Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: AlsoSprachVelociraptor    23/11/2015    2 recensioni
!!!*ATTENZIONE!* STORIA RISCRITTA E RIPUBBLICATA SU QUESTO PROFILO. NON LEGGETE QUESTA!! LEGGETE LA NUOVA VERSIONE!! (QUESTA VERSIONE è DATATA ED è QUI SOLO PER RICORDO)
Anno 2016. Shizuka Higashikata, la bambina invisibile, è cresciuta e vive una vita tranquilla con i suoi genitori Josuke e Okuyasu nella cittadina di Morioh, e nulla sembra poter andare storto nella sua monotona e quasi noiosa esistenza. Ma quattro anni dopo la sconfitta di Padre Pucci un nuovo, antico pericolo torna a disturbare la quiete della stirpe dei Joestar e dell'intero mondo, portandoli all'altro capo della Terra, nella sperduta cittadina italiana di La Bassa. Tra vecchie conoscenze e nuovi alleati, toccherà proprio a Shizuka debellare la minaccia che incombe sull'umanità. O almeno così crede.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Le tre se ne stavano all’erta, nel bel mezzo della piazzetta ormai tinta di sangue. Erano confuse, non capivano perché la ragazzina mancasse all’appello. Era stata colpita dall’ago elettrificato proprio sulla nuca, e la scossa era tale da tramortire una della sua minuta stazza, Zarathustra ne era certa. Il Boss non sbaglia, mai.
-È scappata?- mormorò Eriol, stringendosi alle amiche. Regina era già sull’attenti, con le bacchette di metallo stette tra le mani, che cercava di capire dove potesse essere andata quella ragazzina. Controllava di tanto in tanto i due uomini, svenuti a terra ed immobili, per accertarsi che non dessero sorprese anche loro.
Zarathustra camminò fuori dal gruppetto, avvicinandosi ai due per terra, con la sua solita calma. Le altre ragazze la seguivano con lo sguardo, attente ai suoi movimenti.
Zarathustra si affiancò a uno dei due e si guardò intorno, con l’occhio rosso che brillava, studiando il luogo. Non c’era nessuno, nemmeno usando la vista notturna o quella termica. Non era scappata, tuttavia. Ne era sicura, le macchie di sangue vicino al ghiaccio ancora solido lo dimostravano. La ragazzina si era letteralmente strappata via il ghiaccio che la bloccavano a terra, lasciando pezzi di tessuto e di pelle attaccati ad esso. C’erano delle macchie di sangue lì intorno, ma nessuna che si dirigesse verso le viuzze di uscita dalla piazza.
-Se i suoi genitori hanno uno stand, è possibile che anche lei ne sia portatrice.- sentenziò il boss, girandosi verso le due, che se ne stavano schiena contro schiena vicine alla fontana, pronte ad attaccare.
Ma non ne poteva più di aspettare. Non potevano di certo andarsene così, lasciando una testimone a piede libero. Dovevano scoprire dove si era cacciata, costi quel che costi.
Il capo comunicò alle due di cercare la ragazzina, e Regina ed Eriol iniziarono a correre freneticamente per la piazzetta, frugando dietro ogni statua, controllando dentro ogni siepe. Ma nulla. Zarathustra, al loro contrario, rimase ferma immobile, tra i due uomini riversi a terra, impassibile. Si chinò sul più basso dei due e gli girò la testa dalla parte, che prima era schiacciata contro il pavimento di sassi, guardandolo per bene in viso.
-Tu… tu sei Nijimura Okuyasu, mh? E il tuo stand ha la capacità di cancellare lo spazio, a quanto ho notato. Molto interessante. Troppo pericoloso.-
Lasciò la sua testa ricadere sui sassi con un rumore sordo e si girò verso l’altro, con un’espressione diversa. Gli afferrò la mandibola e lo guardò per bene in viso, asciugandogli una guancia ispida dalla saliva che gli colava dalla bocca.
-E tu sei Higashikata Josuke. Il Joestar. Non ho ancora scoperto il potere del tuo stand, so che fa qualcosa di più che tirare pugni, ne sono certa…-
Mentre lo disse fece spuntare la zampa artigliata del suo stand, che sfoderò le dita appuntite contro l’uomo, pronto a colpirlo.
-…ma preferisco non correre rischi.-
42, lo stand di Zarathustra, le permetteva di avere una super vista: poteva usare la vista termica, notturna, a raggi X, gamma, ultravioletto e infrarossi, svolgeva funzioni dal telescopio al microscopio. Ma solo la vista era amplificata, gli altri sensi erano quasi ovattati. La ragazza era talmente abituata a usare la sola eccezionale vista che non aveva dato importanza agli altri sensi, come ad esempio l’udito. E questo fu il motivo per cui non si accorse dei lievi passi dietro di lei, e troppo tardi si accorse della scarica di pugni che la colpirono in pieno viso, accompagnati da un acuto “DORARARA”.
Zaratustra cadde qualche metro in avanti, tenendosi il viso colpito. I pugni non erano forti, non come il “DORARARA” precedente del Joestar che sferrò pugni tanto veloci da sfondare il muro del suono e rompere le lame d’acqua lanciate da Regina. A malapena le avevano rotto il naso, ma ciò fu abbastanza per cadere nella trappola di Zara.
Non voleva davvero uccidere i due, erano solo un esca per sapere la posizione della ragazzina. Se non era scappata voleva dire che era ancora lì tra loro, e se era rimasta lì era probabilmente per i suoi genitori. Si mise in posizione difensiva verso il punto in cui ricevette i pugni, con il sangue che le colava dal naso e una smorfia simile ad un sorriso sul viso.
- Ho capito quale sarebbe la tua abilità. Sei invisibile.- disse col suo tono autoritario. –Mostrati. Ormai so dove sei.-
Davanti a lei apparve Shizuka, ansimante e stanca, con un’espressione scossa ma contenuta e i pugni davanti al viso, in una brutta imitazione di una posa difensiva. Era nel panico, ma non poteva dimostrarlo.
Doveva combattere, per una volta nella vita era tutto in mano sua.
Quando, mentre stavano ancora combattendo contro quella strana fontana, sentì il pizzicore sulla nuca, non si spaventò più di tanto. Sembrava una delle punture che Josuke le faceva da settimane, per quella ferita sul collo. Quando poi sentì una lieve scossa elettrica e poi tutto il corpo irrigidirsi, entrò davvero nel panico. Era come aveva visto in quei film polizieschi, dove gli sbirri tiravano fuori quello strano arnese elettrico, il taser, e lo puntavano ai nemici, paralizzandoli. Shizuka era sicura che fosse quella la sensazione, una forte scossa che ti percorre tutta per poi non farti più muovere. Cadde a terra come un sacco di patate, confusa ma sveglia, mentre sentiva le urla di suo padre e le risatine di quelle ragazze misteriose che erano spuntate dal nulla.
Non seppe dire quanto durarono le urla e i singhiozzi strazianti del padre, per poi udire solo il silenzio. Sapeva solo che la situazione era critica, era tutto finito, erano sconfitti. Rimase immobile, con il viso premuto contro i sassi del pavimento, mentre le ragazze parlottavano sui corpi dei suoi genitori e le davano la schiena. Quando si accorse di essere finalmente capace di muoversi, divenne completamente invisibile e fece per alzarsi, sentendo però il ghiaccio bloccarle le articolazioni. Se lo strappò via di dosso, trattenendosi dal gridare dal dolore o dal scoppiare a piangere, anche se avrebbe tanto voluto in quel disperato momento. Si allontanò in punta di piedi, cercando di fare il minor rumore possibile, avvicinandosi a uno dei vicoletti, ma si fermò di colpo. Si girò e guardò i suoi padri, riversi a terra, inermi, immobili, e qualcosa le scattò nel cervello. Non poteva lasciarli lì. Non poteva scappare, loro non le avevano insegnato a scappare come una codarda. Si avvicinò alle ragazze con cautela, cercando di non essere sentita. Non sapeva quello che stava facendo, non aveva un piano vero e proprio, loro erano estremamente più forti di lei. Loro avevano sconfitto i suoi genitori, uomini adulti grandi e grossi con anni di esperienza, cosa mai avrebbe potuto fare una ragazzina il quale unico potere è diventare invisibile?
Le due ragazze castane, quelle che prima erano alla fontana, se ne andarono, lasciando la mora da sola, chinata sui suoi genitori. Shizuka le era vicina, vicinissima, ma era del tutto inerme.
Non aveva mai visto i suoi genitori così. Fermi, freddi, spenti.
Aveva davvero paura che non avrebbero più riaperto i loro occhi, non avrebbe più sentito i loro schiamazzi e le loro vocione fastidiose, non si sarebbero più alzati da quella piazzola maledetta. La ragazza sentì i pugni fremerle, scaldarsi e formicolare. Vedere il capo di quelle ragazze estrarre il braccio di quello che dovrebbe essere il suo stand e puntarlo verso suo padre Josuke, pronto a colpirlo, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Agì d’istinto, e le si buttò addosso, gridando a pieni polmoni quella frase priva di senso che urlava sempre suo padre quando sferrava pugni col suo Crazy Diamond. Anche lei avrebbe tanto voluto sferrare una serie infinita di pugni su quel brutto muso, sconfiggere quelle nemiche, ed essere forte. Qualcosa dietro di lei, effettivamente, scagliò dei pugni in sua direzione, e la colpirono in pieno. Non ci fece troppo caso comunque, intenta ora come ora a vendicarsi per i suoi padri.
Si piazzò davanti a lei, con lo sguardo più duro che aveva e i pugni serrati, vagamente illuminati da una strana luce e da qualche lieve scossa che le percorrevano il braccio. Lei non ci fece caso, ma Zarathustra sì.
Rimase imbambolata davanti a lei, con un’espressione più tesa.
-Tu sai usare le Onde Concentriche.- borbottò, con un tono aspro e preoccupato. Shizuka la guardò con confusione, ripetendosi quel nome nella mente. Onde Concentriche. La stessa cosa che le aveva detto il ragazzo nel suo sogno, quando era stata attaccata dal vampiro. Rimase davanti alla ragazza, di circa una decina di centimetri più alta di lei, e Shizuka si accorse di quanto giovani e piccole fossero quegli spietati nemici.
-Come fai a saper usare le Onde Concentriche? Tu non sei una Joestar.-
-No, non lo sono.- sbottò Shizuka, parlandole con tutto il coraggio che aveva in corpo. –Io sono una Higashikata.-
Era sicura di avere appena detto una delle frasi più significative della sua intera vita, ma l’avversaria non ne sembrava affatto colpita. Con uno scatto le fu addosso, piantandole un gomito proprio al centro del viso. Shizuka tornò invisibile e rotolò per terra per qualche metro, per poi allontanarsi da lei più velocemente che poteva, lasciandosi però una scia di gocce di sangue che le cadevano dal naso rotto. Zarathustra le corse dietro, mantenendo un’andatura tranquilla, mentre studiava con calma la velocità l’angolo di caduta delle gocce di sangue, giungendo così tramite un veloce calcolo a dove dovesse essere la ragazzina. Scivolò per terra e, tenendosi con un braccio sul pavimento, sferrò un calcio a mezz’aria che, come previsto da 42, colpì in pieno lo stinco di Shizuka, che cadde a terra urlando dal dolore.
Era terrorizzata da quell’avversaria fin troppo potente, le sembrava davvero invincibile. Sapeva sempre tutto, riusciva a prevedere le sue mosse, capiva dov’era anche se aveva attivato Achtung Baby. Si rimise in piedi a stento e ricominciò a correre, zoppicando un po’ per il forte calcio caricato ad onde Concentriche che le aveva colpito lo stinco dolorante. Shizuka ripensò al fatto che, quando le era arrivata da dietro, non era riuscita a parare. Il naso le aveva smesso di gocciolare sangue, e i suoi passi erano silenziosi. Zarathustra rimaneva immobile, con quella strana luce rossa sotto gli occhialoni che brillava con nervosismo, probabilmente nel tentativo di capire dov’era la sua preda, anche se inutilmente. Shizuka continuava a correrle intorno, avvicinandosi sempre di più in un movimento a spirale, finchè non le fu tanto vicina da poterla colpire, alle spalle. Ma l’attacco non era indirizzato alle spalle.
Quando iniziò ad urlare “DORARARA”, per Zarathustra fu inutile sapere la posizione della ragazzina. Un pugno le arrivò in faccia, un altro sulla schiena, altri sulle braccia, venivano da tutte le direzioni. Il boss cadde a terra, senza nemmeno capire cosa stesse succedendo e cosa l’avesse colpita. In realtà non lo sapeva nemmeno Shizuka, perché lei era rimasta immobile, ma aveva comunque sferrato dei pugni, lo sentiva sulle sue nocche, sentiva la pressione del pugno contro la pelle, il sangue schizzare, e le ossa spostarsi. Forse era quel tipo di stand che avevano i suoi genitori, come Crazy Diamond di suo padre Josuke. Anche lui tirava pugni, anche lui urlava “Dorarara”, ma era visibile. Shizuka non vedeva niente e, evidentemente, non vedeva nulla nemmeno la nemica, che intanto stava cercando di rialzarsi.
-Regina! Eriol!- urlò Zara, rimettendosi in piedi a fatica, con la visiera rotta e il viso sanguinante. Ma le sue compagne non c’erano. Si voltò verso i vicoletti scuri da cui si poteva uscire dalla piazza. Vi provenivano dei rumori, e lo notarono entrambe. In pochi istanti, il rumore in sottofondo si trasformò in un forte baccano, e Regina venne scagliata nella piazzetta da una grande massa di capelli neri, seguita da Eriol. Le due si precipitarono verso il loro capo, pallide e conciate male, mentre dal vicoletto uscivano una donna alta dai capelli con vita propria e un uomo basso coi capelli sparati e un piccolo stand bianco e verde che galleggiava intorno a lui.
Shizuka si lasciò cadere a terra, mettendosi a ridere: non era più sola.
-Zia Yukako! Zio Koichi!! Siete arrivati!- gridò con tutta la voce che aveva, osservandoli mentre le correvano contro, estremamente spaventati. Koichi le si affiancò, prendendola per le spalle e guardandola negli occhi con gran preoccupazione, mentre Yukako si era parata davanti a loro, mettendosi in mezzo tra loro e le tre ragazze.
-Tutto bene? Chi sono loro? Cos’è successo a Josuke e a Okuyasu?- disse Koichi, talmente nervoso e spaventato da incespicarsi mentre parlava, stringendola per le spalle. Shizuka non seppe rispondere, rimase a guardarlo col fiatone e con gli occhi lucidi, felice che l’incubo sia finito.
Yukako si avvicinò alle tre, che indietreggiarono. Zarathustra di sicuro non si immaginava che la ragazzina sapesse usare le onde concentriche, né che anche l’altra coppia che li accompagnava possedessero degli stand. Con un cenno della mano comunicò alle altre due una ritirata strategica. Erano tutte e tre stanche e sconfitte, tentare di combattere ancora era una follia. Scattarono indietro e si arrampicarono con agilità sul muretto che dava sul parcheggio, sparendo in pochi istanti e lasciandoli da soli nella piazza, ormai fredda e silenziosa. Koichi e Yukako si avvicinarono ai due uomini a terra, ma Shizuka rimase immobile. Non voleva avvicinarsi, non voleva sapere che non c’era più nulla da fare per i suoi genitori. Non voleva rimanere sola, ancora.
Incredibilmente, le dita di Okuyasu si mossero. Emise qualche verso roco e appoggiò i palmi a terra, tentando di alzarsi. Shizuka gli corse incontro e gli saltò letteralmente addosso, facendolo ricadere a terra. Lui si girò di schiena e la strinse con forza al suo petto, scoppiando a piangere e accarezzandole i capelli con dolcezza, mentre lei appoggiava la testa al suo petto, ascoltando il battito del suo cuore che credeva non avrebbe più sentito.
-Non piangere, Shizu. Io sono qui.- sussurrò suo padre, accarezzandole le guance violacee e martoriate con le sue grandi mani. Lei gli rivolse un mezzo sorriso e si strinse a lui, cercando solo di rilassarsi e non ripensare più a quello che è successo. Ormai sembrava tutto un brutto incubo ormai passato, quasi un’orribile visione che Shizuka sperava con tutta sé stessa che non dovesse più affrontare.
Nel frattempo, anche Josuke si era risvegliato. Aprì gli occhi e, ancora confuso, vide che sua figlia preferiva suo marito a lui. Lo sapeva da tempo, lo sapeva da sempre, che Shizuka preferiva passare il tempo con Okuyasu che con lui. Okuyasu era dolce, gentile e premuroso. Josuke no. Era introverso e falso, non era un bravo padre, ed era più che ovvio per lui che la sua bambina scegliesse il marito e non lui. Chi lo sceglierebbe mai, d’altronde? Di sicuro non sua madre o sua figlia. Si alzò sugli avambracci e tossicchiò, più per attrarre l’attenzione che altro, trovandosi in pochi secondi la figlia addosso, in lacrime.
La strinse a sé e la fece sedere sulle sue gambe, mentre estrasse Crazy Diamond e curò in fretta le caviglie del marito. Okuyasu ricambiò con un sorriso, e Josuke non seppe come rispondere. Semplicemente lo ignorò, come quasi sempre del resto, e tornò a concentrarsi sulla figia. Lei tirò su col naso e fece finta di non piangere, cercando di sembrare forte con lui, non una bimba debole. Ma era esattamente quello che lui stava vedendo in questo momento.
La teneva per le sue braccia pallide e esili, guardandola negli occhi e passandole lo sguardo sul naso rotto, le labbra spaccate e le guance livide, con uno sguardo incredulo.  Un’espressione indicibile di preoccupazione e rabbia gli passava sul viso, mentre la figlia rideva e lo abbracciava.
Le prese le guance tra le mani e la studiò per bene, guarendola man mano, studiandola col suo sguardo gelido.
-Cosa ti hanno fatto…-
-Ho combattuto, papà!- urlò lei, dimenandosi sulle sue gambe. –Quando voi siete svenuti, io sono diventata invisibile, mi sono avvicinata al loro capo, e..-
La presa sulle sue braccia aumentò e diventò quasi insopportabile, e il suo sguardo si accese di rabbia. La strattonò con violenza, avvicinando il suo viso contorto in una smorfia d’ira pura a quello della figlia, che rimase interdetta, confusa e inerme. Non si aspettava quella reazione, e non sapeva minimamente che gli stava prendendo.
-Tu… tu hai COMBATTUTO!?- le gridò, talmente forte da farle male. Lei cercò di tirarsi indietro ma le sue forti mani la trattennero sul posto, stringendola contro quell’uomo che non riconosceva più. Staccò una mano dal suo braccio e le tirò un sonoro schiaffo sulla guancia, talmente forte da farla ribaltare indietro, finendo con la schiena sull’asfalto. Cacciò un urlo e si rannicchiò su sé stessa, strisciando indietro e cercando di scappare. Era la prima volta che provava questo tipo di paura, e non era nemmeno paragonabile alla paura dello scontro. Era qualcosa di anche peggiore, trovare nell’uomo che l’ha cresciuta la minaccia. Si portò la mano alla guancia dolorante e rimase a fissarlo, incredula. Rimaneva immobile davanti a lei, con un’espressione indecifrabile sul viso, mentre la fissava con la mano ancora alzata e il palmo rosso per il colpo, e gli occhi gonfi e lucidi.
Okuyasu si tirò in piedi con grande fatica e gli si avventò addosso, bloccandolo contro il pavimento di sassi e premendolo con forza le mani sulle spalle, per tenerlo a terra. Non voleva fargli del male, non voleva ferire l’uomo che amava, anche se quello non sembrava più nemmeno lui. Fremeva e si contorceva sotto le sue mani, come un cobra che si attorciglia alle braccia dell’incantatore di serpenti, sibilando e sfoderando i denti, cercando di alzarsi, forse per finire di curarli, o forse per picchiare la loro bambina ancora.
Non lo poteva sapere, e Okuyasu si sentiva troppo stupido per capire cosa passasse per la testa a Josuke: fin da quando si erano conosciuti, ovvero quel freddo giorno di metà aprile di ben diciassette anni prima, Okuyasu non riuscì mai a penetrare quella spessa cortina che sembrava celare i veri pensieri di suo marito, o a solo intuire cosa si nascondesse dietro quei gelidi occhi azzurri, freddi come il ghiaccio ma non altrettanto trasparenti.
Al posto del solito sorriso artificioso e fasullo, sul suo viso poteva vedere il terrore puro, le labbra contorte e gli occhi lucidi. Josuke era spaventato, era terrorizzato, tremava sotto le sue mani e cercava di scappare. Cercava comunque di farlo nella sua solita maniera, fredda e disinteressata, cercando di falsare quelle emozioni tanto intime e personali che Okuyasu poteva scorgere benissimo.
Okuyasu stesso era conscio di non essere intelligente o abile, sapeva che il suo quoziente intellettivo non arrivava nemmeno lontanamente alle tre cifre, che non era in grado leggere o scrivere fluentemente come gli altri, non era un abile oratore o un gran pensatore, ma riusciva a saper leggere le emozioni sul volto delle persone, sapeva quando volevano un biscotto o un abbraccio, oppure quando volevano solo essere lasciate in pace. Aver vissuto per strada per tutta la sua giovinezza l’ha aiutato molto da questo punto di vista.
Ora lo vedeva. Vedeva bene quanto Josuke stesse male, e che non poteva continuare a tenerlo bloccato al suolo. Non aveva bisogno di maniere così brusche, non in quel momento. Gli lasciò andare le spalle con lentezza, accarezzandogli piano il tessuto della giacca e guardandolo con un’espressione ben diversa dalla rabbia di poco prima. Era preoccupato e stressato, vederlo così disperato e debole.
-JoJo…- sussurrò piano Okuyasu, guardandolo negli occhi con gli occhi lucidi, sentendosi male per lui. Sentiva le lacrime montargli e un nodo in gola, ma lo sguardo di Josuke tornò sempre quello, freddo e distaccato, che aveva ogni volta che stava male. Se lo scrollò di dosso e Okuyasu rotolò di lato sul pavimento, mentre il più alto si alzava in piedi, mostrandosi in tutta la sua imponente figura. Con passo svelto prese una delle viuzze e se ne andò.
Shizuka si avventò su Okuyasu, che lo fissava andarsene, con la mano premuta sul braccio sanguinane e il solito passo sicuro e ondeggiante, quasi a trascinarsi dietro quella gamba ferita anni e anni fa.
Anche Okuyasu si alzò in piedi, e sollevò la figlia con un braccio, tenendola stretta al suo corpo e cullandola con dolcezza.
-Sei stata bravissima…- le sussurrò lui, mentre lei si stringeva forte al suo collo, ancora incredula e confusa. Guardò Koichi e Yukako, e loro due guardarono lui. Anche loro conoscevano bene Josuke, e sapevano quanto testardo e introverso potesse essere. Koichi gli si avvicinò e gli sbatté una mano sulla spalla, tentando di sorridere per far passare quel brutto momento.
-Andiamo, torniamo all’auto… Josuke dev’essere già là!- disse il biondo, avviandosi verso le vie strette che conducevano ai parcheggi. Shizuka continuava a guardare il muretto da cui le ragazze se n’erano andate. Sentiva i muscoli cederle e la mente offuscarsi, mentre con le ultime forze si stringeva al padre, per scivolare piano piano in un sonno pesante, molto più simile ad uno svenimento che ad altro.
 
Jotaro continuò a guardare quella lapide, con inciso il nome di suo nonno. il funerale era finito ormai da ore, ma lui non si era smosso di lì. Non poteva davvero credere che Joseph Joestar, il più grande immobiliare di tutta la East Coast, ma soprattutto suo nonno, se ne fosse andato per sempre.
Non è sempre stato così legato a suo nonno. Da bambino lo vide raramente, quel grande e grosso uomo inglese dai corti capelli castani e i vividi occhi verdi, che sorrideva e gli scompigliava i capelli con una risata.
Assomigliava molto a Josuke, ora che ci pensa bene. Ma non voleva pensarci bene, non voleva pensare a quell’errore che è suo zio. Era colpa sua se suo nonno era morto. Era colpa sua se ha passato gli ultimi anni della sua vita in una casa di riposo, da solo, a morire della sua malattia che gli corrodeva piano piano la mente ed il corpo.
Jotaro era da solo davanti a quella tomba, magari ad aspettare che qualcosa succedesse. L’avevano sepolto vicino a sua moglie Suzie, quella moglie a cui non fu fedele. Morì nel 2003, e quando lei se ne andò Joseph fu trasferito in un ospizio, sotto il freddo sguardo di suo figlio, che non fece nulla per evitarlo.
Jotaro lo sapeva, ne era cosciente che non poteva dare tutta la colpa a Josuke, né tantomeno a sua figlia Shizuka. Era inutile, infantile, e davvero ingiusto. Ma come poteva non prendersela? Suo nonno era una persona splendida, un uomo gentile e scherzoso. E fu abbandonato, e lasciato morire come un cane randagio, da quel figlio, quell’errore, quella notte andata male. Non voleva più vederlo, non voleva avere più contatti con lui. Non era nemmeno contento del fatto che la piccola Shizuka si fosse salvata. Una vocina gli continuava a ripetere che era meglio se fosse morta, fosse morta lei e i suoi genitori. Tre scherzi della natura, tre creature che non dovrebbero esistere. Se fosse così, Joseph sarebbe ancora vivo, felice, e…
-Jojo…-
Questo orribile torrente di pensieri venne arrestato da sua moglie, che gli strinse una mano con forza. Abbassò lo sguardo e guardò di striscio, cercando di non fare nulla di sconveniente che potesse anche solo farle scoprire che lui, in realtà, si sentiva vuoto dentro. Le strinse a sua volta la mano e cercò di dimenticare quei tremendi pensieri che gli erano passati per la mente. Shizuka non ha colpe. È solo una bambina, e Josuke e Okuyasu sono due persone a modo, che hanno lavorato e sofferto per avere ciò che lui ha ottenuto senza sforzo, e non hanno mai fatto nulla di male e non ne meritano alcuno. Jotaro strattonò con forza la mano della moglie e la tirò verso di sé, stringendola in un abbraccio goffo e brusco. Rosanna sorrise, e lo abbracciò a sua volta, appoggiandogli la testa al suo petto. Il suo cuore andava a mille, il suo battito era veloce e le sue braccia tremanti. Non aveva mai visto suo marito in quello stato.
Sapeva poco del suo passato, Jotaro non era mai stato un uomo socievole ed espansivo, ma quando si veniva a parlare del suo viaggio verso l’Egitto, avvenuto alla fine degli anni ottanta, diventava ancora più scorbutico e introverso. Aveva tante cicatrici che ricordavano quel tremendo momento nella vita di suo marito. Non ne volle mai parlare, accennò solo, di tanto in tanto, di quella strana combriccola che lo accompagnarono da Tokyo al Cairo. Un francese, un certo Polnareff, con cui ogni tanto ancora si sente, suo nonno Joseph e altri tre sconosciuti personaggi, di cui ha solo sentito ogni tanto nominare i loro nomi. Non ne volle mai parlare. Rosanna giunse alla conclusione che fossero morti in quel viaggio, e lui, ancora solo un ragazzino, ne rimase profondamente shockato. Erano suoi amici, persone con cui aveva passato bei e brutti momenti, esperienze che non ha mai dimenticato, visto cose che nessun diciassettenne dovrebbe nemmeno immaginare.
Jotaro si slacciò con fretta da quell’abbraccio che valeva davvero tanto e se ne andò, senza aspettarla.
Rosanna ne era comunque felice, di quella lieve dimostrazione di affetto. Sul viso spigoloso e serio del marito era difficile scorgere emozioni, era difficile anche solo interagire con lui, ma erano questi piccoli momenti, questi gesti tanto banali, che le facevano davvero capire quanto lui soffrisse, quanto fosse davvero vivo sotto quella spessa scorza di durezza e seriosità. E quanto lui l’avesse amata in tutti questi anni difficili.
Non le aveva spiegato molto di quegli anni in cui lasciò lei e la loro figlioletta da sole, ma a sentire Jolyne e i vari parenti di Jotaro, erano avvenute gravi faccende da cui lui proprio non poteva sottrarsi. Era questione di vita o di morte, a quanto pare. Vedendolo col viso sfregiato e l’occhio cieco, quella sera di marzo del 2012 all’ospedale di Orlando, capì. E imparò che anche lui ci aveva sofferto, che anche lui era una vittima di quello strano destino che sembrava accompagnare tutta quella bizzarra famiglia.
Jotaro e Rosanna salirono sull’auto e Holly, seduta sul sedile posteriore, si staccò dall’abbraccio con Jolyne ed Emporio. Le bastò uno sguardo al viso del figlio per tornare a farsi forza, e a smettere di piange disperatamente come aveva fatto dall’inizio del funerale fino a quel momento. Jotaro stava soffrendo così tanto, e lei doveva essere forte per lui. Se non lo era la sua mamma, chi lo sarebbe stato? Suo figlio era forte, era un omone grande e grosso, adulto e responsabile, ma era pur sempre il suo bambino, e lo avrebbe protetto e sostenuto per tutta la sua vita. Strinse la mano a Jolyne e la guardò con un sorriso dolce e gli occhi tutti gonfi, sicura di sé e più serena di prima.
-Papà se n’è andato felice, lo so. Voleva un bene dell’anima a Shizuka, e di sicuro non avrebbe voluto morire in solitudine e senza fare scalpore. Voleva andarsene in grande stile, eh beh, l’ha fatto.-
Jotaro non disse nulla, in risposta alla madre. Continuò a guardare dritto avanti a sé, a ripercorrere quella strada che ormai aveva percorso troppe volte, dal cimitero all’aeroporto. Due luoghi che ha sempre odiato, ma che sono sempre stati collegati. Non voleva rispondere, non avrebbe nemmeno saputo che dire. Era vero. Suo nonno si sapeva sempre far notare, e ce l’aveva fatta.
Joseph, con quel gesto, aveva fatto capire che non se n’era andato. C’era ancora, ed era in tutti loro: i suoi insegnamenti, la sua allegria, la sua intelligenza, o semplicemente il suo sangue.
Erano una famiglia, erano tutti collegati da quell’unico destino che derivava dalla famiglia Joestar. Che si chiamassero Kujo e vivessero a Miami, o Higashikata e fossero di Morioh, erano tutti un’unica stirpe, avevano tutti una storia in comune e un grandioso futuro ad attenderli.
L’anziano Joseph, con le ultime forze che gli erano rimaste, fece in modo che lo capissero. Erano tutti insieme, tutti sulla stessa barca, che fosse la sua discendenza lineare o la famigliola del figlio bastardo d’oltreoceano. E Jotaro questo messaggio lo recepì, come recepì quello di ventotto anni prima sullo stand di Dio.
Jotaro ringraziò suo nonno e spinse il piede sull’acceleratore, più sicuro di sé e della causa per cui stava combattendo, e assieme a sua madre, sua moglie e i suoi figli, si diresse verso l’aeroporto che li avrebbe condotti in Italia, a raggiungere i parenti.





There must be some mistake, 
I didn't mean to let them take away my soul
am I too old, is it too late? 
The Show Must Go On, Pink Floyd (The Wall, 1979)
 
Note dell’autrice
Ed eccomi di nuovo qui! Dopo più di un mese di pausa… Mi scuso tantissimo per il ritardo, mi rifaccio con un bel capitolone di feels! Vi avverto, non aggiornerò più molto spesso, forse una volta al mese… i capitoli si faranno decisamente più lunghi e pregni di azione e sofferenza, e… sì. Sono una persona orribile.
Odiatemi pure, ne avete tutte le ragioni.
Ci vediamo al prossimo capitolo, ocn i Kujo che arrivano in Italia ad aiutare gli Higashikata e gli Hirose, per cercare di far collaborare questa tremenda e testarda Zeppeli…
Un bacione a tutti, grazie per avermi seguito fino ad ora!
   
 
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