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Autore: Adeia Di Elferas    07/12/2015    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Dunque il papa vorrebbe una tregua?” chiese Lorenzo Medici alla spia che gli stava davanti.
 “Così pare, mio signore.” rispose quello, accennando a un mezzo inchino.
 Lorenzo si morse il labbro e strinse gli occhi per guardare meglio all'orizzonte. Era fuori Firenze, in campagna, per sfuggire al caldo della città. Cercava di tenersi comunque sempre informato su quello che capitava all'estero, ma quel giorno proprio non aveva voglia di parlare di affari di stato.
 Se solo suo fratello Giuliano fosse stato ancora vivo... C'erano giorni in cui gli sembrava tutto solo un brutto incubo e non desiderava altro se non risvegliarsi. Il risveglio, però, non sarebbe mai arrivato, e Lorenzo ne era ben consapevole.
 “Capisco.” fece Lorenzo, con un sospiro, tornando a guardare la spia: “E sappiamo anche queli sarebbero le sue proposte per la pace?”
 “A quanto pare vorrebbe che il polesine diventasse veneziano e che Ferrara si piegasse al potere di Roma, in pratica, vorrebbe mettere un suo parente al posto di Ercole Este.” spiegò la spia, schiarendosi la voce un paio di volte, mentre il viso di Lorenzo si faceva più scuro.
 “Ah, sì? È questo che vuole Sua Santità?” disse le ultime due parole con un tono furente che non faceva presagire nulla di buono.
 La spia deglutì rumorosamente e restò in attesa di ordini, incapace di aggiungere altro al suo resoconto.
 Lorenzo si prese qualche minuto per pensare, poi squadrò il giovane dicendo: “Bene. Faremo in modo di fare pressioni nel modo giusto. Per veloce che sia il papa, non riuscirà a placare i veneziani per almeno qualche settimana. A meno che non si sia già mosso tramite messaggi segreti.”
 La spia inclinò il capo: “Non lo escludo, mio signore. A quel che si dice Venezia ha già rallentato le offensive...”
 “Anche perchè ormai non ha più soldi e uomini da sperperare in una guerra inutile.” constatò Lorenzo.
 La spia annuì. Lorenzo si lasciò andare a un secondo lungo sospiro e concluse: “Bene. Per ora è tutto. Mi muoverò immediatamente. Voglio che si continui a indagare sullo stato di Roma e soprattutto sui collegamenti tra Sisto IV e la famiglia dei Pazzi.”
 La spia fece un inchino profondo e si allontanò immediatamente.
 Lorenzo si stirò i muscoli e prese ad accarezzare l'erba su cui era seduto. L'aria della campagna era fragrante come solo in luglio sapeva essere.
 Già, non lo aveva mai convinto, quel papa. Non era possibile che i Pazzi fossero dei cani sciolti e bast. Dovevano avere le spalle coperte da qualcuno. Dopo aver eliminato i sospetti sui milanesi e sui genovesi, non restava che sospettare proprio di colui che avrebbe dovuto essere l'uomo più santo del mondo...

 “Ed ecco qua.” concluse Paolo Orsini, indicando sulla mappa i punti da cui avrebbero attaccato: “Se mettiamo qui le bombarde, come ha consigliato la Contessa, dovremmo prendere il castello, magari non in una giornata, ma lavorandoci, ce la dovremmo fare.”
 Virginio Orsini alzò le spalle: “Sono d'accordo. Una volta preso il castello di Cave dovremmo riuscire a far piegare la testa ai Colonna...”
 Caterina dubitava che ai Colonna bastasse perdere quel castello per dichiararsi sconfitti, tuttavia non volle guastare l'ottimismo che si stava propagando nel padiglione.
 “Bene, bene...” sussurrò Paolo Orsini, lisciando la mappa con la mano aperta: “Allora è deciso. Domani attacchiamo. Se l'attacco andrà troppo avanti, ci metteremo in assetto di assedio. Alla fine cadranno quei maledetti...”
 Lo Stato Maggiore si sciolse dopo aver preso gli ultimi accordi. Caterina stava per tornare nel padiglione che doveva condividere con suo marito Girolamo, ma a metà strada cambiò idea e raggiunse il vero cuore dell'accampamento, dove stavano le salmerie.
 Prima si imbattè nel cerusico del campo, che le chiese come si sentiva. Caterina gli rispose che stava bene e che il ventre non le aveva più dato noia. I due si salutarono e la giovane proseguì nella sua peregrinazione. Chiacchierò un po' con uno dei cucinieri e scambiò qualche battuta con uno dei maniscalchi, ma l'incontro che le fece più piacere fu l'ultimo.
 Stava per rassegnarsi a tornare nella sua tenda, visto che la sera avanzava, quando una voce un po' ruvida la chiamò: “Mia signora! Mia signora!”
 Caterina si accigliò. Le sembrava di riconoscere quel tono e quella cadenza, perciò fu solo una mezza sorpresa quando voltandosi si trovò davanti uno dei soldati che aveva conosciuto da bambina, quando ancora viveva a Milano al palazzo di Porta Giovia.
 “Mia signora...” ripeté il soldato, un uomo non più giovanissimo, che portava i segni di molte battaglie in volto.
 La cicatrice che stava sul sopracciglio dell'uomo attirò l'attenzione di Caterina più di qualunque altra cosa. L'uomo parve notarlo, infatti disse subito, indicandosi la vecchia ferita: “Questa me l'hanno fatta su nel polesine.”
 Caterina gli chiese notizie di Milano, ma l'uomo confessò di aver lasciato il palazzo subito dopo la partenza di Caterina.
 “La Duchessa Bona si era rinchiusa in una torre, mia signora – spiegò il soldato, vagamente imbarazzato – e non mi andava proprio di sottomettermi a vostro zio Ludovico...”
 Caterina ascoltò senza lasciar trapelare nessuna emozione e quando si rese conto che l'uomo non aveva altro da dirle su Milano, passò a chiedergli notizie del polesine. Scoprì che il soldato era stato per qualche tempo al soldo di Ferrara, ma che alla fine aveva preferito seguire Leone da Montesecco e ora che Montesecco era morto, seguiva Paolo Orsini.
 “Dunque eravate con noi anche alla fontana di Trevi?” chiese Caterina, quasi senza fiato per la rivelazione.
 “Non ho partecipato a quella battaglia. Mi stavo riprendendo da una ferita...” e così dicendo sollevò la tunica, mostrando una ferita relativamente fresca sull'ampio petto.
 Caterina si intrattenne ancora qualche momento con lui, promettendogli altri momenti di chiacchiera insieme.
 Quando si dovettero separare, l'uomo la salutò e le chiese, con una strizzatina d'occhio: “Il pugnale è sempre al suo posto?”
 Caterina sfiorò inconsciamente il manico del coltello che teneva nascosto sotto i vestiti e sorrise: “Sempre al suo posto.”

 L'alba era limpida e secca, il caldo si avvertiva meno, grazie alla poca umidità e la visibilità era pressochè perfetta. Eppure le guardie che si avvicendavano ai posti di vedetta del castello di Cave non si erano accorti di quello che stava accadendo.
 In un silenzio quasi irreale, gli uomini degli Orsini erano riusciti a piazzare le loro bombarde sulla strada che dava a Valmontone e quando venne dato l'ordine di far partire i primi colpi, il panico si impossessò di quasi tutti i soldati nemici.
 Si era deciso di comandare una prima serie di offensive d'artiglieria e di aspettare solo un secondo momento per attaccare con la cavalleria.
 Girolamo Riario ascoltava il suono sordo e lontano dei colpi di bombarda dalla sua tenda. Cercava di stare calmo e di convincersi che sua moglie sarebbe rimasta nelle retrovie e che nessuno dei Colonna avrebbe mai raggiunto il loro accampamento.
 In effetti Caterina non era in prima linea, come, dopo tutto, quel giorno non lo era nessuno. Però era accanto agli artiglieri e assieme a Paolo Orsini dava indicazioni su come aggiustare la mira e sul ritmo da seguire.
 La giornata passò senza che si riuscisse a fare una breccia significativa nelle difese del castello, né a suscitare una reazione diretta del nemico. Così, per evitare di sprecare troppe munizioni, si decise di mantenere la posizione, approntando il vero e proprio assedio, ma ci si preparò a un riposo quasi totale per la notte.
 
 “Avete mai preso parte a un assedio?” chiese Paolo Orsini, asciugandosi il sudore dal collo con uno straccio.
 Caterina dovette ammettere che no, non aveva mai visto dal vivo un assedio, ma che aveva letto di molti assedi dell'antichità, da Alesia a Sagunto, a...
 Paolo Orsini la fece smettere con l'elenco alzando una mano: “Non ci crederete, mia signora, ma sui libri non è come dal vivo. Non basta saper leggere il latino, per sapere come si assedia un castello.”
 Virginio Orsini, seduto su uno sgabello nell'angolo del padiglione, sogghignò, continuando ad affilare la spada.
 “Questo lo immagino. Ditemi, cosa devo sapere in più di quello che insegnano i libri?” domandò Caterina, incrociando le braccia sul petto, mortificata dal tono paternalistico di Paolo Orsini.
 Questi sembrò pentirsi del modo in cui le aveva parlato e si ricordò che aveva davanti una donna di ventun anni, alla sua prima guerra, abbinata a un marito insopportabile e per di più incinta. Doveva cercare di essere più comprensivo.
 Così, per riparare in parte al torto fatto alla signora che avrebbe dovuto servire e proteggere, cercò di usare i suoi accenti più gentili nel proseguire: “In un assedio come quello che stiamo per affrontare dobbiamo tener conto del fatto che i Colonna avranno molto cibo, acqua e quasi per certo un modo per comunicare con l'esterno. Non posso credere che non si siano organizzati in tal senso. Inoltre, e questo vale per gli assedi in generale, dovete imparare a non sottovalutare mai l'avversario, ma neanche a sopravvalutarlo.”
 “Che intendete?” chiese Caterina, sentendo riaccendersi nel petto quella curiosità che l'animava da bambina quando prendeva parte alle lezioni assieme ai suoi zii più giovani.
 “Intendo dire che così come è pericoloso pensare che il nemico sia solo uno stupido, così è pericoloso pensarlo più intelligente di quanto non sia.” spiegò Paolo Orsini, con pazienza: “Perciò mai fasciarsi la testa prima di essersela rotta: una tattica lineare è da preferirsi. Lasciamo i virtuosismi tattici e strategici come ultima risorsa, nel caso in cui il nostro avversario si dimostri davvero degno dei nostri sforzi.”
 Caterina rifletté su quelle parole per tutto il resto della notte, anche quando ormai era sola con Girolamo, nel loro padiglione. Anche se aveva insistito per avere una branda lontana da quella del marito, usando come scusa i fastidi della gravidanza che la facevano riposare a fatica, non riusciva a togliersi dalle orecchie il suono continuo e insistente del respiro di suo marito.
 Era un rumore incessante e fastidioso, non tanto per la sua qualità, quanto perchè le ricordava che a pochi metri da lei c'era l'uomo che le aveva reso la vita un inferno.
 Da quando l'aveva conosciuto, era stato come essere intrappolata in una corsa infinita, una specie di folle battuta di caccia, dove l'unica salvezza stava nel continuare a spronare il cavallo e cercare di non farsi uccidere dagli altri cacciatori.
 Ogni volta che cercava di pensare con lucidità alla sua vita da quel lontano giorno in cui aveva per la prima volta condiviso l'aria di una stanza con Girolamo Riario, a Caterina sembrava di cadere in uno strapiombo senza fondo.
 Perciò, anche quella sera, come faceva ogni volta in cui le pareva di tornare sul ciglio del precipizio, chiudeva con forza gli occhi e cercava di farsi tornare in mente le cose buone che aveva conosciuto nella sua vita. Non era facile, doveva andare indietro con gli anni o sforzarsi di pensare ai suoi figli senza pensare all'uomo che ne era il padre. Con molta forza di volontà, comunque, alla fine riusciva a distrarsi e la sua mente si liberava per qualche momento dell'incubo chiamato Girolamo Riario, ma, inevitabilmente, si riempiva con altre inquietanti e assillanti visioni.
 Quella notte, per esempio, una volta che fu riuscita ad accantonare un po' il rancore provato verso il marito, riuscì ad addormentarsi, ma non riuscì a sognare altro se non il giorno di Santo Stefano, la folla, il portale della chiesa e suo padre, che crollava davanti a lei, pugnalato a morte da dei congiurati che nei suoi incubi assumevano a turno le sembianze di Girolamo Riario, di Cicco Simonetta, di suo zio Ludovico, di Gabriella Gonzaga e finanche di papa Sisto IV...
 

   
 
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