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Autore: Vago    18/12/2015    3 recensioni
Libro Primo.
Dall'ultimo capitolo:
"Che schifo.
Dopo tanto tempo che passi con qualcuno ti ci finisci per affezionare.
Non so chi, tra di loro, mi mancherà di più.
Forse tutti, o forse nessuno. Prima o poi dimenticherò i loro nomi.
In fondo, mi sono divertito a seguirli.
Sai, la mia ironia non ha perso l’occasione di affiorare.
Ho visto cose incredibili. Draghi, fate, esseri fantastici… e poi la magia. Quant’è bella?
Peccato che, se mai uscirai da lì, non potrai vederla con i tuoi occhi…
Nel mio viaggio con quei cinque ragazzi ho visto cose veramente incredibili.
Questo nuovo mondo è pieno di sorprese. Sarebbe bello poterlo esplorare assieme a te… Come ai vecchi tempi…
[...]
Ho visto perfino le armi elementari all’opera ancora una volta.
Non mi è dispiaciuto fino in fondo questo lavoro… O forse sì.
Il finale è stato bello e, nonostante tutto, devo ammetterlo, perfino io mi sono commosso, ogni tanto.
Un ragazzo si è sacrificato per i suoi compagni. Forse c’è ancora qualcuno non corrotto, in fondo.
[...]
Incredibile.
Non ho mai visto cose di questo tipo in tutta la mia vita…
Aspetta un attimo, così potrai vedermi anche tu."
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Storia revisionata
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Leggende del Fato'
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 Sulla Terra era il tiepido pomeriggio di un giorno di metà marzo.
L’erba cominciava a ritinteggiare i prati e le colline con il suo verde brillante, mentre l’ultima neve dell’inverno appena terminato cercava di sopravvivere nelle poche zone permanentemente ombrose e sulla vetta degli alti monti che si stagliavano sull’orizzonte lontano.
Gli alberi parevano essersi appena risvegliati dal loro sonno, tornando a stendere i loro rami verso il cielo e vestirsi di foglie novelle.
Ardof spostò con un calcio un ciottolo che si era frapposto sul suo cammino, facendolo cozzare contro la rete metallica che delimitava il rettangolo di erba sintetica, per poi continuare a camminare lungo il margine del campo da calcio di Zadrow.
Al suo fianco, il suo amico Trado continuava a parlare a ruota libera, senza avere davvero qualcosa da dire. Per lui non era mai stato davvero importante l’argomento, tant’è vero che spesso saltava di palo in frasca senza nemmeno accorgersene, ma la sua bocca aveva bisogno di sentirsi piena di parole.
- …Allora, per questo penso che sia meglio avere un quaderno ad anelli invece che uno con le pagine attaccate, ma… li hai già fatti gli esercizi di matematica per domani? No, perché io non ne ho capito neanche uno e…-
Ardof non ci faceva quasi caso a quel che diceva, erano anni che continuava a ripetere le stesse battute scadenti e le stesse riflessioni filosofiche profonde come pozzanghere.
Il ragazzo si spostò una ciocca di capelli neri dall’occhio e continuò a camminare, mancavano sette mesi al suo compleanno, al suo sedicesimo compleanno, e i suoi genitori gli avevano già chiesto quale regalo volesse. Si spostò appena per far passare il gruppo di ragazzini che gli stava correndo incontro. Il primo aveva un vecchio pallone da calcio logoro in mano, lo stesso che aveva usato lui anni prima in quello stesso campetto.
- Ma, Ardof? Mi stai ascoltando?- chiese Trado interrompendo per un attimo il suo monologo.
- Si… si.- gli rispose.
Trado riprese a parlare, ma venne interrotto da un boato tanto forte da far tremare la terra, qualcosa di simile al suono che producono gli aerei quando rompono il muro del suono, solo molto vicino.
Forse troppo vicino, si ritrovò a pensare il ragazzo.
Per un attimo nel campetto tutto si fermò, tutti i giovani che lo popolavano alzarono lo sguardo al cielo, lasciando che il pallone rotolasse per conto suo e i pochi giochi dei bambini presenti cadessero a terra, ma nessuno trovò nulla di strano in quel cielo azzurro tinteggiato da alcune nuvole bianche come la panna.
Il vociare riprese più forte, ma venne nuovamente interrotto dal grido di una bambina con i capelli raccolti in una stratta treccia, non avrà avuto più di sei anni.
La bambina chiuse la bocca e alzò l’indice, indicando un punto in lontananza alle spalle di Ardof.
Chiunque fosse stato a portata d’orecchio si voltò nella direzione in cui aveva puntato il braccio.
Il ragazzo sgranò gli occhi, non poteva credere a cosa stava assistendo. Non poteva credere a quello che i suoi occhi gli dicevano di vedere.
Quello doveva essere un sogno, non c’era altra soluzione, presto si sarebbe svegliato nel suo letto e la giornata sarebbe cominciata come sempre.
Una specie di enorme bufera, simile a quella accompagnata da una voce narrante che non poteva mancare in uno di quei documentari sulla terra dei ghiacci, si stava avvicinando velocemente come uno spesso muro d’aria e polvere.
Senza pensarci due volte afferrò il braccio dell’amico e lo trascinò con sé per terra, coprendosi la testa con le mani.
Riuscì solo a chiudere gli occhi prima di essere investito da un vento simile a quello scatenato dalle tempeste montane o dalle trombe d’aria, che di tanto in tanto scoperchiavano qualche casa.
Le pietre del campetto e i ramoscelli degli alberi vicini continuavano a turbinargli sulla faccia, poi tutt’a un tratto una scarica di corrente gli percorse la colonna vertebrale, facendolo irrigidire improvvisamente.
Fu una scossa talmente forte da fargli mordere l’interno della guancia al punto da farlo sanguinare.
Poi tutto finì con la stessa velocità con cui era iniziato: il vento smise di soffiare improvvisamente e gli effetti della scarica che aveva colpito Ardof scemarono pian piano, lasciandogli addosso un leggero intorpidimento soffuso ed un vago prurito a mani e piedi.
Il ragazzo si alzò da terra ancora un po’ frastornato, sputando sull’erba la saliva mista a sangue che gli riempiva la bocca.
Si guardò intorno, ancora intontito. La maggior parte dei ragazzi aveva avuto il buon senso di buttarsi a terra, mentre quelli che erano rimasti in piedi ora si stavano tirando i pantaloni di sacco sopra le ginocchia o arrotolando le maniche delle camicie di tela per controllarsi i graffi che si erano procurati cadendo sulla ghiaia.
Qualcuno, più sfortunato, doveva aver perso i sensi sbattendo contro qualcosa o qualcuno.
Lo sguardo di Ardof vagò un attimo sul cielo limpido per poi tornare di colpo a posarsi sui malconci ragazzi di prima.
“ Pantaloni di sacco? Camicie di tela?” si chiese.
Poi ancora “ Ma che materiali sono il sacco e la tela?”
Purtroppo non si era sbagliato, quei ragazzi avevano davvero addosso quelle camicie e quei pantaloni. Solo allora si accorse dell’erbetta fresca che gli solleticava le dita dei piedi, così diversa dall’erba sintetica che le sue scarpe avevano pestato fino a poco prima.
Abbassò lo sguardo perplesso. La prima cosa che notò fu il fatto che le sue scarpe nuove e le calze erano scomparse e non sembravano essere state scagliate da nessuna parte. Si guardò quindi i pantaloni, ci rimase male quando vide dei calzoni di sacco al posto dei suoi bei jeans bianchi, i suoi preferiti, oltretutto. Tirò su la testa, pensieroso. Poi riguardò in basso di scatto, mentre una domanda gli balenava in mente “ Da quando su questo campetto c’è l’erba?”.
Quando alla fine si guardò la maglia non si stupì più di tanto nel trovarsi addosso una camicia di tela, di un colore marrone sbiadito. In fondo, dopo quel che aveva appena visto, la sua maglia nera gli sarebbe sembrata fuori posto.
Per la prima volta da quando si era alzato pensò a Trado.

Bell’amico che sei. Complimenti.
Sono sempre più convito che questa volta il capo abbia preso un abbaglio. Con tutto il mio potenziale mi mette alle calcagna di un ragazzino del genere.
Comunque, devo ammettere che lo schianto è stato più violento di quanto mi fossi immaginato. Se solo Follia non fosse un pazzo megalomane fuori controllo che è precipitato verso la terra per qualcosa come duecentotrentaquattro anni, potrei anche essere leggermente dispiaciuto per lui.


L’amico era ancora vicino a lui e lo stava guardando con un’aria stralunata. Indossava un paio di braghe marroni e una maglia verde acceso, della stessa tonalità dell’erba che gli infestava i capelli. Ai piedi aveva delle scarpe senza lacci color terra, simili, almeno nella forma, a quelle che popolavano le bancarelle nei fine settimana estivi.
Ad Ardof sembrò che il viso del suo amico fosse un po’ più appuntito di prima, ma non ci fece troppo caso. Si mise però a ridere per il modo in cui era vestito.
- Che cos’hai adesso da ridere?- gli chiese ancora stordito il ragazzo dai capelli castani.
- Scusa, ma con quei vestiti sembri un pagliaccio, ti mancano solo il naso rosso e la parrucca!-
- Si, si. Ridi pure.- Trado si si portò i capelli pieni di sterpaglie dietro le orecchie ma a metà del movimento si bloccò. Un’aria tra il confuso e lo spaventato gli si dipinse in volto. - Ardof? C’è qualcosa sulle miei orecchie?-
Ardof, non curante, si spostò un poco per vedere le orecchie dell’amico. Quello che vide, però, lo riuscì a sorprendere ancora.
- Trado, non crederai mai a quello che ti sto per dire. Hai le orecchie a punta! Come quelle di quegli strani esserini disegnati nei libri di fiabe!-
Trado si toccò la punta delle orecchie, che si erano allungate e, come gli aveva detto Ardof, si erano appuntite in cima.
Il ragazzo rimase fermo, immobile, come pietrificato. Le uniche cose che si muovevano erano le sue dita che percorrevano e ripercorrevano il profilo delle orecchie senza darsi un attimo di pace, come se le potessero smussare con quel solo gesto ripetuto infinite volte.
Ardof pensò che si sarebbe potuto mettere a piangere se fossero stati loro due da soli, in quel prato.
Poi un flash colpì il ragazzo dai capelli neri.
Le mani si mossero quasi da sole e il sospiro di sollievo fu automatico quando le dita tastarono le sue orecchie e le scoprirono, come di consueto, tondeggianti.
Tornò a guardarsi attorno. Erano in un prato, questo oramai era un dato di fatto, al cui centro era cresciuto una quercia enorme che poteva benissimo essere stata piantata lì da cento o duecento anni, certo, non fosse nata nel giro di qualche secondo in mezzo a una colossale tempesta.
Tutt’intorno una strada in terra battuta delimitava quel prato e, andando oltre con lo sguardo, si vedevano solo case di legno e paglia le une addossate alle altre e campi, infiniti campi coltivati.
Se si riusciva a spingere lo sguardo oltre il grumo di costruzioni, le uniche cose che rompevano la monotonia del paesaggio erano delle piccole fattorie isolate circondate solamente da prati verdeggianti.
Infine, superando questi ultimi, si poteva scorgere verso est un piccolo bosco in cui scorreva placido un fiume e, più in là, delle vette decisamente distanti, ma abbastanza alte da risaltare sul cielo azzurro.
Ardof lasciò l’amico ancora intento a tastarsi le nuove orecchie sul prato e prese a correre verso casa, spostando con una manata un bambino con indosso un gilet che gli si era parato davanti. Per un breve frangente si stupì di quanto pesasse, neanche avesse avuto addosso del piombo.
Si fermò a riprendere fiato davanti a una fattoria uguale alle altre: una costruzione a due piani interamente di legno, il cui tetto era stato rivestito di paglia per renderlo impermeabile all'acqua piovana.
Ma non era uguale alle altre. In quel luogo, prima, sorgeva casa sua.
Davanti alla porta c’era suo padre, inginocchiato, che parlava rivolto all'incavo delle sue mani messe a coppa.
- Pa’, che fai?- chiese Ardof preoccupato.
Suo padre alzò gli occhi pieni di lacrime e gli mostrò una specie di farfalla. Era quello l’oggetto che gli occupava le mani.
La farfalla si alzò in volo titubante, come se fosse la prima volta che si sollevasse da terra con la sola forza delle ali luccicanti, e si portò all’altezza degli occhi di Ardof. Solo allora, con stupore e terrore, il ragazzo si accorse che quell’animaletto non era una farfalla ma una specie di fata, con il corpo da donna alto non più di tre dita e un paio di grosse ali, decisamente sproporzionate rispetto al resto, che gli spuntavano tra le scapole.
- Ardof… - disse la fata – tu stai bene?-
Il ragazzo indietreggiò, cadendo a terra.
Un pensiero troppo grande per essere accolto si fece prepotentemente spazio nella sua mente.
Quella fata era sua madre.
Il suo corpo fu scosso da fremiti incontrollati mentre grosse lacrime splendenti cominciarono a rigargli le guance.

Ardof si alzò dal suo giaciglio massaggiandosi il collo, detestava dover dormire sulla paglia ma o lì, o sul freddo pavimento con gli insetti e la polvere.
La seconda opzione lo ispirava ancor meno della prima.
Aprì le imposte dell’unica finestra nella sua stanza, lasciando filtrare un raggio di sole che andò a colpire il pavimento sporco. Mulinelli di polvere luccicarono nell’aria, mostrando la loro danza.
Si vestì in fretta e furia e, con un paio di scarponi sbiaditi nei piedi, scese le scale scricchiolanti fino al piano terra, facendo attenzione a saltare il terzo scalino, quello che le termiti avevano reso pericolante.
Entrò velocemente nella cucina, dove prese la fetta di pane coperta da un sottile strato di miele che lo stava aspettando.
Diede quindi un’occhiata rapida al lettino che stava sul tavolo, per poi aprire la porta, scostando la pesante tenda che proteggeva il legno dalle intemperie, e quindi uscire all’esterno.
Sua madre si era ammalata due mesi prima e da allora non si era più alzata da quel minuscolo letto ricavato da una radice. Il suo corpo non aveva retto i cambiamenti subiti, avevano detto tutti i dottori che l’avevano visitata, e nessuno aveva ancora trovato una cura per quella terribile condizione che sembrava affliggere tutte le razze, eccetto quella umana.
“Certo, gli umani non potevano ammalarsi! – si disse ironicamente il ragazzo uscendo. – Non erano cambiati di una virgola. Come potevano non adattarsi ai loro vecchi corpi?”
Fece una leggera deviazione per raggiungere il ripostiglio degli attrezzi, dal quale tirò fuori un falcetto, e si diresse a passo spedito verso il campo di grano, giallo come il sole di mezzogiorno, che si trovava dietro la fattoria.
Vi trovò suo padre con un ragazzo di pochi anni più grande di lui, dal collo taurino e i muscoli delle braccia gonfi.
Ardof non poté fare a meno di provare una punta d’invidia, nonostante fossero cinque mesi che ogni giorno scendeva a lavorare alla fattoria con suo padre, non poteva neanche vantare la metà della muscolatura di quel tipo dalla pelle abbronzata.
- Ardof! – suo padre lo salutò con la mano appena lo vide arrivare – Lui è Grant, Grant questo è mio figlio Ardof. Lui ci aiuterà per il raccolto di questo autunno e la semina nella prossima primavera.- dopo questa scarna presentazione ritornò nuovamente chino e riprese a falciare gli steli del grano che ricoprivano la terra.
Ardof fece un cenno con la testa a Grant e si mise anche lui al lavoro, in silenzio.
Mentre tranciava gli steli gialli fece vagare la mente sugli avvenimenti degli ultimi mesi. Era l’unico modo per non farsi prendere dallo sconforto per l’esorbitante quantità di lavoro che ancora lo aspettava.
Innanzitutto ripensò al cataclisma, o Il Cambiamento, come oramai tutti lo chiamavano. Non solo aveva cambiato la fisionomia di alcune persone creando razze ben distinte, ma aveva anche sradicato dalla memoria delle persone ricordi utili, come costruire quei… al ragazzo scappò un’imprecazione tra i denti… quei… quei palazzi altissimi che sembrano toccare il cielo. Oppure come produrre le medicine e via discorrendo. Secoli di studi e l’impegno delle persone che avevano consacrato la loro vita al progresso erano stati letteralmente spazzati via da una bufera.
Poi un’immagine di Trado coprì i ragionamenti di Ardof. Non aveva avuto molte occasioni di vederlo dopo quel primo giorno, questo non l’aveva poi aiutato ad accettare il fatto che, pochi mesi più tardi, si sarebbe trasferito per andare a vivere nella foresta che copriva la parte settentrionale dell’unico continente rimasto, almeno a quanto si diceva.
I cartografi, che alla fine erano gli unici che ci avevano guadagnato in tutta la faccenda, ottenendo nuove terre da studiare, l’avevano chiamata Grande Vivente per le sue dimensioni e la sua estensione.
Dopo quell'avvenimento, la sua vita fu un susseguirsi di eventi di ben poca importanza, all’insegna di quel lavoro da contadino che aveva dovuto imparare a svolgere senza lamentarsi, fino al giorno maledetto in cui sua madre cadde dalla sua piccola sedia in preda alla febbre ed ai tremori.
Si diceva, in paese, che tutti gli elfi nati dal Cambiamento avessero assecondato quello strano senso di attrazione verso la natura che si erano ritrovati nelle menti e fossero quindi migrati nella Grande Vivente, dove, si narrava, avessero eretto una città interamente sospesa sui rami degli alberi.
Nello stesso periodo i nani avevano intrapreso un viaggio verso est, verso i monti che dividevano perfettamente il continente in due metà. E in quei monti sembravano essere scomparsi, se non fosse stato per le monete di recente coniatura che ogni tanto entravano in circolazione tra i banchi dei mercati.
Lavorarono fino a sera inoltrata, fino a quando il sole non fu completamente tramontato e il cielo era conteso tra gli ultimi morenti raggi rossastri del sole e la luna che cominciava il suo cammino sopra le vette frastagliate dei monti.
Con l’autunno che si faceva sempre più freddo, erano pochi i giorni in cui la sera non si sentiva l’umidità, quindi bisognava sfruttarli al massimo.
Ardof rientrò stancamente in casa, l’ultima cosa che vide prima di chiudere la porta fu suo padre che metteva in mano a Grant un pugno di monete di rame mentre gli affibbiava un'amichevole pacca sulla spalla.
Si chiese cosa si stessero dicendo, poi l’anta della porta terminò la sua corsa alle sue spalle ed Ardof tornò ad essere poco interessato alla cosa.
Suo padre entrò poco dopo e, dopo essersi tolto il fango da sotto le suole degli scarponi, si avviò a passo spedito verso la cucina dove trafficò con l’acciarino per accendere la stufa, su cui era appoggiata una pentola piena d’acqua.

- Chiede sempre di più per quel dannato carro.- disse a fior di labbra mentre mangiavano.
- Chi?- chiese Ardof pur conoscendo la risposta. Era una conversazione che avevano quasi tutte le sere, quella.
Suo padre diede un’occhiata al lettino sul tavolo, poi riprese a parlare a voce ancora più bassa, talmente bassa che Ardof dovette concentrarsi per cogliere le sue parole. - Quello stramaledetto Deric, il fabbro. È convinto che, essendo l’unico che sa lavorare il ferro nei dintorni, può fare ciò che vuole. Chiede addirittura nove Laire di rame per ruota. È un furto, pagherà si e no sette monete per il doppio del ferro di cui ho bisogno io, dai nani... Un furto bello e buono ti dico, ma fidati di me che quello non continua a campare per tanto se non abbassa i prezzi, negli ultimi giorni ho sentito delle voci circolare in paese che… lasciamo stare, non devo farti preoccupare per cose che non ti riguardano…-
- Poteva sempre andarti peggio…-
- E come scusami? I carri hanno solo quattro ruote, e il nostro non ne ha una che sta ancora su da sola! Nove monete di rame per ruota… tre monete d’argento e sei di rame solo per le quattro ruote… figurati quello che mi potrebbe chiedere per l’intelaiatura. Dove li trovo tutti quei soldi? Non può andarmi peggio.-
- Beh, potrebbe grandinare.- Ardof accennò un sorriso ma, appena vide che suo padre non ricambiava, si concentrò su una rondella di una carota nella sua scodella di minestra.
- Perché hai fatto venire quel tipo la… Grant, a lavorare con noi? Hai paura che non ce la possiamo fare, da soli?-
- Siamo finiti in pianura, è vero, ma siamo lontani dai mari. E con i monti comunque così vicini si teme che la neve arriverà presto. Non volevo perdere neanche una spiga.-
Il ragazzo scrollò la testa lentamente, assorto nei suoi pensieri.
Finirono di mangiare in silenzio.
Mentre Ardof stava salendo la scala che portava al secondo piano, suo padre gli disse ancora dalla cucina. - Domani non andare al campo, non ci sarò nemmeno io. Devo andare in paese per vedere a quanto mi mettono i pali per la vite. Se vogliamo piantarla devo vedere se ci conviene farceli da noi o comprarli…-
- Va bene. Come vuoi. Mi troverò qualcosa da fare. Sarò libero per tutta la giornata o tornerai nel pomeriggio?- In realtà non aveva nessuna idea su cosa fare il giorno dopo ma qualcosa lo avrebbe trovato. Magari sarebbe sceso in paese.
- No, no. Penso rientrerò domani sera. Prenditela con calma.-
- Ok. D’accordo. Allora ci vediamo domani sera.-
- Si… si.- 

   
 
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