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Autore: Adeia Di Elferas    18/12/2015    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Erano quasi arrivati nel cuore della città che tanto li odiava. Il Tevere ormai era a portata di mano e di fronte e loro il Ponte Mollo si stagliava come un monito.
 L'aria era afosa e carica di umidità, come raramente accadeva a Roma in quella stagione. Mancava del tutto il venticello leggero che spazzava via la calura e per un fugace istante a Caterina parve di essere tornata sulle rive del Po.
 Caterina, ancora al fondo della colonna di soldati, non sapeva cosa avrebbe fatto suo marito. Se voleva davvero consegnarsi, doveva attraversare il ponte e raggiungere i palazzi vaticani. Tuttavia, forse la sua paura lo avrebbe fatto fermare prima, con il pretesto di rispettare le imposizioni del Sacro Collegio, che non lo volevano armato in Vaticano...
 
 “Fermiamoci qui!” ordinò Girolamo, tirando fuori la voce, dopo essersela scaldata con tre o quattro colpetti di tosse.
 Pian piano, tutti i soldati e i cavalieri si fermarono.
 “Che succede?” chiese Paolo Orsini, dopo aver risalito la colonna di armati ferma davanti a Ponte Mollo.
 Girolamo era pallido e lanciava occhiate incerte verso il centro della città. Teneva le redini del cavallo strette con entrambe le mani e il suo viso era imperlato di sudore.
 “Allora, che succede?” chiese di nuovo Paolo Orsini, con maggior insistenza.
 Il Conte Riario deglutì rumorosamente e alzò appena le spalle, con una certa fatica, per via del peso dell'armatura: “Dobbiamo fermarci qui e attendere qualche emissario del Sacro Collegio che ci dia formalmente il permesso...” cominciò, confusamente.
 Paolo Orsini si passò la lingua sulle labbra. Avrebbe dato un braccio per avere un po' di acqua fresca... Faceva troppo caldo e di certo starsene lì fermi sotto al sole non avrebbe migliorato la cosa.
 Si guardò nervosamente alle spalle, temendo di vedere qualcosa che non voleva vedere. Temeva la reazione della Contessa nel momento in cui avesse scoperto i piani del marito. Ormai, però, aveva promesso: l'avrebbe aiutata come meglio poteva, dunque tutto quello che gli restava da fare era cercare di convincere Girolamo Riario a non fermarsi.
 “Mio signore – prese a dire, con finta reverenza – sarebbe più prudente raggiungere armati le residenze vaticane... Non verrà certo visto come un segno di scarso rispetto, casomai penseranno che siete abbastanza assennato da non voler cader vittima del popolino...”
 Aveva giocato la carta a cui il Conte Riario era più sensibile, eppure quell'uomo non sembrava convinto.
 Mentre Paolo Orsini tentava di argomentare di nuovo la sua causa, si sentirono i colpi di zoccoli sul terreno e in pochi istanti Caterina fu accanto a loro.
 “Cosa sta succedendo?” chiese, rivolgendosi a Paolo Orsini.
 Questi stava per rispondere, quando Girolamo parlò prima di lui: “Dobbiamo fermarci – disse, con tono apparentemente calmo e ragionato – per non arrecare offesa al Sacro Collegio...”
 Caterina guardò a lungo il volto del marito. Nei suoi occhi non lesse nulla, se non il caos più totale. Quell'uomo non aveva la più vaga idea di quello che si doveva fare e nemmeno sapeva di chi doveva fidarsi.
 “Portate l'esercito a Castel Sant'Angelo.” fece Caterina, sperando di poter sfruttare la confusione del marito a suo favore: “Seguite me. Fidatevi di me. Prendiamo insieme Catel Sant'Angelo.”
 Girolamo boccheggiò e così come Paolo Orsini, anche gli altri che erano loro vicini stavano in spasmodica attesa di vedere cos'avrebbe fatto il Conte Riario.
 Visto che Girolamo non si risolveva a dire nulla, Caterina fece l'ultimo, estremo tentativo, per quanto le costasse dire simili cose: “Girolamo... Se veramente mi amate...” si interruppe un momento, perchè il marito aveva alzato gli occhi su di lei, guardandola come se si fosse accorto solo in quel momento della sua presenza: “Se davvero mi amate, prendete Castel Sant'Angelo assieme a me.”
 Girolamo non disse nulla, la bocca mezza aperta, le pupille dilatate e le narici che fremevano senza sosta, annusando l'aria pesante di Roma.
 Caterina attese ancora qualche secondo, e quando Paolo Orsini stava per dire qualcosa, forse per appoggiarla in qualche modo, la sua pazienza finì.
 Prese d'impeto la spada che teneva legata alla sella, spronò il cavallo e, mentre imbocava il Ponte Mollo, ringhiò a denti stretto: “Al diavolo tu e tutti i Riario!”
 Girolamo la fissò mentre si allontava, incapace di dire o fare alcunché. L'unico che ebbe la forza di reagire in qualche modo, fu Paolo Orsini, che gridò: “State attenta, Caterina!”
 
 Quanto doveva essere assurda quella scena, pensò Caterina. Una donna gravida, all'ottavo mese, con indossa una veste e un mantello, una spada stretta in pugno e un cavallo lanciato a spron battuto in mezzo a una città preda dei tumulti...
 Attraversò le prima strade senza troppi problemi. C'erano persona ovunque, oltre il Tevere, e molti parevano ubriachi o nel mezzo di una festa. L'unica nota stonata erano il degrado palpabile e la rabbia profonda che non si nascondeva più di tanto sui volti dei romani.
 Faceva venire i brividi, pensare che quelle persone, quasi per certo, erano le stesse che nelle ore appena trascorse avevano messo a ferro e fuoco tutto quello che apparteneva ai Riario. Perchè Caterina di una cosa era più che certa: alla notizia della morte del papa, sicuramente tutti si erano riversati in strada e avevano assaltato ogni simbolo di Sisto IV.
 Perciò era fondamentale che nessuno la riconoscesse, almeno fino al suo arrivo a destinazione. Aveva nascosto i capelli biondi nel cappuccio, per rendersi meno riconoscibile, e il luccichio della sua spada teneva lontani quei pochi poveracci che avrebbero voluto rubarle il cavallo.
 Probabilmente nessuno la riconobbe perchè nessuno avrebbe mai potuto pensare che lei, la Contessa Riario, avesse avuto il fegato di avventurarsi in strade affollate da gente che la voleva morta.
 Più ancora che il cappuccio o la spada, a dare sicurezza a Caterina era il pugnale che teneva sotto le vesti. Sapeva che, in caso di vera necessità, sarebbe stata quella piccola arma a salvarla.
 Quando vide davanti a sé Ponte Sant'Angelo, le parve un sogno. Era davvero arrivata completamente incolume e senza problemi fino a lì?
 Fece un respiro profondo. Alzò in cielo la spada, spaventando due uomini e una donna che, inneggiando ai Colonna, stavano passando proprio accanto a lei in quel momento. Spronò con tutte le sue forze il cavallo, cercando di non pensare al suo ventre, così ingombrante e così indifeso, e partì alla carica.
 Arrivata giusto sotto a Castel Sant'Angelo, sotto gli occhi esterrefatti di quei pochi che erano in quella zona in quel momento, gridò: “Aprite! Sono la Contessa Riario! Aprite in nome di mio marito, il leggittimo Castellano!”
 Le due guardie che presidiavano la porta principale incrociarono le alabarde, ma non osarono farle nulla. L'imbarazzo sui loro volti era ben riconoscibile, malgrado le celate calate.
 “Aprite! Per ordine di Girolamo Riario!” ripeté Caterina, sgolandosi.
 Un uomo uscì in fretta dal portone, facendosi largo in mezzo alle due guardie. Quando vide Caterina si immobilizzò. I suoi occhi passarono dal suo viso alla spada, ancora alta, ancora minacciosa.
 “Sono Caterina Sforza.” disse la ragazza, abbassando impercettibilmente la spada: “Sono qui per ordine di mio marito, il Conte Riario.”
 “So bene chi siete.” fece l'uomo: “Io sono Attilio Fossati, il comandante della guarnigione.”
 “Allora apritemi le porte e lasciate che prenda il posto di mio marito, mentre lui porta qui il resto delle truppe.” fece Caterina, con un tono che non ammetteva repliche.
 “Il Sacro Collegio mi ha ordinato di non lasciar entrare nessuno fino a che non verrà eletto un nuovo papa.” spiegò il comandante, chinando il capo in segno di rispetto.
 Caterina si levò il cappuccio, che le creava solo fastidio e scosse la chioma per asciugare un po' di sudore. Mentre faceva ciò, chiese, velocemente: “Il Sacro Collegio non ha poteri, qui, fino a che mio marito non rinuncia ufficialmente alla sua carica. E se mi sto sbagliando, sarò io a pagare, non voi. Ora fatemi entrare.”
 Attilio Fossati strinse il morso, ma alla fine sul suo viso si aprì un piccolo sorriso: “Ho servito per tre anni alla corte di Milano.”
 A sentire quelle parole, Caterina strinse gli occhi e lo guardò meglio, cercando di ricordarsi il suo volto tra quelli che aveva conosciuto da bambina.
 “Quando ero ragazzo, volevo diventare valoroso come vostro nonno Francesco Sforza, per quel motivo avevo deciso di militare a Milano. Voi avevate poco più di due anni, quando lasciai il Ducato – proseguì Attilio – e ricordo bene i vostri primissimi passi. Li avete fatti davanti ai miei occhi, nel cortile d'addestramento del palazzo di Porta Giovia.”
 Senza aggiungere altro, apparentemente sopraffatto dall'emozione, Attilio Fossati fece un cenno alle guardie che gli stavano accanto e a quelle che guardavano dall'alto. Caterina smontò da cavallo, lasciò le redini a una delle guardie, mise la spada nel fodero e infine venne ammessa in Castel Sant'Angelo.
 Attilio l'accompagnò nel cortile centrale, fece radunare i soldati e ordinò: “Presentate le armi alla signora del castello!”
 Caterina si trovò circondata da uomini che l'onoravano con la presentazione delle armi, mentre negli occhi del loro comandante ancora brillavano quelle che sembravano lacrime di commozione.
 “D'oggi in poi, fino a nuovo ordine, sarete tenuti a obbedire sia a me sia a Caterina Sforza, signora di Castel Sant'Angelo!” terminò Attilio Fossati e tutti i presenti batterono a ritmo le proprie armi in terra o contro gli scudi.
 Fu il turno di Caterina di essere sopraffatta dai ricordi. Era lo stesso suono che l'aveva accompagnata mentre usciva dal palazzo di Milano per l'ultima volta. Era un suono familiare e caldo, che le dava sicurezza e coraggio.
 “Tornate ai vostri posti!” ordinò Attilio, facendo rompere le righe: “E attendete nuovi ordini!”
 Il comandante aspettò che i soldati si diradassero, prima di rivolgersi a Caterina: “Ora cosa facciamo, mia signora?”
 Caterina si riprese, asciugandosi furtivamente una lacrima, e disse, con fermezza: “Ci prendiamo Roma.”
   
 
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