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Autore: Emerlith    15/12/2015    3 recensioni
"So di ferirti ancora una volta, Sirius, e come ti ho già scritto, so che non perdonerai mai. Se può consolarti, se può in qualche modo farti sorridere o perché no, farti persino contento, sappi che neanche io sarò mai perdonata, né perdonerò questa vita."
[Lettera di Walburga Black a suo figlio Sirius. Il figlio diseredato, denigrato, ma inconsapevole custode di un inconfessabile segreto].
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Druella Black, Sirius Black, Walburga Black
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Noblesse Oblige
 
Si narra che l’usignolo amasse la rosa da abbracciarla così tanto
che le spine gli trafissero il cuore.
-Oscar Wilde
 
 
 
Caro Sirius,
spero, nonostante i nostri diverbi e i nostri reciproci rancori l’uno per l’altra, che questa mia ultima ti trovi in buona salute; per quanto tu non sia mai riuscito a credervi, c’è stato un tempo in cui io ho guardato a te come ad un faro, una luce nella mia vita fatta solo di oscurità.
Figlio mio,
so di averti diseredato, denigrato e, anche se non hai mai avuto l’ardore per dirmelo, so di averti ferito molto, più di quanto la vita non sia capace di far da sola, più di quanto si possa sopportare e, di conseguenza, riuscire a perdonare.
Voglio che però tu sappia che non ti sto scrivendo, oggi, per chiederti perdono. Il perdono è un sentimento che non so comprendere, che non conosco –e del quale posso fare volentieri a meno; ti scrivo perché so per certo che non avrò la possibilità di rivederti mai più, e, come te, non rivedrò più neppure tuo fratello.
 
Quando eri un bambino, eri solito dire che io l’amassi più di te. Eri geloso di Regulus, lo detestavi, non facevi che frignare se lui veniva lodato, offenderti se tu al contrario venivi ignorato. Non riuscivi invece a capire che io non ero in grado di amare né lui, né te. Non ero nata per fare la madre, Sirius, era solo uno dei tanti compiti che ci si aspettava portassi a termine, come lo era quello di contrarre un rispettabile matrimonio con un buon partito. Che io non amassi neppure tuo padre, che anzi ne avessi ribrezzo, neanche questo contava, agli occhi dei miei due genitori. Non pensare di aver avuto soltanto tu due genitori detestabili, caro Sirius. Ti stupiresti se sapessi quanto io abbia patito, da bambina, per il solo fatto di non aver regalato a mio padre l’onore d’essere un maschio. Ho lottato aspramente per conquistare almeno un briciolo della sua considerazione, ed è inutile dire che, nonostante ogni mio sforzo, non ci sia mai riuscita. Quando sei nato, ho pregato con tutte le mie forze che tu non fossi una bambina. Il mondo per te sarebbe stato un posto meno ostile, ti avrebbe riservato più riguardi, e assieme al mondo, anche tuo padre, che altro non voleva se non portare avanti la sua nobile dinastia, vedere la sua linea di sangue perpetuarsi, godere dell’ammirazione di tutti, perché senza quella, tuo padre sapeva di contare ben poco.
 
Non credere nemmeno che tuo padre abbia saputo far meglio di me, nell’allevarti; nonostante fosse contento dell’aver avuto un figlio, tu ricorderai di non averlo avuto affatto, un padre. Credo vi abbia preso in braccio non più di una volta, e che vi abbia guardati con la stessa curiosità con cui ogni tanto fissava i miei ritratti in bella mostra sulle pareti dei nostri saloni; come se non gli fosse del tutto chiaro come fossimo, tutti noi, entrati a far parte della sua nobile Casata. Non voglio negarlo, Sirius: per noi eravate poco più che due marmocchi capaci di far baccano lungo i corridoi. Tuo padre aveva il suo lavoro come ottimo pretesto per fuggire dai vostri capricci; ma io non avevo che libri, e ho imparato con gli anni che i libri non bastano Sirius, non bastano mai.
 
Ad ogni modo, che a te piaccia o no, sono io la donna che ti ha generato; per quel che basta, so di conoscerti come conosco le trame dei miei romanzi. Anche se non riuscivo a tollerarlo, ho sempre saputo quello che con ogni tuo sforzo cercavi di celare agli occhi di tutti: eri un bambino buono, Sirius. Non eri ubbidiente, ma avevi un cuore. Un cuore inspiegabilmente diverso dal mio, e anche da quello di tuo padre. Eri generoso con i più deboli, non tentavi di imporre le tue idee con la stessa veemenza di tuo fratello. Sapevi riconoscere uno sbaglio –e, da chi di sbagli ne ha fatti tanti, lascia che ti renda almeno i meriti che obiettivamente ti spettano, nonostante le nostre idee del tutto contrastanti –che tali resteranno fino alla fine dei miei giorni.
 
Potrai obiettare dicendomi che ormai, è troppo tardi. Tardi per ogni cosa. Per il perdono, per i rimpianti, per una qualsivoglia forma d’amore mancato. Ma, come ho già detto, il mio scopo non è quello di riavvicinarti a me. Ti ho perso troppo tempo fa, figlio. Ti ho perso e ho cercato di farlo nella maniera più banale possibile: avendoti sempre sotto ai miei occhi. Eri talmente attaccato alla mia gonna, nei tuoi primi anni di vita, che dubitavo saresti mai stato in grado di essere un bambino autonomo, sveglio, indipendente da me. Agognavi alla mia presenza come se fosse stata ossigeno, ed è questo, vedi, che io non ho saputo né voluto perdonarti. Chi non sa affrontare il mondo da solo, mio caro, è destinato a soffrire, e per quanto adesso possa risultarti assurdo, io non ero così crudele da desiderare che tu soffrissi come avevo sofferto io.
 
Per questo, giorno dopo giorno, ho scansato le tue mani dalle mie, ho deriso le tue goffe richieste di affetto, e alla luce del sole non ho mai carezzato le tue guance. Era un gesto che ogni tanto mi concedevo solo dopo i rintocchi di mezzanotte, quando il silenzio della casa pareva riuscire ad avvolgermi in una spirale di complice irrealtà. Ti ho ferito, Sirius, e l’ho fatto deliberatamente, sono persino arrivata ad odiarti, pur di non amarti. Perché, se ti avessi amato, avrei fallito ancora una volta. Sarei caduta in trappola, e per me non vi sarebbe stato più alcun appiglio senza l’odio che invece è riuscito a tenermi in vita.
 
Io non sono capace di amare, Sirius. Forse perché non mi è stato mai insegnato, o forse perché troppo presto ho capito che l’amore in sé è solo agonia, atroce agonia, una sofferenza che non lascia via di scampo, nessuna possibilità di salvezza per la propria anima. Obietterai, e a ragione, che questa povera donna non possiede un’anima, e, se ci si limita ad osservare quelli che sono stati i fatti, io sarei la prima a darti manforte nel sostenerlo. Ma se puoi, se è rimasta ancora un’effimera traccia del bambino che eri un tempo, Sirius, allora ti chiedo di pazientare; non perché io stia morendo, ma solo perché ho da raccontarti una storia, una storia che forse è tua di diritto, dal momento che non mi sono mai prestata a chinarmi su di te per raccontartene una prima del calar del buio.
 
È molto sciocco da parte mia, pensarlo adesso. Ma dov’è che si va quando si muore, figlio mio?
Ricordi, era una domanda che mi ponevi spesso. Eri così inquieto, vulnerabile, attento. Ed io, cosa mai avrei potuto risponderti, da madre snaturata qual ero? Cercavo di toglierti dai piedi dicendoti che saremmo diventati quello che eravamo stati in vita. Vedevo nei tuoi occhi il sorgere spontaneo di un’altra domanda alla mia risposta, ma appena un attimo dopo il tuo coraggio veniva meno. Silenziosamente, ti ritiravi nella tua stanza, e mi lasciavi sola, alla tenue luce del lume, con un libro fra le mani. Tu, che eri un bambino così attento, non ti sei mai reso conto che, puntualmente, ogni volta in cui ti lasciavo andar via con quella domanda a fior di labbra, ero solita richiudere il libro con un gesto stizzito, al quale seguiva, immediatamente dopo, un singulto strozzato?
 
Probabilmente, no; non te ne sei mai reso conto. Eri troppo piccolo per capire, ma ora vorrai rammentare assieme a me quei pomeriggi in cui, per tenere a bada i vostri capricci, vi portavo in carrozza dagli zii Black. Detestavi far visita agli zii Black, e che dirti, se non che invece era una delle poche gioie di cui potevo invece godere io, nell’arco della mia miserabile esistenza? Che cosa rammenti, dimmi, di quei pomeriggi assolati trascorsi sui prati, assieme alle bambine e alla cara Druella? Probabilmente non avrai che poche immagini conservate nella memoria. Ma se tra quelle vi è il sorriso di Druella Black, allora fa’ come dico, e cerca di tenerlo come un fotogramma, davanti ai tuoi occhi, ancora per qualche minuto.
 
Il giorno in cui vidi per la prima volta quel sorriso capii che la mia intera esistenza, da quel momento in poi, sarebbe stata vana. Che i miei genitori, tuo padre, il mondo intero mi aveva tradita. Camminavo verso l’altare, in mano stringevo rose bianche; il velo offuscava quelle che molti interpretarono come lacrime di gioia, ma che invece tradivano solo rabbia; arrivai all’altare con il vuoto al posto del cuore, e me ne accorsi perché, mentre mi voltavo verso tuo padre, Druella, dall’alto della scalinata, mi guardò –ed io sentii distintamente che una parte di me, a me stessa sconosciuta, non era in grado di difendersi.
Rimasi a guardarla per tutta la durata della cerimonia, di sottecchi, come avevo imparato a fare da bambina, quando mi nascondevo sulla balaustra per assistere ai balli cui non avevo il permesso di partecipare.
La guardavo come avevo sempre guardato le cose proibite. Come non ho mai guardato te, né Regulus, né tantomeno tuo padre.
 
Da quel momento in poi, quel sorriso, quel semplice sorriso incastonato d’avorio e capelli biondi mi tenne sveglia ogni notte. Le mani di Druella, che stringevo appena durante le occasioni di incontro delle nostre famiglie, avevano il potere di infondere calore in ogni centimetro della mia pelle, di ridestare in me sensazioni sconosciute, del tutto prive di logica –e spaventose.
Credi che quella strega di tua madre non abbia mai conosciuto la paura? Sbagli, ragazzo mio.
Io ho conosciuto la paura ancestrale, quella peggiore di tutte: la paura di perdermi negli occhi di un’altra persona, il voler cadere in quel baratro e non volerne più risalire. Ho conosciuto il terrore che comporta il dover custodire a tutti i costi un segreto, una verità inenarrabile, talmente tanto pericolosa da dover subire la condanna di restar sepolta nei meandri della mia mente.
 
Non so se puoi comprendere, Sirius, se ti dico che io non esistevo, se non in relazione a Druella;
che ogni volta in cui trascorrevo del tempo con lei ed ero costretta poi a separarmene avvertivo il mio stesso respiro venire meno, la mia anima lacerarsi in brandelli. Godevo della sua presenza come il deserto più arido gode delle rade gocce di pioggia. E se ti stai chiedendo che nome o quale definizione dare a tutto questo, sappi che forse io non ne sono mai stata in grado, perché avevo ancor più paura di questo nome che dei sentimenti che nutrivo per lei. Tua zia, la moglie di mio fratello, una donna. Non ho mai potuto rivelarle nulla, seppur sia stata la mia compagna per un’intera vita. Tuo padre mi avrebbe fatta internare in un manicomio, voi non avreste avuto più neanche l’ombra di una figura che potesse in qualche modo allevarvi, perché bada, Sirius, è solo grazie a lei e alla sua presenza nelle vostre vite se non vi ho abbandonati e non sono fuggita lontano per non far mai più ritorno. Quante volte ho creduto d’impazzire, anche solo guardandola. Quante volte ho creduto di non farcela a star zitta, quanto dolore ho dovuto sopportare anche solo sfiorandole una guancia, pettinandole i capelli, giocando con una delle sue figlie. Sai cosa significa nutrire un trasporto tale verso un altro essere umano? È la totale perdita di te stesso, è il disintegrarsi della tua volontà. Non poterla avere, non poter sfiorare mai le sue labbra accresceva in me una rabbia ed un odio tali da desiderarne perfino la morte. La sua morte sarebbe stata una grazia in confronto a tutti quei Walzer in cui la vedevo nelle braccia di un uomo, quei Natali in cui vi stringeva a sé con affetto –quell’affetto di cui io ero del tutto priva, e lei invece sembrava avere persino in eccesso –e l’unica persona esclusa dai suoi affetti ero proprio io.
 
So che tutto questo ti risulterà incomprensibile, forse persino disgustoso, o peggio, orrendamente banale. Ma se hai mai amato, figlio, forse riuscirai a far per me quest’ultimo sforzo: raccogliere questi brandelli, gli stralci di quel che mi resta. Questo niente che per me, in vita, è stato tutto. Morirò non perché io sia malata, ma perché non mi resta nulla per cui sopravvivere, né posso sopravvivere, in un mondo in cui lei non c’è più. So di ferirti ancora una volta, Sirius, e come ti ho già scritto, so che non perdonerai mai. Se può consolarti, se può in qualche modo farti sorridere o perché no, farti persino contento, sappi che neanche io sarò mai perdonata, né perdonerò questa vita. Non mi perdonerò, per aver taciuto con così tanta ostinazione, e per non aver mai tentato, anche solo una volta, anche solo per sbaglio.
 
Quanti pomeriggi abbiamo trascorso, stese sull’erba, a vedervi giocare. Quante volte le sono stata  vicina, così vicina da distinguere ogni sfumatura delle sue iridi e di ogni ciocca dei suoi capelli. Quando rideva, e parlava, avrei potuto restare ore in silenzio, mi sarebbe bastato soltanto guardarla, sfiorarle le mani. Ho desiderato le sue mani sul mio corpo come non ho mai bramato nient’altro in questa vita –sarei bugiarda se dicessi che Druella non era la persona con cui dormivo, e la persona con cui, nella mia mente, mi svegliavo la mattina. Mentirei ancora, se non tentassi, almeno goffamente, di porre rimedio a tutti questi miei anni di silenzi. E pur essendo pienamente consapevole che non vi è alcun rimedio, scrivo queste parole perché non potrò mai, mai pronunciarle davanti a lei. Avrei potuto essere una persona migliore, per mano sua, Sirius. Riuscivo anche a farvi da madre, le volte in cui Druella era seduta di fianco a me e ridendo mi ripeteva di essere indulgente con voi, di considerarmi fortunata ad avervi messo al mondo.
 
Forse è stata questa la mia punizione: non avervi saputo amare ha privato me di tutto l’amore che, magari, avrei potuto ricevere, o forse questi sono solo i deliri di una povera vecchia pazza. Ma se l’amore è arte, come dicono in molti, allora è un’arte che nella nostra famiglia non abbiamo saputo preservare. Siamo dei gusci vuoti, inutile ciarpame marcirà sulle nostre tombe, e quando anch’io sarò svanita per sempre, inutili dicerie seguiranno al mio nome, solo un nome. Un nome non è niente, Sirius, se non significa qualcosa. Ed io, dimmi, per chi ho mai significato qualcosa? Per cosa ho lottato, per chi? Se ti dicessi che invece ho lottato per lei, sarebbe un’altra bugia? Perché ho lottato, per frenare i miei impulsi considerati indecenti, i comportamenti indecorosi che ne sarebbero seguiti. Ho lottato duramente, soffocandomi e soffocando anche tutto ciò che di buono poteva esserci in me. Druella Rosier, le labbra di Druella Rosier sono il mio peccato più grande e a te, figlio, io lo confesso.
Le sfiorai una sola volta, era maggio, i raggi del sole le carezzavano il viso. Non seppi resisterle, d’ impulso le presi la mano, la portai sulla mia guancia, la guardai mentre posava la testa fra l’erba e  socchiudeva le palpebre.
 
Noblesse Oblige, mi sussurrò un istante dopo, adagio, mentre io morivo dolcemente sulle sue labbra. Mi allontanò dopo un attimo, che però a me parve eterno –l’istante, l’unico istante per cui forse è valsa la pena il mio stare al mondo, e mi guardò, senza chiedere nulla, senza battere ciglio.
 
Poi arrivasti tu, ti fiondasti su di noi con la forza di un uragano, il mio cappello volò via, Druella si ricompose con grazia e ti chiese di correre a prenderlo. Tu le chiedesti il perché, e anche a te, con un sorriso che a me parve triste, ripeté quelle stese parole. Noblesse Oblige, Sirius.
 
Chiedesti cosa significassero, non capivi ancora il francese. Ma la zia non ti parlò di doveri, né di obblighi. Rise e per incitarti a correre ti diede una leggera sculacciata. Adagio, per non farti male.
 
Dimmi, caro Sirius,
potrai ricordare e custodire tutto questo per me?
 
Anche se non verrai al mio funerale, anche se non metterai mai piede sulle tombe dei tuoi genitori, potrai posare una rosa bianca su quella di Druella Rosier? Perché sai, non so proprio dove si vada quando si muore, Sirius.
Le rose bianche erano i suoi fiori preferiti, e ora noterai, forse con una leggera amarezza, che sono anche i tuoi.
Le rose bianche, Sirius, te le passavo sulle guance quando dormivi.
Ne tagliavo le spine, e lasciavo che anche tu me le posassi sul viso, o le acconciassi tra i miei capelli.
Questo non puoi ricordarlo, bambino mio; ma le rose bianche sono l’unica cosa che, in un altro tempo, ti ho insegnato ad Amare. 
  
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