno saputo di quel che è successo quella mattina. In qualche modo l’hanno saputo. C’è un attimo di silenzio fra di loro. Lituania rompe quell’aria morta avvicinandosi al cassetto che condividono. Mentre afferra il suo pigiama, sente silenzio alle sue spalle, dai più piccoli. Estonia sbuffa e ritorna ad aiutare Lettonia. La rabbia la sfoga sul fratellino, ma il piccolo non dice nulla.

Lituania inizia a spogliarsi, con le spalle ancora rivolte ai due Baltici. È più difficile di quel che credeva: la schiena fa comunque male. Sente le spalle sul punto di crollare, come una vecchia asse di legno. Riesce a togliersi i pantaloni, si cambia la parte di sotto. Da sopra è tutto molto più complicato. E’ come giocare a scacchi: deve tener conto di ogni mossa. Lo rende triste questa cosa. Si toglie, con una lentezza disarmante e dolorosa, la felpa. Estonia ringrazia Dio per non essersi tolto anche la canottiera: sarebbe esploso se avesse di nuovo visto quei tagli. Ho fatto del mio meglio, si discolpa dentro di sé. Lettonia rimane in silenzio, triste.

Estonia si getta nel letto, con un’insolita fretta nel togliersi gli occhiali e nel mettersi sotto le coperte. Volta la fronte verso il comodino, chiude gli occhi. Non vuole pensare ad altro. Lettonia gattona sul letto e si sdraia sotto le coperte, al centro. Getta un occhio su Estonia, ma lui non avverte il messaggio. Strizza le palpebre, assonnate ed infelici.

Lituania spegne le candele, la stanza precipita nel buio. Lettonia lo osserva. Osserva la sua camminata rigida, la sua testa perennemente piegata all’ingiù, i suoi movimenti lenti e nervosi. Sembra che abbia paura anche di noi, pensa Lettonia, ancora più triste. Il ragazzino si avvicina un po’ di più al fratello più grande, quando si sdraia pian piano sulla schiena. Vorrebbe tenergli la mano, il piccolo Lettonia.

Lituania sospira di fastidio e dolore e ritorna col busto all’insù. La schiena si rifiuta di stendersi. Sente un forte dolore lì, nel mezzo. Sente le vertebre della spina dorsale irrigidirsi e la carne attorno ad essa fiammante dal male. Decide di poggiarsi sulla pancia. Lettonia continua ad osservarlo, con la pietà che bolle ed esce fuori dai suoi occhi. Lituania lo fa soffrire soltanto a guardarlo. La pancia del maggiore si ribella a quella posizione: gli organi vengono schiacciati e compressi. Fa male anche questo. Ingoia il dolore e deglutisce. Per molto tempo rimane fermo, con gli occhi chiusi. Lettonia, credendo che il fratello si sia addormentato, chiude gli occhi anche lui e sprofonda, finalmente, in un sogno tranquillo.

Lituania, dopo poco meno di dieci minuti, pensa che non riesce a sopportare la sensazione di dormire a pancia in giù, sullo stomaco e i polmoni. Si gira e rigira, ma non trova una giusta posizione. Russia ha colpito tutto il suo corpo e ora questo protesta per il dolore. Lituania non può che dargli ragione. Si gira sulla spalla. Russia ha preso un pezzo di vetro e glielo conficca nella spalla. Si gira sul fianco. Russia, con gli scarponi, lo pesta. Ritorna a pancia in giù. Il gigante gli sorride, cattivo, prende il rubinetto e lo percuote.

“Lituania, sta’ fermo e dormi!” esclama sottovoce Estonia, innervosito fino ad ogni cellula del suo corpo. Lettonia continua a dormire, quasi contento di una notte senza incubi. Lituania sobbalza e sta fermo, immobile. Conta i secondi, al buio, nel silenzio più tragico, finché sente il respiro regolare di Estonia poco più in là. Si è addormentato anche lui. Lituania si rende conto di non riuscirci e rimane semplicemente fermo, ad ascoltare il martellare del suo cuore.

Gli viene un dubbio. C’è troppo silenzio nella loro camera. Lituania lo ascolta, incredibilmente attratto da esso. Ascolta il nulla così attentamente che nelle sue orecchie si sente un fischio di preoccupazione. Quel silenzio è innaturale. Pensa a Russia e ricorda che lui ha il potere su di loro. Pensa che potrebbe anche infiltrarsi nella loro camera e portarlo via con la forza. Il cuore inizia a galoppare nelle sue orecchie e nelle viscere dello stomaco schiacciato. Si guarda attorno, intimorito. La sua paura è tanta che, in pochi secondi, ritiene la sua ipotesi più che giusta, talmente tanto che è sorpreso che non ci abbia pensato prima.

La sua fronte lacrima sudore, così denso che dal ragazzo, in un attimo di terrore, viene scambiato per sangue. Lo stomaco di Lituania si attorciglia in uno spesso nodo. Lentamente scivola fuori dal letto e, altrettanto lentamente, si avvicina alla porta. Con falsa calma, guarda nel buco della serratura, aspettandosi di trovare Russia fuori. Vede soltanto la finestra del corridoio e, al di là, una notte senza stelle. Lituania ha comunque paura. Passano altri venti minuti a guardare nella serratura e ad ascoltare il silenzio martoriale. Per un attimo pensa di ritornare a letto. No, la paura è troppo grande. Non può crederci di aver pensato ad una cosa del genere.

Si siede a terra, ai piedi del letto, e aspetta. Aspetta qualcosa, forse qualcuno, forse Russia, forse la morte. Non lo sa nemmeno lui cosa, ma aspetta. Quell’attesa lo rende ancora più insicuro e tremante. Pensa ancora di nascondersi al caldo sotto le coperte. Gran parte del suo corpo si rifiuta. Ma non può stare solo lì ad aspettare. Si rialza e si avvicina cautamente al letto, guarda sotto di esso, sotto le tavole di legno, sotto lo scheletro del letto.

Trova ciò che cerca. Estonia aveva, diversi mesi prima, trovato un pezzo di ferro arrugginito. Probabilmente, un tempo, era un coltello, ora senza manico. L’aveva levigato molto, fino a renderlo acuminato e pungente. Ne era orgoglioso e lo nascondeva là sotto. In casi di emergenza, diceva, lo avrebbe usato. Voleva ancora illudersi che ci fosse un modo per scappare da lì.

Lituania prende quel pezzo di ferro, si siede di fronte alla porta e continua ad aspettare. Ha l’ansia nelle vene ad ogni spiffero o rumorino che sente. I due Baltici, svegliati la mattina dopo, lo trovano seduto per terra, le gambe che si abbracciano alla pancia e uno sguardo di puro terrore, nonostante non fosse accaduto nulla quella notte.

Lituania non ha dormito nemmeno per un minuto.

 

 

 

 

 

Un altro giorno passa in questo modo e Lituania, troppo spaventato, si rifiuta di dormire.

Obbliga il suo corpo a rinunciare al sonno, ricoprendolo di ricordi di Russia, dei cocci di vetro sulla sua schiena, delle bastonate e le sferzate. Alla fine il suo corpo viene mortificato a sufficienza, affinché smetta di dormire, per altre tre notti. Lituania pensa che, in questo modo, si salverà e continuerà a vivere. Ma non si chiede più una domanda fondamentale: perché continuare a vivere? Perché mortificare il suo animo in questo modo? A quale vantaggio? A quale scopo? Lituania non se lo chiede e cerca di sopravvivere. Paragona il sonno alla morte.

Al terzo giorno, la fatica comincia a torturarlo. Russia non si fa vedere da quell’episodio, ormai lontano e Lituania sta per cedere.

Lava il pavimento con lo straccio umido. Deve costringere la mano a muoversi, non lo fa più in automatico. Lituania si sta arrendendo al sonno. Continua a costringere il corpo a rimanere sveglio, ma questo inizia a ribellarsi. Il ragazzo guarda il pavimento oro e bianco. È splendente, senza una macchia. Ha fatto un buon lavoro, nonostante la sonnolenza. Ha finito, questo era l’ultimo compito. Deve solo aspettare che si asciughi e rimettere a posto il tappeto, anch’esso spolverato e pulito.

Traballante, apre le finestre. L’aria ghiacciata di settembre si schianta su di lui e lo avvolge. Fa freddo fuori, come se fosse gennaio. Lituania pensa che con un freddo del genere riuscirà a rimanere sveglio, per forza. Per questo si siede sulla poltrona, di fronte alla grande vetrata e aspetta che il pavimento si asciughi. Soltanto sedersi, per Lituania, sta diventando una tortura. Il corpo e la mente esigono il riposo. Ora sono loro a costringerlo a cedere. Lituania non riesce più a combattere, è stanco anche lui, stanco per davvero. Vorrebbe abbandonarsi per sempre e non svegliarsi mai più. Chiude gli occhi e si lascia avvolgere dal sonno.

È quasi il tramonto e il pavimento si è asciugato da ore, ormai. Ma Lituania dorme ancora, senza sogni né incubi. Dentro di sé, spera di essere morto. Avrebbe la pace. Vorrebbe raggiungere e rivedere i re che ha servito con fedeltà, come loro cavaliere. Vorrebbe rivedere il suo popolo defunto. Vorrebbe rivedere Polska, addormentato vicino a lui, nel loro letto, com’era un tempo, quando erano una Confederazione e Lituania viveva nel castello di Varsavia. Era uno dei pochi momenti in cui si sentiva in pace. Vorrebbe che il sonno si trasformasse in morte.

Non potrebbe vederlo, ma una mano bianca e splendente poggia sui suoi capelli una piuma rossa, la più lunga che possiede. Brucia, la piuma, ma non tocca i capelli castani del lituano. Un’altra piuma brucia tra le dita bianche di Polonia. Le ceneri volano e sprofondano entrambi nei sogni.

 

 

 

 

 

Le luci. La musica. I violini. Le melodie lituane. Le danze. Le persone. L’oro e l’argento nelle sale. Non sa bene come ci sia finito lì, ma non se ne cura. Questa reggia, questa sala da ballo, questi suoi abiti sfarzosi, quest’allegria frizzante della sua terra… troppa nostalgia, troppa felicità per averla ritrovata. Anche il bicchiere di champagne in mano non gli dispiace, se paragonato a tutto il resto. Respira la felicità del suo popolo nel ballo che sta vedendo di fronte a sé. Quest’allegria è contagiosa e lui è felice di esserne contagiato. Inoltre, sente la schiena robusta e sana, libera e leggera. Anche questo lo solleva molto.

La musica è frizzante e gioviale. Forse è veramente a casa sua, in Lituania. Forse è alla reggia di Vilnius e non se né accorto. Forse è scappato di nuovo da Russia senza nemmeno accorgersene. O forse si trova lì per rimanerci. Questa prospettiva della situazione gli piace. Rimanere lì, anche se non conosce bene il luogo, gli sembra un’idea, se non interessante, meravigliosa. Ma qualsiasi luogo è meraviglioso, che non sia la villa di Russia.

Si avvicina ai tavoli dove viene servito il cibo. Lì lascia il bicchiere di champagne. Non sa che farsene, tanto è felice solo con la musica e le danze. Gli viene voglia di gettarsi lì, nella folla, e di ballare. Tante persone gli passano vicine, non curandosi di lui, non prestandogli molte attenzioni, se non per constatare che, si, lì, in quel luogo, si trova anche un ragazzo e non solo adulti trasformati dalla musica in bambini. Veramente, ha voglia di ballare. Ma ha bisogno di una compagna. È la regola e, comunque, non saprebbe come danzare da solo. Forse potrebbe chiedere a quelle giovani donne sedute lì, in fondo, ad aspettare il fortunato che le chiederà la mano…

Sente due dita premere un paio di volte, leggermente, sulla sua spalla “Liet…” immediatamente si volta. Immaginava che fosse lui, lui viene sempre a salvarlo e ad aiutarlo. Rimane comunque meravigliato nel vederlo di nuovo lì, nei suoi sogni, per portarlo via da Russia e dalla casa maledetta. Lo stringe dolcemente, come se fosse di cristallo, senza troppa forza, non come l’ultima volta, nei campi di grano. È sorpreso, ma non incredulo di vedere Polska. Si staccano, Lituania è ancora sorridente.

“Polska, sei tornato di nuovo!” a Liet brillano gli occhi. Polonia annuisce, cercando di tirare un sorriso. Ci riesce, ma con molta, moltissima fatica. Questa volta, non è entrato nei suoi sogni per incontrarlo o per abbracciarlo.

Toris lo ha abbandonato, solo, in quella realtà in cui è prigioniero, in cui non può comunicare. Gli ha lasciato solo quelle piume, solo quelle, sono molto poche. Si è reso conto che non vuole essere egoista. Si è reso conto che qualsiasi intervento da parte sua non ha fatto altro che peggiorare la situazione all’interno del cuore di Liet. Si era convinto, in quella seconda settimana di torture, che avrebbe dovuto stare calmo, al suo posto di spettro, lasciando che le acque scorressero vicino a lui, senza intervenire, chiudendo gli occhi e le orecchie, se necessario.

Nella settimana di guarigione di Lituania, ha creduto di impazzire. Non riusciva a guardare Liet. Hanno distrutto anche i suoi occhi azzurri, il suo sorriso e la sua vita. Hanno distrutto tutto di Liet. Non solo Russia, tutti in quella casa erano colpevoli di omicidio, della volontà di vita di Lituania. Vedere in atto quel reato, senza far nulla, è stato impossibile per Polonia. Ha fatto un esame di coscienza per tutti quei giorni, osservando la situazione senza commentare.

Credeva di dover smettere immediatamente. Era poco meno di un morto, un morto molto fastidioso per i danni che ha creato. Non pensava che fosse più necessario il suo intervento, completamente negativo per giunta. Sia in vita che da morto non crea altro che problemi agli altri. Ma non può sopportare di vedere Lituania morire di fronte ai suoi occhi, di giorno in giorno, di notte in notte. Questa volta ha preso una decisione, dolorosa ma che deve essere svolta, per il bene di tutti.

Bisogna guardare in faccia la realtà: lui è morto, non esiste più, né nel corpo, né sulla cartina geografica. Non può più tornare indietro, il suo regno è stato distrutto e mai rinascerà più. Deve scegliere di restare lì o di andare in pace, che sia il Paradiso o l’Inferno. Questo Polonia l’ha capito, con difficoltà e pianti, ma l’ha capito. Ora è il turno di Liet. Purtroppo deve aprire gli occhi anche lui, o morirà per il dolore. Questa prospettiva è molto più terribile delle parole che vorrebbe pronunciare.

“Ti piace qui?” chiede Polonia, con le braccia dietro la schiena e la testa gentilmente piegata.

“Certamente! Questo posto è meraviglioso” gli brillano gli occhi per la felicità. Polonia si morde l’interno della guancia e deglutisce. Sarà molto più difficile di quel che pensava. Lituania guarda Polonia e si rende conto che hanno gli stessi vestiti: casacca lunga fino al ginocchio, aperta, foulard bianchi, pantaloni e giacche strette, come si addice a dei gentiluomini settecenteschi. L’unica differenza è che Polska ha la casacca verde, mentre invece lui color caffé. Lituania pensa che il verde stia molto bene a Polska. Il moro ha ancora voglia di ballare, tantissima voglia di divertirsi. Il polacco segue gli occhi di Lituania, comprende, ma si sente ancora più nervoso. Liet si volta, sgargiante.

“Ti piacerebbe ballare?” sente la musica calmarsi. È meno frizzante, ma più dolce e delicata. A Lituania piace ugualmente. Si stanno velocemente formando delle nuove coppie sulla pista da ballo. Polonia lancia un’occhiata alla sala. Il cuore diventa più pesante, non vorrebbe ingannare Liet e poi dirgli la verità su ciò che vorrebbe fare in seguito. Vorrebbe semplicemente che quel posto sparisse e che ci sia silenzio. Ecco, esatto, vuole silenzio. Tutta quella musica gli sta graffiando la coscienza e trasformando il cuore in piombo. Gli fa male tutta quella felicità che sta guardando, sia in quelle persone, sia in Liet.

“Uh…” è ancora indeciso su cosa fare. Decisamente, quella musica lo infastidisce. Non aveva la minima idea di come usare quelle piume, questo luogo deve averlo creato la fantasia di Liet. Non ricorda di essere mai stato lì e quel posto sconosciuto gli trasmette una certa angoscia. Ha ancora paura di ciò che non conosce e avere questa fobia lo delude molto. Si sente un bambino in un mondo di adulti, come lo era nella reggia di Varsavia. Come lo è ora con Liet.

“Su, dai, ci divertiamo!” è la prima volta che vede il lituano così estasiato per qualcosa. Gli sta addirittura porgendo la mano. Forse è l’atmosfera allegra della festa, forse è il palazzo lituano che non vede da decenni, segregato nella casa di Russia, senza mai vedere le sue terre e tradizioni. O forse è solo lui stesso molto nervoso. Lancia un’altra occhiata suscettibile alla pista. Nota subito un particolare che lo rende abbastanza teso.

“Erm… Liet, siamo due maschi…” Lituania ride forte. Polonia drizza la testa, ha un groppo alla gola. Forse era soltanto una sua impressione, ma la voce di Liet gli era sembrata rauca e anche abbastanza stanca.

“E dovrebbe importarci? Siamo amici e questo è il mio palazzo. Possiamo fare tutto quello che vogliamo. Non ti vergognare, non c’è niente di cui aver paura!” gli sorride con amore. Conosce bene Polska, sa della sua fobia, sa che vorrebbe sbarazzarsene, ma lo fa con fatica. Sa che quel posto nuovo lo sta facendo imbarazzare, ma non riesce a smettere di essere felice e di sorridere. Poi, il ragazzo ha solo bisogno di una piccola spinta, poi si divertirà. Pensato questo, afferra per le mani Polska e, con lo sbigottimento del biondo, lo trascina fino al centro della sala dorata. Polonia sente il cuore scoppiare per la paura.

“Non ti preoccupare, andrà tutto bene” sente il valzer entrare nella musica e nella pista “Faccio io il maschio, va bene?” chiede senza volere una reale risposta, tanto Polska è sempre stato la ragazza fra i due. La prima volta in cui fu costretto a ballare non sapeva nemmeno cosa fosse una ballata. Polonia, in un giorno, gli aveva insegnato il valzer, nella loro stanza, per ore ed ore. Fece buona impressione il giorno dopo. Polska è molto più bravo di lui a ballare, complice gli anni ed anni passati nella reggia e l’eleganza in sé per sé. Aveva l’eleganza di un principe, Polonia. Quest’eleganza gli mancava e la desiderava molto.

Polonia non apre bocca, imbarazzato e col cuore ancora più pesante. Vede la mano pallida di Liet che si accosta al suo fianco, con una dolcezza tale che lo fa sentire in colpa. Istintivamente poggia anche lui le mani su di lui, come farebbe una ragazza col suo cavaliere. Questo paragone gli fa attorcigliare lo stomaco. La musica riparte, molto più zuccherosa della precedente, quasi fiabesca. L’aggiunta del pianoforte lo fa pensare ad Austria. Austria lo trattava bene, in confronto a Prussia. Non vuole pensarci. Non scrolla gli occhi da terra, dai loro piedi, imbarazzato nel trovarsi in mezzo a tutta quella gente che non conosce. Sa che sono delle figure di carta, ma non ne può fare a meno.

“Polska, guardami! Non avere paura, ci sono io” afferma Lituania con una risata nel cuore. Polonia alza la testa, con timidezza. Pochi attimi e il suo nervosismo aumenta. Sente il suo cuore sbattere nelle orecchie, eliminando quasi del tutto la musica attorno a sé. Abbassa gli angoli della bocca e le sopracciglia. Lituania ha cambiato forma. Non è più roseo e sgargiante. E’ bianco, molto pallido, la pelle screpolata delle labbra pare sfregiata con un coltello. Gli angoli della bocca sembrano più marcati, gli danno un’aria sciupata ed esausta. Sotto agli occhi ha dei segni grigi e profondi, delle pozze di petrolio. Polonia lancia lo sguardo anche sulle sue mani. Alcune unghie mancano nelle dita tagliate e con dei piccoli lividi neri. Polonia deglutisce, sia spaventato che triste.

Nonostante ciò, continuano a ballare. Polonia si chiede come faccia Lituania ad essere così felice. La musica è strana. Il polacco lo nota solo ora e apre le orecchie. Si concentra. È cambiata di nuovo, la musica, ora la differenza è più che evidente. Il violino è stridulo, come se stesse graffiando una sola corda. Non è nemmeno della musica. È un urlo di bambino che trancia una notte senza luna. Polonia rabbrividisce, sente le spalle rigide. Lituania continua a danzare, lo guida in quel miserabile valzer di orrore.

“La musica fa paura…” mormora il biondo, con un filo di voce. Avrebbe voluto sembrare più sicuro di sé, ma la gola manca. È rigida, come il resto del corpo. I suoi movimenti perdono l’eleganza, ha troppa paura ed angoscia per muoversi. Eppure, Lituania lo guida ancora.

“Ah, si?” una risata infantile “Non sento niente di strano, Polska” afferma, deciso. In effetti, Lituania non sente niente di insolito. Forse è solo Polska che è molto nervoso. Non si lascia scoraggiare e continua il ballo, più concentrato sul buffo polacco che su quel che lo circonda.

Polonia, per sbaglio, sfiora il vestito di una donna danzante. Entrambe le coppie fanno una giravolta. Il biondo strizza gli occhi e rimane incredulo: il vestito rosso e nero della giovane donna si sta lentamente sfibrando e mutando in piccoli pezzettini di carta che svaniscono quasi immediatamente. Il ragazzo inizia a pensare, allontanando Liet da quella vista. Forse avrebbe dovuto usare due piume a testa come aveva fatto Toris, forse è per questo che Liet ha un brutto aspetto e la signora si sta trasformando in carta, fenomeno ignorato addirittura dal suo cavaliere.

Lo stridio di un urlo di donna gli paralizza il cervello: il violino ha ricominciato, più forte e crudele di prima. Maledetto e spietato. Polonia sente le orecchie frantumarsi per quel suono. Come fa Lituania a non sentire nulla? Sgrana gli occhi: le persone, non solo la donna quasi totalmente scomparsa, stanno perdendo pezzi di pelle e di vestiti che fluttuano in aria, bianchi e cartacei. Ferma i piedi, angosciato nel profondo. Non ce la fa più. Lo stomaco si attorciglia, come un serpente, fra i suoi polmoni. Gli manca l’aria. Lituania si ferma insieme a lui. Attende, ma nota lo sgomento di Polonia.

“Polska, stai bene?” chiede, più preoccupato di quel che dimostra. Polonia non sa bene che scusa inventare. Trovata.

“Si, solo che mi manca l’aria. Andiamo fuori un attimo?” Lituania cambia espressione in un attimo, è felice.

“Ma certo! Vieni” lo prende per le spalle e, mentre lo accompagna fuori, passa una mano sulla schiena dell’amico. In effetti, nota, Polonia è molto più pallido di prima. Forse sta male o gli gira la testa… Il polacco, calmato, si rilassa un po’, anche se il cuore è ancora pesante e lo stomaco striscia e si stringe su sé stesso. Alla fine, non ha nemmeno mentito, gli mancava per davvero l’aria. È sollevato dal fatto di trovarsi fuori da quella sala degli orrori. Si tranquillizza velocemente, non appena vede la luna, bianca e tonda.

Lituania porta Polska nella balconata del palazzo. Lì è molto più buio che dall’interno, ma c’è tranquillità. Non riescono nemmeno ad udire un alito di vento o uno squittire dei violini in lontananza. È il luogo più tranquillo e pacifico del palazzo, non c’è alcun dubbio. Il moro si siede sulla sottile gradinata di marmo, sotto di lui c’è il nulla, il buio. Trovarsi fra la luce e l’oscurità lo elettrizza, senza un vero e proprio motivo. Polonia, timidamente, si siede vicino a lui. Nota ciò che sta sotto di loro e rabbrividisce, intimorito. Lituania si avvicina ancor di più a lui. Il biondo è ancora pallido, ma un po’ più sveglio. Lituania è felice, sapeva che non fosse nulla, solo un po’ di paura, nulla di grave.

“Ora stai bene?” Polonia è tentato di annuire o di aprir bocca, ma non ne ha il coraggio. Guarda il suo Liet: è ridotto in cattivo stato, spossato e debole, riesce a notarlo dalla pelle e dagli occhi quasi completamente spenti. Nonostante tutto ciò, il suo amico continua a sorridere. Non capisce perché sia così felice e il fatto di dover spezzare subito quella felicità, lo uccide. Deglutisce un grumo di saliva acre ed acerba.

“Liet, non credo che dovremo stare qui. Tu… tu sei molto stanco” Lituania comprende ogni parola, ogni significato, nascosto malamente. Gli si allarga il sorriso.

“Stanco? Chi è stanco può fare… questo?” abbraccia Polska e, senza nemmeno un avvertimento per informare l’amico, lo trascina giù, nel buio.

“No, Liet!” non urla, Polonia, lo supplica con gentilezza. Cadono giù, nessuno dei due ha paura, sanno che non potranno farsi male. Non sentono le vertigini, non sentono il vento tra le orecchie, vedono attraverso il buio, com’è giusto che sia in un sogno. Lituania e Polonia cadono di schiena in un mucchietto di morbidissimo muschio verde, umido di rugiada trasparente. Un cuscino morbido e profumato. Lituania sembra splendere in quel buio, Polonia ha la mascella serrata e la lingua attaccata al palato.

Il moro si trascina sopra l’amico. La luna non ha difficoltà a filtrare tra i rami degli alberi. Tocca le loro pelli e le trasforma in perla bianca, quasi trasparente. Ma Polonia vede comunque la stanchezza negli occhi del lituano. Si poggia completamente su di lui. Ancora scherzoso e sorridente, gli bacia la fronte, con tutto l’affetto che ha in corpo. Il biondo sente una scarica che parte dalla fronte e si percuote nelle vene, fino al cuore pesante. Tutto questo, invece che confortarlo, lo innervosisce ancora di più. I suoi capelli biondi cadono all’indietro, liberi. Lituania soddisfa il desiderio di carezzarli. Il sorriso del moro si rilassa molto, come cullato dal profumo dei suoi capelli color grano.

“Ti faccio male…?” chiede, innocentemente. Ecco, è il solito Liet: pensa prima agli altri che a sé stesso. Polska non sorride, non ne ha la forza. Fa un cenno negativo col capo. Sente la testa dell’amico poggiarsi sul suo petto, quieto. Lituania si stringe al suo corpo, in parte lo abbraccia. Polonia ha i polmoni congelati e freddi, non riesce a respirare per tutta quell’ansia. Guarda la luna, si sente come lei: intrappolato in una ragnatela di rami neri e spezzettata in mille pezzi. Si sente male. Lituania non lo nota.

“Mi manchi ancora molto, Polska” sussurra, leggero. Polonia trattiene un sobbalzo, preso alla sprovvista. Riascolta nella sua testa le parole di Liet, tante, tante volte. Più le risente, più si sente male. Lituania si alza un po’, si muove ancora di più verso il suo viso. La luna è quasi scomparsa dalla sua vista, ora ha di fronte il viso dell’amico. E’ innocente e speranzoso, il suo viso. Gli occhi azzurri del lituano brillano, fanno compagnia ai pezzetti di luna sopra di loro.

“Qui si sta benissimo. Mi manca casa…” casa… la Lituania? Si, sicuramente si. La reggia di Varsavia non la considera nemmeno lui una casa “Ti voglio tanto bene, Polska” Polonia s’irrigidisce, il lituano non lo nota, troppo concentrato a trovare le parole giuste. E ad accarezzargli con l’indice il palmo della mano. Polonia sente un po’ di solletico. E una fitta al cuore. Ora quel punto fa molto male, brucia quasi. Lituania si stende meglio su di lui, poggia la testa nell’incavo del collo, aspira il suo profumo.

Polonia non si muove, continua a guardare la luna intrappolata nei rami. Si sente un fruscio nella foresta, delle foglie sbattute dal vento. Segue con gli occhi quel venticello, viziato, che strappa via dai rami qualche foglia birichina. Fluttuano vicine alla luna, le foglie, cantano e fischiano al vento. Questa foresta, anche se nera e misteriosa, lo attrae più del palazzo lituano.

Gli manca casa sua, le sue foreste verdi, le sue città toccate dal passato medioevale, il viso bianco e vispo dei bambini polacchi. Non potrà più tornare a casa. No, casa non esiste più, la Polonia non esiste più. Non ascolterà più la voce delle sue foreste. Troppe emozioni, gettate tutte insieme in una volta, tutte nel suo cuore. Gli si riempiono gli occhi di lacrime. Una di loro decide di fare un passo fuori dall’iride, coraggiosa. Viene immediatamente imitata dalle compagne, anche loro prese nella corsa verso le sue orecchie, fino ai suoi capelli. Trattiene a stenti i singhiozzi e i sussulti. Stringe forte i denti per farlo. Purtroppo gliene sfugge uno, che fa tremare violentemente tutto il suo corpo. Lituania alza la sua testa, veloce, ciò che vede lo preoccupa e lo incredula.

“Polska! Stai bene?” lo chiede con così tanto calore e amore che, invece di fermarsi, le lacrime continuano a bagnargli i capelli e i singhiozzi lo scuotono. Getta un braccio sul volto. Ha pianto troppe volte di fronte a Liet, anche se da fantasma. Ma Lietuva non gli ha mai detto che gli vuole bene, e se l’ha detto, allora l’ha fatto molto, troppo tempo fa per ricordarlo. Non ha mai sentito così forte la nostalgia di casa. Non si è mai sentito così male per aver trattato Liet come un servitore per tutto questo tempo. Un singhiozzo troppo forte fa alzare velocemente la sua schiena e gli ci vuole molto più tempo per ritornare a toccare il muschio sotto di sé.

“No, Polska, non piangere. Non c’è niente per cui piangere…” il moro scava con le dita sotto il suo braccio e gli asciuga le lacrime, commosso ed intenerito. Non ha mai visto piangere Polska per così tante volte. Polonia vorrebbe che Liet lo odiasse, sarebbe tutto molto più semplice e non si sentirebbe così male. L’amico gli sposta il braccio fermo sul volto pieno di lacrime. Coi pollici continua a togliergli le lacrime e ad accarezzargli le guance.

“Non devi piangere, Polska. Se vuoi, puoi restare qui per tutto il tempo che vuoi” gli sorride ancora. Polonia smette un attimo di singhiozzare, preso ancora una volta alla sprovvista e ricordando di nuovo il perché del suo arrivo lì, nei sogni di Lituania.

“Ma… ma… Liet, io non posso…”

“Allora starò io qui con te. Non tornerò più da Russia. Saremo solo noi due, insieme, come ai vecchi tempi” Polonia smette di piangere, ora sono rigidi gli occhi e il corpo “Ricordi quando parlavamo al telefono? Si, la tua idea mi era piaciuta molto” dice, raccogliendo le sue lacrime. Polonia affoga nei suoi occhi blu, più leggeri e vivaci.

“Q-Quale?”

“Della casa, dell’appartamento, del vivere insieme. Io pensavo ad un appartamento, tu ad una casetta. Sai, hai ragione: è meglio vivere in una casetta, è bella la campagna” ammorbidisce il sorriso “Potremo vivere qui, noi due, come un tempo. Anzi, meglio! Questa volta non ci sarà né Russia, né Prussia, né Austria. Non ci saranno guerre a separarci, non avremo un filo che ci lega ai nostri paesi. Saremo solo noi, come dei normali umani. Polska, non sarebbe meraviglioso?” gli si spezza il cuore, le lacrime rischiano di scendere di nuovo giù, questa volta verso la gola. I polmoni sono di nuovo freddi e duri. Il suo cuore è rotto. Polonia si sente rotto, Lituania vuole fare lo sbaglio che lui rischiava di fare, tempo prima.

“Liet… non si può” lo dice in un modo troppo morbido, infatti l’amico non legge fra le righe.

“No, secondo me si può” gli occhi del moro si chiudono un attimo, la testa si abbassa “Non sai cosa mi è successo in questi giorni. Tutti mi odiano, Polska” il fiato ad entrambi manca “Non voglio più Russia. Io… ho paura di lui. Insomma, ne avevo anche prima, ma ora è molto diverso. È come… come capire dopo un po’ di trovarsi di fronte ad un mostro. Russia è crudele, Polska, non lo voglio più. Ma non posso scappare da lui, è troppo forte…” Liet tira su il naso, velocemente. Ha gli occhi umidi anche lui “Lettonia ed Estonia mi odiano. Quella casa… ha qualcosa di sbagliato, quella casa. Credimi, Polska, è come essere in una gabbia e… è orribile, Polska. Mi sento male lì…” sospira, trattenendo facilmente le lacrime. Poggia per un attimo l’orecchio sul suo petto. Resta così per un po’ e sembra calmarsi molto. Polonia inghiotte un groppo salato di bile.

“Io ti credo, Liet” l’ho visto con i miei occhi, pensa. Ma non glielo dirà mai.

“Lo so…” sospira, felice, il moro. Continua a rimanere fermo, sereno. Per un attimo Polonia comprende cosa stia facendo “Sai, questa è la musica più bella che io abbia mai ascoltato…” dice, continuando a premere il suo orecchio sul suo cuore. Lituania ricorda il cadavere, il pavimento graffiato dal sangue dell’amico, Russia insensibile e crudele. Non vuole più vederlo, non vuole più avere dei falsi fratelli, non vuole più essere in gabbia. La libertà della sua terra sa di vento e di stelle. Vuole prenderla tutta e buttarcisi dentro. Polonia ha un brivido di rabbia sulla spina dorsale. Si odia per essere così debole. Ha ancora ingannato Liet e deve smetterla di farlo, ora. Si alza sui gomiti, lentamente, abbastanza per avvertire il lituano del movimento improvviso. Polonia guarda qualunque cosa dell’amico, tranne che gli occhi.

“Liet, non possiamo stare qui” Lituania, dopo un po’, decide di sedersi sulle ginocchia dell’amico.

“Che vuoi dire?” la scintilla di speranza cerca di non morire.

“Questo… questo posto, non esiste, Liet. Siamo, tipo, in un tuo sogno, in un posto inventato dalla tua testa” Lituania sospira rinfrancato. Con le palpebre abbassate, sorride.

“Lo so, ma possiamo stare qui ugualmente. L’ultima volta… c’eravamo quasi riusciti. Possiamo farcela! Io… non voglio più tornare lì… Mi manchi tu, Polska…” lo dice con tutto il cuore, questo il biondo lo sa. Si odia ancora di più per i suoi pensieri, di quando aveva desiderato la stessa cosa, ma da Liet. Ora è Lituania a chiedergli di restare e si sente frastornato. Nessuno dovrebbe desiderare di morire. Lituania è cosciente di quel che sta chiedendo e vuole restare ugualmente con Polska. Sa che sarebbe felice lì, in questo mondo incantato. Non vuole più vedere il sorriso di Russia o gli occhi curiosi di Lettonia ed Estonia. Stare lì lo rende felice, qualcosa che ha quasi dimenticato. Polonia getta uno sguardo dietro le spalle dell’amico. Vede dei leggeri filamenti bianchi strapparsi dalle cortecce e dalle foglie. È quasi ora. Si alza in piedi, con fatica. Lituania fa lo stesso. Deve avere uno sguardo molto serioso, perché Liet cambia subito espressione, preoccupato.

“…guarda” dice, semplicemente. Ma, dopotutto, Liet deve solo guardare. Con esitazione, si leva la casacca verde scura. La lascia cadere a terra. Polonia non ha il coraggio di guardare Liet in faccia, né di smettere di svestirsi. Passa al foulard e finisce per terra. Ora arriva la parte difficile. Esita ancora un po’, sospira, cerca coraggio, ne ha molto. Sbottona la camicia, bottone dopo bottone. La apre. Lituania aveva una consapevolezza, brutta e cruda, ma i suoi occhi non riescono a fare a meno di strabuzzare e la sua mano non riesce a restare al suo posto. Trema, la sua mano, e si poggia sulla sua bocca. Nel mezzo del petto del polacco, c’è un solco rossastro e sfregiato. Si vede la carne viva pulsare lì, dentro il buco color carne viva.

Lituania fa scorrere una mano sulla pancia di Polonia, cerca la sua autorizzazione. Polska annuisce tristemente. Il ragazzo fa continuare l’avanzata delle sue dita, fino a giungere al solco. Lo sfiora gentilmente. Il biondo sibila di dolore, il corpo si ribella e trema. Lituania, ora, sente il suo cuore protestare dall’incredulità e dalla paura. Alza gli occhi su Polska, turbato in ogni cellula del suo corpo.

“F-Fa molto male?” chiede, la mano si abbassa.

“Brucia come l’inferno…” risponde Polska, continuando a guardarlo con una serietà che stona con lui. Lituania non lo riconosce. Un’altra consapevolezza si fa largo nel suo cervello, ridotto ad un blocco di ghiaccio. Ha paura, Lituania. Ha paura di continuare ad ascoltare il suo migliore amico. Ha paura delle sue labbra, che si stanno lentamente riaprendo.

“Lituania, io… sono morto” sussurra la voce vuota di Polska. Lituania riceve quelle parole con una scarica di veleno in una sua vena. Viaggia lungo le arterie e il sangue, quel veleno. Brucia tutta la sua energia, mangia il suo ossigeno e la sua carne. Fa male, quel veleno. Continua a scorrere, velocemente, in una pazza corsa verso il suo cuore. È ghiacciato, è doloroso. Lituania scuote la testa, non può farne a meno. Polonia è troppo serio per essere lui. Da quando in qua lui lo chiama col suo vero nome? Perché è così triste? Polska non è mai triste. Non dev’essere vero.

“Liet, non posso più tornare…” il veleno sta raggiungendo il cuore, impazzito per la velocità e per i tremori di Lituania. Il cuore urla, grida, si sgola per la paura e la voglia di non tornare da Russia. Vuole restare con Polska, non fa niente se sia morto. Vuole che resti lì, con lui, per sempre. Se lui non può, lo può fare lui. Ma ora il paesaggio sta cambiando.

“Lietuva, i morti non possono più tornare indietro…” quest’ultima frase fa male. La foresta sta diventando bianca, si frantuma in pezzetti di carta, volano verso la luna. Anche il cielo è fatto di carta. Polonia, lo vede, ha le lacrime agli occhi, verdastri e paludosi, come il suo cadavere. Lituania spalanca le palpebre. Il peso è troppo forte, cade in ginocchio. La carta si spezza velocemente, crea un piccolo tornado che li prende e li scuote. Lituania sente i violini gracchianti, il pianoforte scordato, il valzer di dolore. Vede gli occhi e il sangue di Polska. Lo vede gettato in un baule. Lo vede trascinato via, da Russia, in un luogo a lui sconosciuto. Fa troppo male, il cuore, il petto, i polmoni.

Si sfogano, i polmoni. Grida la gola, sua sorella, nella sua disperazione. Gli occhi sbarrati, che non vogliono guardare. Troppe emozioni, troppo poco tempo, troppe memorie ammassate e dimenticate nel sogno. Lituania vede la luce, ma continua ad odiarla. Russia portava la luce in quella casetta in cui era prigioniero. Il buio era una madre dolce e materna. Vuole il buio, lo vuole, vuole Polska, vuole scappare dalla sua cella.

Ma più desidera il buio e più riceve la luce. Lituania ritorna nella realtà, con la gola strappata e gli occhi bagnati e fradici.

Polonia, semplicemente, guarda in alto, cercando di non far sgorgare le lacrime. Come al solito, non ci riesce.

 

 

 

 

 

Russia passa nel salone, per caso. Inizialmente non lo vede, troppo concentrato e fiero del buon lavoro fatto dai suoi servitori. Poi lo nota. Si avvicina, curioso, al ragazzo. Lituania si è addormentato, seduto, con la schiena dritta e la testa sul punto di cadere di lato. I capelli ondeggiano lentamente per il vento freddo dietro le sue spalle. Russia vede dei solchi grigiastri sotto agli occhi del lituano. Comprende e ne rimane ferito nell’animo. Lo guarda e lo ammira, la sua tela preferita, imbrattata di rosso, gli attrezzi e le sue mani erano i pennelli. Riesce, anche ora, a vedere la grandezza del problema e il fatto di non essere riuscito a vederlo prima lo ferisce. Anche i pazzi hanno un cuore, dopotutto.

Russia si sfila i guanti: ha sempre freddo, anche dentro casa. Li posa sul tavolo di fronte al divano. Si avvicina cautamente al ragazzo. La testa continua a pendere pericolosamente verso di lui, di lato. Russia non vuole che si svegli. Rende la sua mano gentile e dolce e la poggia sulla guancia di Lituania. Con l’altra mano, affettuosamente, chiede al suo corpo di stendersi sul divano. Il corpo di Lituania desidera solo dormire, per questo accetta le mani di Russia, dimenticando i dolori che gli hanno causato.

Poggia il capo del moro su un cuscino e adagia le gambe, più magre di come ricordava, lungo il sofà bianco. Lituania sospira nel sonno, di sollievo. Russia ci riflette un po’ su e si decide. Si sfila la giacca invernale e la stende sul corpo raffreddato di Lituania. Trema, il ragazzo. Russia chiude la finestra e, infine, si siede di fianco al suo piccolo servitore. Cerca di essere il più lento e cauto possibile. Incredibilmente, ci riesce.

Lo osserva, incantato. Sembra in pace… pensa Russia. Sorride, sollevato. Le sue dita carezzano le ciocche more del ragazzo. Il corpo di Lituania rabbrividisce per il freddo. Russia si rattrista. Non voleva arrivare fino a quel punto. Non voleva fargli del male. Voleva solo che fosse suo.

Russia voleva una famiglia. Già ne aveva una ricevuta insieme alle sue sorelle, poi i Baltici vennero ad abitare con loro. In quel periodo, Russia stava cercando di farsi perdonare da Ucraina per la guerra che ha dovuto creare per riaverla indietro e Bielorussia, per tutto il sangue che ha visto scorrere sulle sue terre, si stava chiudendo sempre più in sé stessa e Russia cercava di farle aprire il cuore. In quei giorni voleva riavere la famiglia che aveva perduto. La voleva con tutto il cuore, avrebbe fatto di tutto per riaverne una. È vero, alla fine ebbe il perdono di Ucraina e Bielorussia ritornò ad essere sé stessa, anche se più fredda di come la ricordava. Ma non era abbastanza. Non voleva che i Baltici fossero dei semplici servitori, obbligati a stare nella sua gigantesca casa. Voleva anche loro nella famiglia. Sapeva di poter fare qualsiasi cosa per avere il loro cuore in mano. E fece ogni cosa in suo potere.

Lituania sospira ancora e si sposta dolcemente sulla schiena. Russia sorride, addolcito dalla serenità del lituano. Purtroppo, gli effetti furono contrari a ciò che credeva. I fratelli si allontanavano sempre più da lui, terrorizzati. Capì quanto fossero diversi fra loro e quanto li abbiano separati i suoi giochi e la sua falsa dolcezza. Probabilmente anche i suoi interventi hanno diviso drasticamente i tre e non solo la differenza di carattere.

Russia sfiora la pelle rosata di Lituania. Vezzeggia le labbra bianche con le dita e si avvicina un po’ di più. Il petto di Lituania respira regolarmente, senza sbalzi o con troppa velocità. Russia ne è sollevato. Non ha mai desiderato spezzarlo in quel modo. Desiderava soltanto che anche Estonia, Lettonia e Lituania fossero i suoi fratelli o i suoi figli. Vuole che Lituania si senta meglio, senza preoccupazioni. Non vuole che lo guardi come i prigionieri di Ivan o gli amanti di Caterina. Vuole soltanto che venga considerato un padre o un buon fratello maggiore. Invece si è trasformato nel loro peggiore incubo.

“Ivan…” un sussurro dolce come il miele. Russia smuove la mano dalla pelle di Lituania e alza lo sguardo verso sua sorella. La piccola Bielorussia, dalla porta del corridoio, lo guarda, confusa e con un volto un po’ corrucciato.

“Che stai facendo…?” Russia lo sa: sua sorella è gelosa. Molto gelosa, dei tre Baltici. Guarda Lituania come se fosse uno scarafaggio. Anche quel giorno non ha avuto altra intenzione che indossare un altro abito se non uno di quelli che le aveva comprato lui stesso. Russia tira su un sorriso.

“Lo sai, Natalya… Non devo spiegartelo…” le sussurra, scherzoso. La piccola non apprezza la battuta. Continua a fissare il lituano, accigliata e gelosa delle attenzioni di suo fratello verso quel… coso. Si, è gelosa e vuole suo fratello solo per lei. Aveva notato che Ivan era interessato a lui, al moro, ma non sapeva il perché. Si comportava da mesi in modo strano, quel ragazzo. Non sa di Polska, né di tutto ciò che gli fece Russia. Sa soltanto che, tra i tre, è il suo preferito. Il perché è poco importante, è ugualmente gelosa. Ama suo fratello, lo stima e lo ammira. Non vuole un terzo fra loro due, a meno che non sia Katyusha. Russia nota gli occhi spenti della sorellina, le fa cenno di avvicinarsi. Lei ubbidisce, Ivan la fa sedere sulle sue ginocchia. Russia la guarda negli occhi e le pettina i capelli lunghi e argentei con le dita.

“Sei gelosa…” la sbeffeggia sussurrandole nell’orecchio queste due parole. Lei, incattivita, allontana bruscamente le labbra di Ivan dal suo orecchio. Guarda qualsiasi cosa tranne che suo fratello, ridente. La mano del russo accarezza una sua guancia, bianca come neve fresca, un po’ più amorevolmente di come ha fatto con Lituania.

“Non potrà mai prendere il tuo posto, Natalya” le guance di lei si colorano di rosso “Tu sei la mia sorellina, la mia stella, la mia zarina…” sussurra. Le bacia una mano, come faceva un tempo, salutando le Granduchesse e le Zarine. Non ci vuole molto per far calmare Natalya, già docile per essere stata paragonata ad una zarina. Russia era fedele agli zar e alle loro mogli. Era il loro generale, il loro guerriero, il loro tagliagole. Essere uguagliata ad una di loro, se non a tutte, è un grande onore per lei, soprattutto se a farlo è Russia.

“Ma allora perché…?” chiede, ancora confusa. Cos’ha quel lituano più di lei? Russia sospira. È difficile da spiegare una cosa del genere, anche alla sorella. Vorrebbe mentire, ma non sa bene come. È difficile spiegare che Lituania è un ragazzo che lo attira. È difficile spiegare com’era invidioso della sua felicità che assorbiva dalle telefonate con Polonia. È difficile spiegare che, dentro di sé, avrebbe voluto che fosse un suo amico. È difficile spiegare che, se fossero stati umani e se non fosse stato l’incubo del ragazzo, lui avrebbe desiderato tanto che… Decide di dirle quest’ultima cosa.

“Ultimamente non si sente molto bene ed è mio dovere controllare che un mio servitore abbia un’ottima salute. È talmente stanco che nemmeno riesce a svegliarsi per le chiacchiere che facciamo ” dice allegro, osservando il respiro tremolante del ragazzo. Natalya non fa una piega.

“E poi lo ammiro molto” la sorella è ancora più confusa. Osserva la sciarpa bianca del fratello e decide di aggiustargliela, mentre Ivan le dà spiegazioni.

“Perché? Non è niente e nessuno, ora” dice, dura e veritiera. È vero, Lituania ora non vale nulla. Ma questo dettaglio non gli interessa ora.

“Natalya, questo ragazzo, nonostante tutto quel che gli è successo e tutto quel che gli ho fatto…” non vuole specificare oltre “…è sempre rimasto quel che è: un cavaliere forte e tenace, più dei miei soldati. Lo ammiro anche per altri motivi, sorellina. Sono tanti per spiegarteli e, comunque, ne rideresti, se te li elencassi tutti” Natalya si mette in mezzo, abbastanza arrabbiata.

“Non lo farei mai!” esclama. Lituania si muove un po’, sospirando ancora per il buon riposo. I due fratelli lo osservano per poco, poi continuano a guardarsi negli occhi. Natalya sembra indignata dalle sue parole. Ivan si è intenerito, le sorride e questo basta alla sorella per quietarsi. Le vezzeggia l’orecchio. Natalya si calma del tutto. Decide di dirglielo, è curioso della sua futura reazione.

“Sarà strano a dirsi, ma lo considero molto. E’ un ragazzo con buoni principi, molto intelligente e di buon cuore. Se fossimo umani, mi sarebbe piaciuto…” piccola pausa di riflessione, deve pensare bene come dirlo “…sarebbe bello se ti chiedesse la mano” il volto di Natalya è di pietra, pietra che diventa rossa come una barbabietola. Il suo viso, da serio, diventa indignato e graziosamente infantile. Russia ha la tentazione di ridere.

“Ivan, hai voglia di scherzare…?” il suo sorriso, nascosto dalla sciarpa, dice il contrario “Ma lui… lui è un servitore! Non ha niente e non è niente! Non puoi volerlo…!” abbassa all’ultimo la voce, per non svegliarlo. Natalya lo osserva per qualche minuto. E’ gracile, magro e non robusto, volto infantile e non serio o da combattente, capelli lunghi come quelli di una ragazza a cui un barbaro ha strappato la chioma. Ivan non può pensare ad una cosa del genere. Il russo poggia un dito sulle sue labbra morbide.

“Dico sul serio, potresti parlarci e poi scoprire che ti interessa” no, non sta scherzando. Natalya quasi ne ha paura. Le sue sopracciglia ricadono verso il basso. Non può chiederle una cosa del genere.

“Non ci pensare nemmeno! Mai e poi mai!” reagisce in modo troppo infantile per essere lei, ma non ne può fare a meno. È la cosa più stupida che Ivan abbia mai pensato. Anzi, in verità, non può saperlo, ma a Russia gli era venuta quest’idea parlando con Ucraina. Mentre conversavano, avevano visto Lituania guardare con interesse e, con le guance in fiamme, la piccola di casa mentre leggeva un libro. A Katja era sfuggito un ‘Non sarebbero perfetti insieme, se fossero una coppia?’. Ivan ci aveva riflettuto per diversi minuti, prima di ammetterlo anch’egli. Ma Natalya non è dello stesso parere.

“Natalya, lui era un cavaliere. Aveva un re ed un’alleanza con una delle maggiori potenze d’Europa. Al tempo era un rispettabilissimo soldato e aveva un regno florido” alla sorella non sembra importare “Mentre, all’epoca, noi chiedevamo elemosina nelle strade di Mosca e avevamo una cascina come casa” qui la più piccola s’intristisce. Non le piace ricordare la sua infanzia, e quella dei fratelli. Guarda ancora il lituano e, no, non lo vuole. Vuole un guerriero, non un cavaliere. Vuole un uomo, non un ragazzo. Vuole qualcuno simile a Russia, suo fratello. Se avesse dovuto per forza avere un uomo, avrebbe dovuto essere come Ivan o migliore di lui, anche se quest’ultima sembra un’assurdità: nessuno è migliore di suo fratello. Ma non posso sposare mio fratello, pensa tristemente. Russia è sempre sorridente.

“Allora, cosa ne pensi? Ci penserai?” la sorella, sdegnata nel profondo, si alza bruscamente dalle ginocchia del maggiore. Gli occhi blu sono saette.

“Quando Mosca smetterà di esistere!” e se ne va, con il capo alzato e il fiocco svolazzante. Russia trattiene a malapena una risata tenera. No, secondo me sareste perfetti insieme, pensa.

Si volta verso Lituania che, per fortuna, ha continuato a dormire beatamente. Sorride al ragazzo dormiente. Il più piccolo respira con la bocca, ha il collo scoperto. Russia se ne accorge, vuole che non senta freddo. Lentamente prende un lembo della sua divisa e l’avvicina al mento di Lituania. Non sa bene cos’ha fatto. Forse dev’essere stato troppo brusco nei movimenti, forse ha dato un calcio a qualcosa, forse il lituano, riposato, ha semplicemente riaperto gli occhi di sua spontanea volontà.

Timidamente, si sveglia. Lituania, inizialmente è confuso, poi sbalordito, poi sgrana gli occhi. Guarda il suo riflesso terrorizzato negli occhi di Russia. Russia non sa bene cosa stia pensando, ma nota che i suoi denti stanno sbattendo fra di loro, gli occhi sbarrati, il petto si abbassa e rialza ad una velocità innaturale. Lituania è paralizzato per il terrore. Russia è troppo vicino a lui. Lo sapeva, non avrebbe dovuto dormire, se dorme muore. Lo sapeva, eppure non ne ha potuto fare a meno. Si sente stupido e debole.

Russia nota la sua paura, accenna ad un sorriso.

“No, Lituania, torna a dormire…”

Torna a dormire… No…

Strabuzza gli occhi, come se il russo gli avesse offerto di lasciarlo uccidere proprio lì, tra le sue braccia. Eppure Lituania era così calmo mentre dormiva… Russia lo guarda sconsolato. Ogni cosa è stata distrutta. È tutto finito. Lituania trema. Vuole scappare, vuole andare via, lontano da chiunque, lontano dalla morte. Vuole scomparire, vuole morire. Russia sente i tremori sotto le sue mani.

“No, Lituania, non…”

No!” esclama il lituano, rompendo il falso silenzio. Rotola e cade giù dal divano, portandosi dietro la giubba di Russia. A malapena si accorge di questo inutile particolare. Lituania, affannosamente, come se Russia stesse cercando di rincorrerlo, si rialza in piedi e, traballante, scappa fuori dalla stanza.

Russia rimane semplicemente lì, immobile, a guardare il punto dov’è sparito il ragazzo. Dopo poco, riprende la divisa, la sbatte un po’ e se la indossa, ferito dentro. Se ci fosse stato abbastanza silenzio, si sarebbe sentito un crack proveniente dal suo cuore.

 

 

  
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