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Autore: Curiosity    07/12/2015    4 recensioni
“Sarebbe stato davvero così orribile, Will? Venire via con me?”
.
AU post Mizumono (2x13). Dopo che Hannibal lascia Will a dissanguarsi sul pavimento quest’ultimo cade in depressione e non lo insegue. Ritrovare la strada che porta all'altro non è semplice come sembra. Che sapore ha un cuore spezzato?
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Hannibal Lecter, Will Graham
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Note: Se qualcuno di voi ha mai letto Watchmen riconoscerà le risposte di Will al test di Rorschach come quelle dell’omonimo personaggio del fumetto (che se non avete letto vi consiglio caldamente). “Mawmaw” in dialetto Cajun significa “nonna”, “tee-do” sta per “piccolo”.

Even Lovers Drown

di Curiosity

3. I’d Kill To Take Your Place


“I have dreamt in my life, dreams that have stayed with me ever after, and changed my ideas;

they have gone through and through me, like wine through water, and altered the color of my mind.”

                                                                                                                (Catherine Earnshaw - Wuthering Heights)

Will si ricordò di ricominciare a respirare solo quando sentì i polmoni dolergli per la mancanza d’ossigeno. Hannibal lo fissava da un angolo del suo salotto, nient’altro che uno scherzo beffardo della sua mente provata.

Dove sei stato tutto questo tempo?, avrebbe voluto urlargli in faccia, ma non lo fece. Più di tre mesi erano passati da quando era uscito dall’ospedale, cinque da quella fatidica notte. Cinque mesi in cui i suoi interlocutori erano stati solo i fantasmi delle persone che aveva visto morire - Abigail, Beverly, Hobbes… era la prima volta che Hannibal gli appariva. Aveva temuto e bramato quell’istante più di ogni altra cosa al mondo.

“Cosa sei? Un’altra allucinazione?”, chiese Will, tentando di dare un senso all’apparizione dell’uomo di fronte a sé.

“Potrei essere perfettamente reale.”

Will avrebbe voluto complimentarsi con la sua mente per l’accuratezza con cui stava riproducendo la voce di Hannibal, dal timbro profondo al leggero accento europeo che toccava le sue parole.

“No. Conosco la differenza tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Sei solo un’ombra partorita dalla mia mente, come Abigail e Beverly, ma non c’è alcun motivo per cui dovrei vederti. Non provo alcun senso di colpa nei tuoi confronti.”

Hannibal abbandonò il suo angolo e si mosse lentamente verso di lui, con la grazia felina che aveva sempre contraddistinto anche il suo corrispettivo reale.

“Ne sei così sicuro?”

“Sei un assassino. Ti meritavi ben di peggio di ciò che ho fatto”, sibilò a denti stretti.

“E tu? Meritavi il male che ti sei fatto per ingannare me?”

“Non so di cosa tu stia parlando.”

Hannibal abbassò lo sguardo sulla pozza di tè ai piedi di Will, per poi tornare ad osservarlo con un mezzo sorriso.

“Sento l’odore dell’alcool da qui, Will. Più che un tè credo che quello si potesse definire del whiskey annacquato con teina.”

“Non sono affari tuoi”, sputò l’altro, uscendo finalmente dal momento di immobilità e afferrando uno degli strofinacci della cucina per cercare di rimediare a quel disastro.

"Come ti sei sentito, Will?”, continuò Hannibal come se nulla fosse. “Dopo tutto l'impegno che avevi impiegato nell'ingannarmi, alla fine i tuoi sforzi sono stati vani. Si può dire che tu ti sia scavato la fossa da solo, la tua e quella di Abigail. Pensavi davvero di potermi battere al mio stesso gioco?"

Will non rispose, andando ad inginocchiarsi con una smorfia di dolore e iniziando ad asciugare e raccogliere frammenti di porcellana, la gola improvvisamente tanto stretta che gli veniva difficile deglutire.

"Ma forse è quello il punto, vero?”, continuò l’altro, prendendo a girargli lentamente intorno come un lupo che ha puntato la preda. “Una volta iniziato a giocare smettere è impossibile. Ti sei addentrato tanto a fondo nella mia mente per ingannarmi che ancora hai difficoltà a venirne fuori."

“Basta, smettila.”

"I tuoi amici all’FBI sanno quanto ardentemente saresti voluto venire con me? Hanno una minima idea di quanto tu ti sia pentito di non averlo fatto?"

“HO DETTO BASTA”, urlò, lanciando ciò che rimaneva del manico della tazzina contro l’altro, che lo schivò con eleganza come se sapesse benissimo che lo avrebbe fatto. Così era, si ricordò Will. Non doveva ingannarsi a pensare che Hannibal fosse veramente lì, o sarebbe stata la fine.

Hannibal lo fissò in silenzio, e Will fece altrettanto, come sperando che la forza del suo sguardo avesse il potere di farlo scomparire. Il suo respiro pesante, rabbioso, era l’unico rumore che spezzava il silenzio della casa.

“Te ne sei andato. Mi hai lasciato alle spalle. Non hai alcun diritto di perseguitarmi”, disse a denti stretti.

Hannibal sorrise, orribilmente sornione.

“Ti sbagli, Will. Sono l'unico che ha il diritto di farlo.”

Will non rispose, dandogli le spalle e finendo di pulire con gesti bruschi il pavimento. Con qualche difficoltà si alzò e gli passò accanto per tornare in cucina, senza nemmeno degnarlo di uno sguardo.

L’altro lo seguì, appoggiandosi allo stipite della porta mentre Will gettava i cocci nell’immondizia. Poteva sentire il suo sguardo addosso come una lama di pugnale conficcata nella schiena. Se c’era una cosa che si poteva dire di Hannibal Lecter, reale o meno, era che averlo intorno avrebbe inevitabilmente finito per fare male. Fece di tutto pur di ignorarlo, mettendosi perfino a lavare la montagna di piatti sporchi che giaceva abbandonata nel lavello da quando aveva smesso di ricordarsi di dover mangiare.

“Mi manchi, Will.”

Il piatto che stava lavando quasi gli sfuggì di mano, e Will fu costretto a fermarsi, appoggiando le mani sul bordo del lavandino e abbassando la testa con un sospiro profondo.

“Tu. Non sei. Reale!”, esclamò esasperato, tornando finalmente a voltarsi verso di lui, passandosi le mani sul viso come se potesse aiutarlo a svegliarsi da quell’incubo. “Non so nemmeno perché ti sto rispondendo! Anche quello che hai appena detto, non sei tu a dirlo, è solo-”

Si interruppe di colpo, chiudendo gli occhi e scuotendo la testa.

“...è solo quello che vorresti sentirmi dire se fossi qui”, concluse Hannibal per lui.

Will rise con una nota di disperazione nella voce.

“Mio dio, sto davvero impazzendo.”

Lasciò la cucina, o per meglio dire fuggì, sperando che l’altro magicamente scomparisse, ma ovviamente non fu così fortunato e lo sentì seguire i suoi passi nuovamente in soggiorno.

“Ti ho lasciato il mio cuore, Will.”

Will si bloccò a quelle parole. Sì, l’aveva fatto. E quella non era stata un’allucinazione. Suo malgrado lanciò uno sguardo allo schermo della tv ancora accesa, dove ora erano passati a parlare di sport. Non importava. L’opera di Hannibal era come impressa a fuoco nelle sue palpebre, così come il messaggio contenuto in essa.

Mi hai tradito. Mi hai spezzato il cuore, ma ti perdono. E’ qui, l’ho lasciato per te, nel luogo che è al centro della mia mente così come lo sei tu. Accettalo. Vieni da me.

Si voltò appena, scoprendo che l’uomo si era fatto incredibilmente vicino e lo guardava ora con l’intensità che aveva sempre contraddistinto anche il suo io reale, come se il profiler catturasse completamente la sua attenzione. Will allungò la mano, quasi aspettandosi che Hannibal si sarebbe dissolto nell’aria. Il suo palmo invece si posò su una forma solida, ingannevolmente reale, non fosse stato per l'assoluta immobilità di quel petto vuoto. Nessun cuore ad animarlo, non dopo che era stato lasciato per lui sotto le volte della Cappella dei Normanni. Come un dono.

O come un modo per rinfacciargli chi da quel petto lo aveva strappato.

"Ti appartiene, adesso. Cosa hai intenzione di farne?", chiese Hannibal. "Lo mangerai?"

Gli occhi di Will restarono fissi sul punto in cui la sua mano spiccava contro il nero della camicia del fantasma che per mesi aveva temuto e sperato che arrivasse a perseguitarlo. Non lo aveva mai visto indossare quel colore.

"Nei miti anglosassoni quando un estraneo appare lungo la strada dei viandanti e offre loro del cibo è sempre una pessima idea accettarlo”, disse a bassa voce. "Nessuno scampo per chi cede alle lusinghe della propria fame."

"E' questo che senti? Di non avere scampo?"

"Sento che se accettassi dovrei restare con te per sempre".

"E allora resta".

Will scosse la testa, abbassando la mano e ponendo fine ad ogni contatto tra loro.

“Non ho più nulla da darti. Mi hai portato via tutto ciò che avevo.”

“Ti ho portato via una vita che non ti si addiceva, una vita fatta di menzogne e inibizioni”, ribatté Hannibal. “Se solo avessi accettato ciò che ti offrivo, se solo avessi seguito il tuo cuore e non ti fossi lasciato fermare dal tuo timore delle conseguenze, ti avrei dato molto più di ciò che ti ho tolto.”

“Una vita da burattino, mosso eternamente dai tuoi fili.”

“Una vita da mio eguale. Puoi mentire a te stesso ad alta voce se ti fa sentire meglio, ma sai che sarebbe stato così. Tu ed io, e nessuna regola umana o divina a fermarci. Ma no, invece. Hai dovuto distruggere entrambi con quella debolezza che chiami virtù.”

L’uggiolare dei suoi cani alla porta lo distrasse dalla risposta rabbiosa che gli avrebbe sputato contro, e quando tornò a voltarsi dopo averli fatti entrare Hannibal era sparito.

Will tirò un lento sospiro di sollievo. Si avvicinò al letto che teneva in soggiorno e vi crollò sopra, improvvisamente esausto. Winston lo osservava dai piedi del letto, come avvertendo che c’era qualcosa che non andava. Allungò una mano verso di lui e il cane si avvicinò, finendo per saltare sul letto e accoccolarsi accanto a lui. Ben presto anche gli altri fecero lo stesso, e Will si addormentò avvolto dal calore delle loro pellicce e cullato dai loro respiri affannati.

*

Will odiava le sedute psichiatriche.

Le aveva odiate fin da quando non era ancora abbastanza adulto da rendersi conto del perché ogni settimana suo padre lo accompagnasse dal dottore a parlare, quando ancora credeva che fosse perfettamente normale per i bambini avere uno psichiatra e prendere le medicine da lui prescritte. I suoi compagni di scuola gli avevano insegnato che così non era a suon di pugni e calci, urlandogli cose come “stramboide” e “scherzo della natura” nelle orecchie.

L’intera premessa dell’analisi psichiatrica era per lui un’enorme fonte di frustrazione. Il compito dello psichiatra era quello di far credere al paziente di essergli vicino emotivamente, di essere lì per ascoltarlo e supportarlo, quando in realtà ogni seduta era solo una serie di imboscate analitiche in cui ogni segreto era carpito con parole falsamente gentili o con manipolazioni mirate a far reagire il paziente in un certo modo. Nel migliore dei casi, lo psichiatra era un perfetto, distaccato bugiardo; nel peggiore, un incompetente che voleva solo sondargli il cervello per soddisfare la propria curiosità. In entrambi i casi l’empatia di Will era in grado di discernere subito di quale tipo di analista si trattava.

Nel caso di quello seduto di fronte a lui in quel momento, del secondo.

“Signor Graham, ora le mostrerò una serie di immagini, in ognuna delle quali vedrà una macchia d’inchiostro simmetrica. Vorrei che le guardasse e che mi dicesse a cosa pensa che somiglino, d’accordo?”

Will si trattenne a stento dall’alzare gli occhi al cielo. Dopo essere stato dimesso dall’ospedale l’FBI gli aveva assegnato d’ufficio uno psichiatra, come da prassi. Will aveva inviato le proprie dimissioni da agente speciale il giorno stesso, allegando una lettera in cui sottolineava come, non essendo più in alcun modo legato al bureau, non aveva più senso che ne seguisse le procedure e rinunciava perciò allo strizzacervelli gentilmente offerto. L’ospedale che lo aveva avuto in cura aveva allora inviato due dottori per tentare di convincerlo ad entrare in terapia dal momento che era stato accertato che aveva subito un trauma psicologico, e Will era riuscito a disfarsene solo dopo aver loro sputato in faccia ogni singolo segreto scabroso o scomoda verità che era riuscito a leggere loro addosso, dall’infedeltà della moglie di uno alla propensione per le prostitute minorenni dell’altro. Quasi gli dispiaceva di non essere stato abbastanza cattivo da farli piangere.

“Proprio non vuoi andarci in analisi, eh?”, aveva chiesto il fantasma di Beverly, seduta accanto a lui sulle scale del portico di casa sua mentre insieme osservavano i dottori fuggire quasi a gambe levate.

“Non voglio nessuno a rovistare nella mia testa”, rispose a denti stretti.

“Nessuno tranne Hannibal, vuoi dire”.

Will per l’ennesima volta si chiese per quale motivo dovesse sottostare alle introspezioni non richieste dei fantasmi - che fantasmi non erano, ma era l’unica definizione accettabile che aveva trovato come alternativa al ben più preoccupante ‘allucinazioni’ -  scaturiti dalla sua testa. Non che gli dessero fastidio. Come i suoi cani, erano un modo come un altro per ingannare la solitudine, e averli attorno gli dava una sensazione di familiare sicurezza. Per lo meno finché non si mettevano a psicanalizzarlo.

“Se hai finito puoi anche andartene”, rispose, sapendo che tanto non l’avrebbe fatto. Non aveva alcun controllo sul loro andare e venire. Sospirò, sfilando un pacchetto di sigarette dalla tasca ed accendendosene una.

Beverly lo squadrò.

“Da quando in qua fumi, cowboy?”

Will trattenne la prima boccata finché non sentì i polmoni bruciare, quindi esalò una nuvola di fumo nell’aria fresca del mattino.

“Fissazione orale”, spiegò con voce piatta. “Abbastanza comune in casi di disturbo da stress post-traumatico con conseguente regressione della personalità. Mio padre fumava. Mi rifugio nella sicurezza di qualcosa di familiare e ripetibile all’infinito, a mia disposizione ogni volta che voglio. Freud lo chiamava anche cannibalismo. Cercalo su Google.”

“Hey, non metterti a fare il saccente con me, bel faccino”, rispose lei piantandogli un dito contro il petto. “Avrò anche lavorato per la scientifica, ma l’ho fatta anch’io l’accademia dell’FBI.”

Will alzò le mani in segno di resa.

“Scusa. Sono stato-”

-incredibilmente scortese, aveva concluso per lui la voce di Hannibal nella sua testa.

“...Quando sono stanco divento burbero”, riformulò alla fine.

“Sei fortunato che mi stai simpatico”, aveva mormorato Beverly in risposta. “Sicuro che un po’ di sana analisi non possa farti bene?”

Will aveva preso un altro tiro dalla sigaretta.

“L’ultima cosa che mi serve è un idiota che mi piazzi davanti una serie di macchie e che cerchi di estrapolare le tracce di un qualche fantomatico trauma infantile dalle mie risposte”, aveva sbottato.

Col senno di poi, di fronte alle suddette macchie sorrette dalle mani nervose del suddetto idiota, Will si pentì per l’ennesima volta di aver infine ceduto alle gentili pressioni di Alana e aver deciso di incontrare il maledetto psichiatra dell’FBI in via non ufficiale. In realtà il fattore decisivo era stato l’apparizione di Hannibal.  Sarebbe stato disposto a tutto pur di non ripetere l’esperienza, anche a tentare coi metodi pseudoscientifici di un imbecille.

“D’accordo, questa è la prima immagine”, disse quest’ultimo, apparentemente del tutto ignaro del disprezzo che Will provava per lui in particolare e per gli psichiatri in generale. “Mi dica cosa vede.”

Will trattenne l’impulso di spiegargli esattamente cosa pensasse della validità - presunta - del test di Rorschach, possibilmente usando il maggior numero possibile di epiteti coloriti di quelli che la sua educazione di figlio di un operaio del Sud gli aveva trasmesso. Fissò la macchia e scoprì di essere troppo irritato per concentrarsi. Immaginò invece di poter afferrare il fermacarte d’onice a forma di piramide che si trovava sulla scrivania di fronte a lui e di colpire con esso lo stimato professionista che credeva che bastasse un simile test per sbrogliare il groviglio di traumi, nevrosi e pessime scelte di vita che era Will Graham. In genere immaginare ciò che avrebbe fatto se solo avesse seguito la sua rabbia lo aiutava a calmarsi, ma quella volta non andò così.

Senza volerlo scivolò in uno dei suoi stati di immaginazione lucida, e si ritrovò col fermacarte in mano, a fissare gli occhi spenti e senza vita dello psichiatra dell’FBI, la presa sull’oggetto scivolosa per il sangue scaturito dallo squarcio che lui stesso gli aveva aperto nel collo e che ancora gli schizzava sangue arterioso addosso come pioggia scarlatta.

Se tu seguissi gli impulsi che hai così a lungo trattenuto…, sussurrò la voce di Hannibal dai recessi della sua mente, e per un attimo temette che gli si sarebbe materializzato accanto. Se li coltivassi come le ispirazioni che sono… diverteresti qualcosa d’altro da te stesso.

Will sbatté le palpebre un paio di volte e scoprì di non essersi mai mosso, ancora seduto sulla stessa poltrona di pelle, la presa stretta sui braccioli come se avesse paura di cadere e il medico che lo fissava pazientemente in attesa di una risposta.

Will si umettò le labbra.

“Una bellissima farfalla”, rispose con voce più naturale possibile.

Lo psichiatra lo fissò per un attimo, poi scribacchiò qualcosa su un foglio e passò all’immagine successiva. Questa volta Will si concentrò sull’immagine, cercando di evitare che i suoi pensieri gli sfuggissero nuovamente di mano.

La seconda macchia lo fece subito pensare a Margot. La parte nera assomigliava a un bacino umano, e quella rossa al sangue di un aborto forzato. Buffo che ogni singolo avvenimento cruciale della sua vita negli ultimi due anni fosse in qualche modo legato ad Hannibal. Non importava che fosse stato Mason Verger a fare materialmente in modo che quel bambino non venisse mai alla luce. Era stato Hannibal a versargli nell’orecchio il veleno del sospetto, a sussurrargli malignità come il serpente nel Giardino dell’Eden, e per quanto lo riguardava era altrettanto responsabile.

Sapeva quanto l’uomo avesse adorato portargli via ogni cosa, lasciarlo con nulla che non fosse lui. Aveva fatto sì che non gli restasse più niente. E, quando aveva finito di fargli terra bruciata intorno così che non potesse nemmeno sperare in un’esistenza normale senza di lui, Hannibal se ne era andato. Era partito, salendo su un aereo con Bedelia du Maurier verso una qualche meta lontana, verso l’Europa e tutto ciò che aveva da offrire. Come se nulla fosse. Come se Will non fosse nessuno, solo un'altra vittima dello Squartatore di Chesapeake, l'ennesima, ancora vivo solo per pura distrazione, indegno persino di essere trasformato in arte o in nutrimento.

Privo di valore.

Sostituibile.

Voglio solo ciò che è meglio per te, Will.

Bugiardo, bugiardo, bugiardo.

“Dei bellissimi fiori”, rispose a denti stretti.

L’uomo di fronte a lui lo squadrò per un attimo con l’aria di qualcuno che finalmente comprende che continuare sarà solo una perdita di tempo. Will sperò che quello bastasse a scoraggiarlo, a fargli interrompere la seduta, ma quello non era il suo giorno fortunato.

La terza immagine che gli venne mostrata sembrava contenere due figure imbrattate da schizzi di sangue. Will si costrinse a non pensare alla notte in cui aveva riversato le viscere nella cucina di Hannibal. Pensò invece a Bedelia, alla sua fuga, e si chiese se stesse uccidendo con lui adesso. Una volta aveva ammesso di essere stata indotta dall’uomo a commettere un omicidio. Hannibal era terribilmente bravo a fornire motivi validi per uccidere. Cercò di immaginarsi al posto di lei, al fianco del mostro che ancora popolava i suoi incubi e le sue ore di veglia, come un’infezione che non riusciva a debellare. Avrebbe ucciso con lui, se fosse stato al suo posto? Si sarebbe lasciato andare?

Pensò allo sguardo orgoglioso di Hannibal quando gli aveva portato il cadavere di Randall Tier, come un padrone orgoglioso a cui il gatto aveva lasciato i frutti della sua caccia.

Sollevò lo sguardo sull’uomo in attesa.

Ciò che vedo in quella macchia è me stesso come sarei potuto essere. Come sarei dovuto essere. Libero, disinibito, le mani sporche di sangue intrecciate tra quelle dell’assassino che, non avendo voluto graziarmi con una morte veloce ad opera di un coltello, mi sta ora uccidendo poco a poco con la sua assenza.

Ciò che vedo è il mio madornale errore di giudizio.

“Nuvole.”

*

Dopo solo quattro sedute lo psichiatra lo dichiarò perfettamente sano di mente - Will ebbe il sospetto che ci fosse lo zampino dei piani alti dell’FBI che non vedevano l’ora di mettere a tacere le accuse di aver mandato candidamente al macello, fisicamente e mentalmente, uno dei loro agenti speciali durante l’affare Lecter. Il medico non gli prescrisse psicofarmaci (non che Will in ogni caso li avrebbe presi) ma gli diede delle pillole per dormire quando Will accennò ai suoi incubi. La prima volta che ne ingollò duee accompagnate da un bicchiere di whiskey dormì per sedici ore di fila, e si svegliò intontito, spaesato e con l’impressione di aver esagerato col dosaggio a giudicare dal mal di testa che gli stava spaccando il cranio in due.

Erano passati quasi sei mesi, ormai. La sua vita era un limbo di nulla. Senza il lavoro all’accademia dell’FBI era difficile riempire le sue giornate, ma non riusciva a pentirsi di essersi dimesso. Non aveva la forza per qualcosa di impegnativo come l’insegnamento. Aveva dei risparmi da parte, e finché gli fossero bastati per andare avanti non aveva intenzione di preoccuparsi di cosa fare della sua vita. Dormiva, per lo più. Quando si sentiva un poco più attivo aveva preso a passare le giornate sul portico a respirare la fresca aria autunnale, osservando i suoi cani scorrazzare felici per i campi di fronte a casa sua. Avrebbe voluto alle volte scendere al fiume a pescare, ma si sentiva sempre troppo stanco per farlo.

Complicated grief disorder”, disse Abigail una sera, seduta accanto a lui sul divano di vimini, il volto rivolto verso il cielo notturno trapunto dalla miriade di stelle, vantaggio dell’abitare in un luogo lontano dalla città. “E’ quello che stai attraversando adesso. Non ci vuole un genio per capirlo, né uno psichiatra.”

“Non dovresti nemmeno conoscerla, quell’espressione”, rispose Will avvolgendosi meglio nella coperta che gli cingeva le spalle.

“Sono nella tua testa. So tutto quello che sai tu.”

“Quindi in realtà mi sto autodiagnosticando un disturbo psicologico post-traumatico?”

Abigail scrollò le spalle.

“Magari hai bisogno di sentirtelo dire da qualcuno.”

“Preferirei non pensare alla mia situazione mentale al momento.”

“Che è esattamente il motivo per cui hai bisogno di sentirtelo dire.”

Will prese un tiro dalla sigaretta, esalando il fumo dalla parte opposta rispetto a Abigail.

“Bene, quindi il mio cervello pensa che io sia in una fase di lutto patologico che non riesco a superare. In che modo questo dovrebbe essermi d’aiuto?”

“Potresti ad esempio decidere che sia ora di uscirne”, suggerì lei.

“Se potessi l’avrei già fatto”, mormorò Will, posando la sigaretta e prendendo un lungo sorso dal suo bicchiere di whiskey.

“Non credo. Questo dolore è l’ultima cosa che ti rimane di lui. E’ comprensibile che tu non voglia disfartene.”

Will chiuse gli occhi, concentrandosi sul proprio respiro come per resistere a una vertigine.

“Non voglio parlare di lui.”

“Ok.”

Will aprì gli occhi, sollevando un sopracciglio.

“Ok?”

Abigail scrollò le spalle.

“Se non vuoi parlarne non ne parliamo. Non sono qui per renderti le cose più difficili.”

Will avrebbe voluto chiederle per quale motivo fosse lì, allora, ma si trattenne per paura che per qualche ragione la ragazza scomparisse per sempre. Non era ancora pronto a lasciarla andare. Osservò il suo profilo alzarsi verso il cielo notturno, appena visibile al chiarore della luna.

“Mi sono sempre piaciute le stelle”, disse lei, cambiando gentilmente argomento.

“Anche a me. Mio padre d’estate mi portava in mare con la sua barca sgangherata e mi spiegava i nomi delle costellazioni e come orientarsi grazie ad esse.”

Avvertì Abigail sorridere accanto a sé.

“Me lo avresti insegnato? Se ne avessimo avuto il tempo?”

“Sì. L’avrei fatto anche prima, ma non sapevo che ti piacessero.”

“Mi piacciono perché mi fanno sentire irrilevante”, disse Abigail, infilandosi le mani giunte tra le ginocchia come per scaldarle da un freddo che per forza di cose non poteva sentire. “Ogni singolo errore che io abbia mai fatto scompare di fronte alla vastità dell’infinito.”

Will emise un verso di assenso, roteando distrattamente il bicchiere.

“Di certo guardarle rimette ogni cosa in prospettiva”, concordò.

“Già. Amore, tradimenti, odio…”

Will prese un altro tiro.

“Odiavi tuo padre?”, si ritrovò a chiederle. “Per ciò che ti aveva spinta a fare? Per ciò che ti aveva spinta a diventare?”

Abigail tacque qualche secondo, cercando le parole giuste.

“E' difficile odiare qualcuno che si comprende fino in fondo. Si può essere in disaccordo, persino provare orrore per le sue azioni, ma l'odio…”, mormorò scuotendo la testa. “Conoscevo mio padre meglio di chiunque altro. Dovevo conoscerlo, ne andava della mia vita. Sapevo che cos’era e cosa faceva, ma io per lui ero speciale, ed ero orgogliosa di esserlo perché lo amavo così tanto. Il resto del mondo avrebbe potuto scomparire per quanto mi riguardava.”

Abigail chiuse gli occhi, un sorriso triste sulle labbra.

“Sono scomparsa io, alla fine.”

Will non disse nulla. Posò il bicchiere sul tavolino e allungò il braccio fino a cingerle le spalle, così ingannevolmente reali nonostante tutto. Abigail appoggiò la testa sulla sua spalla, e in silenzio restarono al buio a guardare le stelle.

*

Will aveva preso a coprire gli specchi in giro per casa con dei drappi di stoffa.

Ricordava ancora sua nonna, tutta dialetto francese, superstizioni e storie di spiriti, che ad ogni funerale di famiglia faceva la stessa cosa.

Écoute, Tee-do”, gli diceva usando quel nomignolo affettuoso. “Devi sempre coprire gli specchi quando muore qualcuno, t’as compris? Gli specchi catturano gli spiriti. Se non li copri le anime dei morti non possono andare avanti e restano a perseguitare i vivi.”

Oui, Mawmaw”, rispondeva sempre lui ubbidiente.

A trent’anni di distanza, non era per quello che aveva ricominciato a farlo, nonostante le anime dei morti gli camminassero quasi perennemente intorno. Se lo aveva fatto, era per non doversi guardare negli occhi.

Aveva soccorso abbastanza cani abbandonati da saperne riconoscere uno a prima vista quando lo vedeva. Non credeva che lo specchio gli avrebbe mai restituito l’immagine di uno di essi.

*

La seconda volta che Hannibal gli apparve fu dopo essersi aperto un taglio sul palmo mentre preparava la cena per i suoi cani.

Aveva da poco messo giù il telefono con Alana. Nonostante tutto erano rimasti in contatto (anche se non certo grazie a lui) e di tanto in tanto si incontravano per un caffé. Il giorno dopo si sarebbero dovuti vedere, anche se Will non ne aveva esattamente voglia - il risentimento che aveva provato verso di lei era svanito, ma molto semplicemente non si sentiva in vena di chiacchierare. Stava ancora cercando una qualsiasi scusa credibile da poter tirar fuori all’ultimo minuto quando la lama del coltello gli era scivolata di mano e con la forza residua del gesto gli aveva lacerato il palmo.

Will restò a fissare i rivoli rossi gocciolargli copiosi dalla mano con una strana sorta di stupore. La ferita gli pulsava, abbastanza profonda da sanguinare copiosamente sul suo bancone di marmo e giù per il suo avambraccio. Il dolore era… stranamente benaccetto. Da quanto tempo era che non provava qualcosa di diverso dal torpore?

“Will”, disse una voce dietro di lui.

Non si voltò, non ce n’era bisogno.

Gli squali erano sempre attratti dall’odore del sangue.

“Non sapevo nemmeno cosa fosse il dolore prima che entrassi nella mia vita”, ragionò Will senza staccare gli occhi dalla ferita. “Non realmente.”

Sentì Hannibal avvicinarsi di un passo, e dovette combattere il senso di pericolo che dargli le spalle gli faceva provare.

“Lo dici come se ora ne sentissi la mancanza”, osservò Hannibal.

Will rise appena, senza voltarsi.

“Continui a illuderti di avermi reso una persona che non sono.”

“E tu continui a illuderti di non essere la persona che sei.”

A quello Will si voltò di scatto, improvvisamente furibondo.

“Io non sono ciò che tu volevi fare di me!”, ringhiò.

“No, non lo sei. Sei molto, molto di più.”

Will emise un singhiozzo strozzato, e voltandosi nuovamente cercò di tamponare il sangue e contemporaneamente di nascondere il fatto di avere gli occhi lucidi.

“Perché sei qui?”, sibilò, cercando di trasformare il dolore in rabbia. “Cos’altro vuoi da me?”

Hannibal si appoggiò al bancone accanto a lui con un fianco, osservandolo imperscrutabile.

“Lo sai cosa voglio.”

Will tirò su col naso, accorgendosi suo malgrado di stare tremando.

“Vuoi che venga da te.”

“Il mondo è un posto migliore se ci sei tu”, rispose l’altro quasi con dolcezza.

Will scoppiò in una risata isterica, gettando lo strofinaccio insanguinato nel lavandino ed indietreggiando per mettere nuovamente spazio tra di loro.

“E’ per questo che hai tentato di uccidermi?”

Hannibal lo seguì con lo sguardo, senza però muoversi da dove si trovava.

“Quella è stata una reazione, un impulso. Difficile da controllare persino per me.”

“E ora, fammi indovinare, te ne sei pentito?”

L’altro sospirò appena - dio, quanto erano verosimili le sue espressioni - ed abbassò lo sguardo, appoggiandosi con la schena completamente al bancone ed intrecciando le mani in grembo.

“Immagina di aver rotto una tazzina, la tua preferita”, iniziò a mo’ di risposta. “Giace ridotta in mille pezzi sul pavimento, spezzata senza possibilità di riparazione.”

Will chiuse gli occhi. Non voleva ascoltare. Sapeva già come andava a finire quella storia. La tazzina non si ricomponeva.

“Tu sai che la tazzina è rotta”, continuò Hannibal. “Sai di non poterla riparare. Ma non riesci a trovare la forza di buttarla via perché sai che quando lo farai, nel momento in cui ne terrai in mano i frammenti, improvvisamente la sua irreparabilità diventerà reale. E tu non vuoi che sia reale.”

Will scosse la testa, appoggiato ora contro la porta del frigo, dalla parte diametralmente opposta rispetto a Hannibal.

“Puoi dire quello che vuoi. Non devo crederti per forza.”

L’uomo inclinò appena la testa da un lato.

“Sono sempre stato onesto con te, per quanto mi era possibile.”

Di nuovo Will rise, guardando ovunque tranne che verso l’uomo di fronte a lui.

“Una volta ti chiesi perché avessi smesso di fare il chirurgo”, gli ricordò. “Mi dicesti che non eri riuscito a salvare qualcuno e che per questo ti era sembrato quasi di averlo ucciso.”

“E' vero.”

“No, invece, mentivi. E' esattamente l'opposto. Perdere pazienti sul tavolo operatorio non dà la stessa sensazione di uccidere. E' per questo che hai smesso, perché non era divertente.”

Hannibal non negò, restando semplicemente in silenzio a fissarlo, e Will sentì la rabbia montargli nel sangue. Odiava quello sguardo clinico e distaccato, odiava quel suo modo di guardarlo come se fosse poco più che una cavia di laboratorio che esisteva giusto per intrattenerlo, lo odiava, lo odiava! E lo odiava per l’effetto che quel suo modo di agire aveva su di lui, quella peculiare e distratta crudeltà che lo spezzava in mille pezzi e gettava la sua mente nel caos più totale, nella folle speranza che Hannibal stesso tornasse indietro a ricomporne i pezzi.

“Sei solo un lurido bugiardo”, sputò tra i denti, muovendo un passo verso di lui come un animale pronto all’attacco. “Non hai alcun diritto di sentire la mia mancanza. Non hai alcun diritto di lasciarmi il tuo cuore, di volere una seconda opportunità, non la meriti!”

“E’ quello che vuoi anche tu, Will”, ribatté Hannibal, del tutto impassibile di fronte alla sua rabbia.

“Oh, no, Dr Lecter”, sibilò l’altro ad un passo da lui, le mani strette a pugno. “Quello che voglio è non vederti mai più, né te né questa specie di fantasma con cui la mia mente mi sta perseguitando.”

Hannibal si avvicinò a sua volta, in maniera tale che Will fosse costretto a sollevare il viso verso l’alto per poter continuare a guardarlo negli occhi.

“Non puoi cacciarmi, Will. Sono dentro la tua testa. Non me ne andrò mai.”

Un sorriso crudele si dipinse allora sulle labbra del profiler, che mosse un passo indietro e poi un altro, continuando a guardarlo dritto negli occhi.

“Ah sì? Beh, vorrà dire che dovrò trovare una soluzione da solo, non credi?”, disse, aprendo le braccia come ad invitare l’altro a fermarlo. Girò sui tacchi e lasciò la cucina, marciando fino al comodino e aprendo violentemente il cassetto, afferrando ogni singolo barattolo di sonniferi che riuscì a trovare.

“Will”, disse la voce di Hannibal alle sue spalle, e il suo cuore gioì crudele a sentirvi una nota di preoccupazione.

Will lo ignorò completamente, prendendo una manciata di pillole e andando a recuperare una qualsiasi delle bottiglie di whiskey abbandonate in giro per la casa.

Will.”

Si versò un bicchiere abbondante e solo allora si voltò nuovamente verso l’altro, sollevandolo nella sua direzione.

“Alla tua, Dr Lecter”, mormorò con ogni singola goccia di risentimento che riuscì a trovare dentro se stesso. “Sei mesi fa non sei riuscito a uccidermi ma io, oggi, sono qui per finire il lavoro. Non sono forse un bravo discepolo?”

“Non farlo.”

Will si cacciò le pillole in bocca.

“Per favore.”

Ingollò il contenuto del bicchiere in un colpo solo, deglutendo i sonniferi uno dietro l’altro senza nemmeno preoccuparsi di contarli. Quando ebbe finito si leccò le labbra e tornò ad osservare l’altro, fermo immobile al centro del suo salotto, imperscrutabile come una statua. Non aveva fatto nulla per impedirgli di prendere le pillole, ovviamente. Non aveva fatto nulla perché non era reale.

Will allungò nuovamente il bicchiere verso di lui, come in un brindisi vuoto, e quella volta lasciò che rovinasse a terra e si infrangesse in mille pezzi.

*

Quando quella mattina Hannibal si era svegliato l’aveva fatto stranamente di buon umore. L’aria mite dell’autunno fiorentino sembrava una promessa più che sufficiente per sollevargli lo spirito. Si era alzato, si era lavato, aveva preparato la colazione - un fattorino estremamente maleducato - per sé e per Bedelia, le aveva augurato di passare una buona mattinata in giro per Firenze e si era quindi ritirato nel suo studio con l’iPad.

Aveva davvero avuto fiducia nel fatto che sarebbe stata una bella giornata. Per questo quando per forza dell’abitudine aveva aperto il sito di Tattlecrime impiegò qualche secondo e tre letture consecutive per comprendere fino in fondo il significato del titolo che campeggiava in prima pagina:


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