Fred sapeva che, qualunque cosa fosse successa quella notte, lui non sarebbe stato più lo stesso. Certo, aveva cercato di sorridere non pensarci, addirittura di ironizzare su quegli avvenimenti, ma in quell’aula fredda e vuota, pur non essendo da solo, aveva così tanta paura che quasi poteva percepire la sua anima lì, seduta di fronte a lui, a guardarlo negli occhi come se lei già non gli appartenesse più. L’immobilità giocava brutti scherzi ad una persona vivace com’era lui.
In quella battaglia, pensò, ognuno era solo con se stesso: vite, giorni, edifici, invenzioni… Tutto è vano di fronte alla guerra. Tutto è vano quando hai le spalle contro il muro.
Non che lui avesse intenzione di fuggire, anzi; ma avrebbe preferito non vivere quel momento, ripercorrere una vita intera pur di sfuggire a quel logorante istante di attesa. L’attesa, per Fred, era decisamente più angosciante del ritrovarsi sul campo di battaglia: lui sapeva duellare, sapeva prendersi gioco della morte… Ma non sopportava l’idea di aspettare che i membri della sua famiglia morissero senza poter fare niente, o l’idea di immaginare la morte dei suoi cari.
Con un’espressione sconvolta, rimase lì a fissare il vuoto, cercando di tornare alla realtà e di non farsi corrodere da quei pensieri. “Finché non li vedi, non puoi saperlo”, si disse, e volse lo sguardo verso il Marchio Nero dipinto nel cielo, fin troppo visibile da quell’aula esposta a nord.
«Stai bene, Freddie?».
La voce di George era così reale, così solida che avrebbe potuto quasi toccarla, e la sua gomitata ammiccante fu un sollievo per lui. Di sicuro lui capiva quello che il gemello stava provando… Forse era angosciato tanto quanto lui.
«Sì» rispose con una inaspettata sicurezza, un sorriso grato e sereno che sembrò prendere di peso i funesti pensieri sul futuro e spedirli lontano. Il cuore cominciò a battere, forte, inquieto. Doveva uscire di là. Aveva bisogno di sapere che sarebbe andato tutto bene. E George lo sapeva. Non avevano mai avuto bisogno delle parole, loro due.
«Anch’io». E Fred sapeva che quella non era una semplice parola. Quell’ “anch’io” non aveva un verbo volutamente, perché quell’ “anch’io” non significava “Anch’io sto bene”; piuttosto quell’ “anch’io” era un: “Anch’io ho paura”.
Sarebbe stato da sciocchi non avere timore durante la battaglia finale. Quanti, per paura di perdere la vita, si erano schierati nella fazione opposta? Quanti, pur di salvare la propria famiglia, erano stati torturati e uccisi? Quella guerra portava sulla coscienza il peso di tanti, troppi defunti.
In quel momento, solo con suo fratello, Fred chiuse gli occhi e sperò come non aveva mai fatto prima; tutto quello che riuscì a dire in un’insana preghiera alla morte fu: «Se devi prendere qualcuno, prendi me. Non confondere me e George come è solita fare la mamma, mi raccomando».
Quando scese sul campo, quei brutti pensieri furono scacciati. L’agilità, la velocità dei movimenti, le scintille che le bacchette creavano… Tutto lo mandava in estasi. Tutta quell’adrenalina lo rendeva quasi felice, entusiasta, e il suo spirito bellico, che era rimasto nascosto fra le sue costole in attesa di poter dare il meglio di sé, ruggì.
Ad un tratto, un’esplosione lo colpì violentemente e il buio calò nei suoi occhi. Tutti i Weasley erano vivi, tutti stavano combattendo… E lui se ne andava.
“Per le mutande di Merlino, se sono fortunato…” fu il suo ultimo pensiero.