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Autore: Aleena    02/12/2015    1 recensioni
Dal testo: "Sapevo che non sarei potuta rimanere li. La nave-madre doveva aver ricevuto comunicazione dell’incidente quasi immediatamente dopo che si era verificato: non avrebbero mandato navi di soccorso, perché con un disastro di tali proporzioni non ci sarebbe stato niente da recuperare.
Perfino io lo sapevo.
Ma i figli di Gaia... loro avrebbero sentito e sarebbero accorsi. E se mi avessero trovata...
Correvano voci sulla mania dei terrestri di sezionare tutto quello che arrivava dallo spazio. Io ero disarmata e sola, adesso, ma dopo essere sopravvissuta per puro miracolo non volevo finire su un tavolo operatorio, aperta ed esposta come una rana per il loro divertimento.
"
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2a Classificata contest "Romeo e Giulietta: un amore impossibile" indetto da Aurora_Boreale_ sul forum di EFP
4a Classificata al contest "Una domanda a te e una a me." indetto da grazianaarena sul forum di EFP
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La stirpe di Agena
 
 
 
Is this the dawning of a vacant age
I'm turnin over to a ripped up page
You look around with every step you take
'Cos someone's watchin every move you make

 
E' l'alba di un'era vacante
Sto superando la pagina strappata
Ti guardi attorno ad ogni passo che compi
Perché qualcuno controlla ogni mossa che fai


(Every Day, Planet Funk)
 
 
 
 
 
 
 
Provincia di Mira, 5° di Veldor,
23/10/2289

 
La mia residenza temporanea divenne la mia seconda casa.
Rimasi alla base e mi fu dato l’ordine di occuparmi di Alexei: dovevo monitorare i parametri vitali e la risposta d’adattamento dell’organismo, oltre alla funzionalità dell’arto meccanico... E quanto era affascinante vedere quelle dita scheletriche, aliene e metalliche, contrarsi all’ordine della mente di Alexei!
Era come osservare la nascita di una nuova stella.
Un momento unico.
Cominciai a seguire Alexei un po’ ovunque, monitorandolo. Annotavo su un tablet i parametri vitali e nella mia mente le mappe e gli schemi che vedevo nelle stanze degli ufficiali, abbassando la testa con tutta la modestia di cui ero capace. Una spia perfetta.
Alexei si stancò presto di fingersi un corteggiatore romantico e tornò a essere il militare freddo e cinico che era sempre stato. Dal canto mio ero sollevata: ora, quando si avvicinavano, potevo respingere le sue mani con violenza invece che dover subire passivamente. Un bel passo avanti.
Dopo sette mesi di Alexei non sentivo quasi più parlare. Poco male, a dire il vero: in quel periodo la maggior parte delle sue missioni era al fronte, lungo la linea di terra che delimitava la zona di estrazione mineraria; io, d’altro canto, avevo ormai il mio pass e potevo entrare nella caserma a mio piacimento.
Alexei non mi serviva più.
Facevo parte di un nuovo team, per giunta: non più in veste di direttrice, come anche io ritenevo ovvio, ma con mansioni di comando minori e un piccolo stuolo di assistenti. Cercavamo di implementare le funzioni dei bracci meccanici e nuove cavie su cui impiantarli – soldati che avrebbero trasformato le loro menomazioni in armi dalle molteplici funzioni.
La mia testa, allora, era piena di idee meravigliose: tutte le implicazioni potenziali di questa tecnologia, unita alle mie conoscenze Hadar, mi facevano passare notti in bianco, a disegnare schemi che avrei tenuto per me.
Non volevo arrivare al punto di creare armi per i miei nemici.
Per mantenere il mio posto, tuttavia, dovevo pur contribuire alla ricerca; e sarebbe assurdo dire che non ero orgogliosa del mio lavoro, o che non ne prendessi i meriti. Dopo un anno e mezzo dal mio arrivo avevo abbastanza familiarità con gli ufficiali devoti al progetto che cominciai a suggerire la creazione di un corpo militare scientifico, che avrebbe avuto il compito di condurre la terra alla vittoria. Ne ottenni una divisa, dello stesso blu del linoleum negli ospedali, così assurdamente simile a quella da Capitano che, un tempo, avevo indossato su Agena, da farmi accarezzare l’idea di comprare una lama e legarla al fianco sinistro.
Non lo feci, ovviamente: era inutile. E, in ogni caso, bastava la divisa a farmi sentire quell’unità che amavo.
Casa.
Familiarità.
Nessun Hadar poteva resistere a questi richiami.
Nessuno può nemmeno ora, vero? È la nostra debolezza, amare troppo il nostro mondo buio.
Osai troppo. Feci il passo più lungo della gamba e, da superficiale, divenni essenziale. Quanto mi ero ripromessa di evitare quella linea? Di starne lontana il più possibile? Tanto. Ma la giovinezza è anche questo: audacia. E, se di qualcosa ero satura in quel periodo, era la fiducia in me. Fu così che, quando la fase tre della nuova sperimentazione fu approvata, la lista dei candidati per l’impianto fu arricchita del mio nome.
Era logico, scontato quasi; ero una ragazza nel fiore degli anni che sembrava non voler invecchiare, forte e intelligente, frenata solo dal proprio corpo: perché non avrei dovuto essere completata? E chi, meglio di me, avrebbe potuto offrire un resoconto sulla funzionalità dell’apparecchio? Sapevo cosa aspettarmi che facesse, d’altronde.
Sentii ripetere questo concetto per giorni dai miei colleghi e superiori, che cercavano di calmarmi e convincermi a dare il mio consenso; che mi invidiavano; che mi pregavano di farlo di mia spontanea volontà, perché sarebbe stato peggiore finire sotto i ferri da prigioniera.
Non mi importava, dissi; non lo avrei fatto. Non diedi altre spiegazioni, mi limitai a gridare e protestare.
Come potevo dirgli che temevo quel che avrebbero scoperto?
Mi lasciarono parlare, mi fecero sfogare e cominciarono a preparare la protesi, usando le misure standard che io stessa avevo calcolato. Lo fecero dietro le mie spalle, ma non potevano nascondersi, non quando io avevo tutte le loro password celate nei ricordi. E quando capii che non avrei potuto uscirne, decisi di fuggire.
Avevo tutto quello che mi serviva da tanto tempo, ormai; e il come avessi potuto rendermene conto solo mentre strisciavo fuori dalla base militare resta una fonte di vergogna per me. Mi stavo mentendo, mi illudevo: amavo quel lavoro, ma cosa credevo? E di che tradimento mi ero macchiata?
Non ero umana, né avrei mai potuto esserlo.
Oh, per l’Universo, quanto vorrei ridere adesso! Se non stessi così male, lo farei. L’ironia di quel pensiero mi ferisce ogni volta, nonostante gli anni.
Ero...
Beh, ero in strada, alla fine. Con niente altro che una divisa blu e la paura che martellava nel petto, facendo a gara con l’euforia, nel tentativo di causarmi un attacco di cuore proprio mentre ero a un passo dalla libertà.
Avrei aspettato. Ricominciato. C’erano altre città a Nord, altre case, altre persone da spiare...
Scivolai per le strade deserte con tutta la sicurezza che avevo, passando inosservata proprio per questo; e infine fui alle porte di Taraz, spalancate sulla lunga via del deserto. Uscì dalle ombre fresche della roccia salutando una guardia, che ricambiò con un’occhiata distratta alla divisa che, lo sapevo, di lì a qualche ora gli sarebbe costata il lavoro.
E mi trovai a fissare il volto sorridente di Alexei, mentre il bagliore metallico del sole sul fucile puntato alla mia testa mi feriva gli occhi. 


Orbita di Mira, 5° di Veldor,
23/10/2289

 
 
«L’idea è questa, ragazzina» attaccò Alexei, distendendosi sulla piccola sedia di metallo e allungando i piedi sul tavolo di legno graffiato che faceva da scrivania. «Io ti riporto indietro sana e salva e tu smetti di fare i capricci, oppure ti lego come un salame e ti chiudo in una cantina finché non ti ammorbidisci un po’.»
Io mi mossi, a disagio. L’ufficio della guardia di perimetro era caldo da impazzire, e la ventola che girava pigramente sul soffitto col suo sibilo contribuiva solamente ad aumentare il fastidio. Io ero a terra, il braccio immobilizzato alla parete da una catena: una mossa che mi metteva in ridicolo più di quanto il mio orgoglio poteva sopportare. Avrei gridato se solo non fosse stato controproducente: la mia gola era già in fiamme per la sete.
«Potresti lasciarmi andare» obiettai, cercando di assumente lo stesso tono sereno e distaccato che aveva Alexei.
«Ho degli ordini» ribadì lui, imbastendo un sorriso che voleva essere di dispiacere e che sembrava solo di feroce soddisfazione.
«Hai un braccio nuovo perché io te l’ho fatto impiantare. Direi che mi devi di più di una risposta da manuale» sbottai io, strattonando il gancio che mi legava il polso.
«Ho un braccio obsoleto che tu hai montato, è vero. Ma avrei trovato qualcun altro, prima o poi. E, se ti lascio andare, pensi che il mio nome sarà ancora nella lista degli aggiornamenti?»
«Molto cavalleresco da parte tua, vendermi per un’arma più grande. Non ti fa molto onore» sibilai, cercando di fargli arrivare tutto il mio odio. Avevo gli occhi umidi e una rabbia nel cuore che, lo sapevo, non fossi stata legata mi avrebbe dato la forza di soffocare quel sorriso.
«Che cazzo di problema hai?» sbottò a sua volta Alexei, piantando i piedi a terra e allungando il busto verso di me. «Ogni persona sana di mente darebbe tutto ciò che possiede per avere quello che l’esercito vuole regalarti e tu ci sputi sopra. Tu! Con tutti i tuoi talenti... potresti diventare il capo di quella fottuta squadra di scienziati da quattro soldi e invece lasci che la tua menomazione vinca, lasci che gli altri ti scavalchino solo per paura di...»
«Credi che abbia paura di mettermi in mostra? È grazie alla mia vanità se ora tu sei qui invece che in un ufficio, senza un braccio e a controllare reclute. Io ho avuto il coraggio di mettermi in gioco per te! E tutta la tua rabbia...»
«Oh non osare nemmeno pensarci, carina. Io ho tutto il diritto di arrabbiarmi come e quanto cazzo mi pare. Io...»
«Tu hai il tuo braccio e nessuno te lo toglierà. Io ho il diritto di non volerlo e tu non dovresti prenderla così sul personale!» a quel punto gridavamo entrambi, a meno di venti centimetri l’uno dalla faccia dell’altra e tesi come onde di un theremin.
«No? Ma certo. Tu sputi su quello che io ho combattuto per avere, sulla ricerca per cui ho rischiato la mia carriera e la mia vita. Tu sputi sul mio cazzo di sogno, per la miseria!»
«Io non voglio essere una cavia. Non voglio essere un mostro di metallo solo per...» e mi bloccai, improvvisamente consapevole di avere una lama nella mano della mia voce, un arma puntata dritta al suo cuore. Potevo colpirlo, ma cosa ne sarebbe stato di me, poi?
«No, ora lo dici. Voglio sentirlo o giuro che ti trascino fuori di qui a calci in culo e ti faccio operare questa sera stessa. Da sveglia, così potrai vedere ogni secondo della tua trasformazione in un mostro» Alexei mi afferrò entrambe le spalle e, stringendo, mi spinse contro il muro. Piantò la sua faccia rossa e ferita davanti alla mia, riempiendomi il naso del nauseante odore di Gaia.
«Non è un giudizio per te, dannazione! Non tutto quello che le persone dicono ruota intorno al Colonnello Alexei Rubjakov!» cercai di sviare il discorso verso altri lati del suo orgoglio, ma ormai ero andata troppo oltre. Lui mi tirò a sé e mi spinse contro il muro ancora una volta, facendomi sbattere le scapole e la testa. Ansimai, e lui ripeté il gesto ancora una volta, gridando.
«Che stavi per dire? Parla!»
«Che non voglio diventare qualcosa che non amo solo per paura di non riuscire a farcela con quello che ho. Io sono più forte della mia menomazione. E sono in grado di vivere una vita grandiosa anche senza un braccio. Lo capisci?» gli gridai in faccia, aggredendolo con la mia rabbia. «Capisci che accettare di passare sopra a quello che voglio, alle mie idee, sarebbe come ammettere che, dal giorno in cui ho perso il braccio, non sono stata altro che uno scarto debole e inutile? Che non ho il coraggio di rimboccarmi le maniche e rialzarmi e vivere con quello che ho? Lo capisci che il tuo sogno è un incubo per me, Alexei? Perché io sono più forte di te! E non lascerò che loro... che tu... mi sbattiate in faccia il fatto che per essere migliore devo diventare come voi mi volete. Tu sei scivolato sempre più in basso dal giorno in cui hai avuto l’incidente, io mi sono sollevata dalla polvere e dalla miseria, l’ho fatto con un braccio solo e continuerò a cavarmela egregiamente anche senza l’altro!» a quel punto mi resi conto di averlo spinto due volte, violentemente, e di esserae tesa al limite della possibilità che la catena al polso mi offriva.
«È sempre bello sapere quello che gli altri pensano di te» Alexei attese che l’eco delle mie parole si spegnesse prima di parlare, passandosi una mano chiusa a pugno sul volto e poi lisciandosi i capelli da una parte, alla ricerca di un contengo che non sembrava più avere.«Beh, questo debole schiavo del sistema sta per portarti dai suoi superiori e venderti per un braccio nuovo. Non sarà virile o eticamente bello, ma sai che ti dico? Me ne fotto! E sarò in prima fila mentre verrai operata» allargò le labbra in un sorriso feroce, un ghigno da bestia selvaggia. «Non vedo l’ora che anche tu provi cosa vuol dire tornare a essere completi. E quando succederà, quando ti vedrò scendere da quel maledetto piedistallo, sarò lì ad aspettare le tue scuse. Condite con una bella notte di sesso, magari. Non servirà nemmeno un invito: i capoccioni avranno sicuramente il tuo indirizzo. E poi vedremo se ti farò ancora così tanto schifo» mi disse, allungando la mano metallica al mio basso ventre e carezzando con violenza.
Io mi ritrassi, la testa che pulsava al ritmo della mia rabbia. Sentivo la mano fantasma contrarsi e stringersi attorno al suo collo, scavare fra pelle e tendini fino a lacerarli e restare immobile, godendosi la rigenerante sensazione della vita che scorreva via da lui.
Non è detto che non succeda, disse una voce primordiale e feroce dal fondo della mia coscienza.
Io annuì, convinta.
Se fosse entrato in casa mia, l’avrei ucciso.
A meno che non ne avessi l’occasione prima.


Orbita di Mira, 5° di Veldor,
23/10/2289

 
Alexei mi fece rinchiudere davvero in uno scantinato. Ricordo l’umidità fredda, il modo in cui serpeggiava dal pavimento fino al collo, arrotolandosi sulla spina dorsale come un animale feroce. Ricordo che piansi, sbattendo i pugni su pareti che sapevano di muffa e polvere, supplicando di essere liberata. Ricordo che pregai Agena di perdonarmi, e sentii la voce di mio nonno ripetermi che me l’ero cercata, che chi troppo vuole nulla ottiene.
Un proverbio decisamente troppo umano per i miei gusti, ma tant’era.
Poi mi calmai. Accettai di star per morire e attesi, certa che quella era solo la fine a cui ero scampata senza diritto anni addietro. Chiusi gli occhi e dormii, allora, l’animo sereno come raramente mi era capitato da molto tempo.
Fu Alexei a svegliarmi. Mi scosse senza tante cerimonie e allungò la mano di metallo verso di me, frullando appena le dita per mettermi fretta. Io non mi mossi, limitandomi a fissare il suo volto che, per la prima volta, tradiva agitazione e incertezza.
«Sei in ritardo» gli dissi semplicemente, accennando alla stanza e poi a me con fare teatrale. «Ormai sono in pace con l’inevitabile.»
«Lo dici come se, invece di aiutarti, ti stessimo condannando a morte» sbottò lui, afferrandomi per il bavero dell’anonima divisa da lavoro blu e sollevandomi in piedi senza tante cerimonie.
«In un certo senso è così» risposi io, calma, guardandolo interrogativa.
«Prima o poi dovrai fare qualcosa per il tuo orgoglio. E la tua testardaggine» Alexei prese ad armeggiare con un mazzo di chiavi dall’aria pesante.
«State per pensarci voi, no?» ancora calma, divinamente rassegnata. Senza alcuna emozione.
«No» sibilò, trovando infine la chiave giusta.
«Che vuol dire?»
«Ho parlato con Aibek. L’ho convinto che, in fondo, non sei una buona candidata. Gli ho esposto la tua teoria e il caro Generale ha detto che poteva capire. Lui, che non ha mai perso nemmeno un’unghia in battaglia. Ridicolo. E hai cercato di fuggire. Chi ci da la certezza che, un giorno, non deciderai di farlo di nuovo? Quella meraviglia potrebbe finire nelle mani di qualche alieno. O di qualche stato che comincerà a commerciarla prima di noi. O potresti semplicemente sbarazzartene, il che vorrebbe dire tanti soldi sprecati. Saresti in grado di operati da sola, immagino, e sei abbastanza instabile da farlo» Alexei mi liberò dalle catene e mi si piantò davanti, guardandomi con un misto di astio e vergogna talmente genuino da ferirmi. «La verità è che non te lo sei meritato. E anche io sono una persona orgogliosa! Non mi sono sbattuto tanto per regalare perle ai porci.»
«Quindi?» domandai io, cominciando di nuovo a sperare.
«Quindi ti porto a casa e ti riprendi. Hai tre giorni, trascorsi i quali devi presentarti al lavoro. Comincerai a montare i bracci a, le gambe e le mani nuovi candidati da mercoledì prossimo. E, nelle pause, dovrai parlare con uno strizzacervelli. Quelli di sopra hanno paura che prima o poi darai di matto, altrimenti.»
«E finisce così? Niente punizioni, niente sanzioni, niente di niente?» non potevo crederci, era fuori da ogni logica. Nessun soldato, su Agena, avrebbe potuto sottrarsi a un’ordine di un superiore e restare illeso.
«Benvenuta nel mondo degli eletti e degli indispensabili. Abituati con cautela, il potere dà dipendenza» Alexei sorrise di nuovo, questa volta con una traccia di quella vecchia audacia che era sua. Si fece avanti e mi spinse contro la parete con il suo corpo, senza violenza questa volta,  intrappolandomi fra lui e il muro. Le sue labbra scesero verso il mio orecchio e la sua mano di carne mi si posò su un fianco, stringendo. «Se però dovessi ancora sentire il bisogno di essere punita, ragazzina, sarò più che felice di farlo. Ripetutamente» sussurrò, quasi toccandomi il volto con la bocca. Poi si ritrasse quel tanto che bastava per spingermi avanti, la mano ora sulla schiena.
Non si staccò mai veramente da me, ma non ci feci caso.
Nessuno aveva mai lottato perché io avessi quello che volevo, prima. Nessuno si era mai esposto così tanto per un mio capriccio.
Con un gesto, Alexei era diventato una persona diversa per me. E, per la prima volta, non provai ribrezzo nel contatto con un essere umano. 

 

 

 
Piccolo spazio-me: i credits > Pinterest

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