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Autore: Adeia Di Elferas    19/12/2015    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ 'Se solo quel vecchio inutile avesse aspettato qualche mese ancora a morire...' stava pensando Rodrigo Borja, mentre giocherellava apparentemente calmo con l'anello cardinalizio: 'Avrei avuto il tempo necessario per comprare più alleati...'
 La sala del consiglio era piena di porporati che vociavano senza sosta. Benché fosse malandato da tempo e benché tutti loro sperassero nella rapida dipartita di Sisto IV, nessuno era davvero pronto a quell'evento.
 Come tanti lupi che si devono spartire un agnello appena catturato, tutti i cardinali e gli aventi diritto al voto nell'imminente conclave, si stavano accapigliando e gridando mezze minacce e improperi.
 Anche se tutti loro stavano tessendo le trame per fare i propri interessi, nessuno era riuscito a concludere ancora nulla di definitivo.
 Rodrigo Borja, ovviamente, aveva unto gli ingranaggi sperando di essere eletto subito nuovo papa. Aveva cinquantatre anni, era ancora giovane, ma già d'esperienza. Se fosse stato scelto lui, avrebbe potuto sistemare una volta per tutte i suoi sette figli e la sua famiglia sarebbe finalmente stata ritenuta alla pari delle altri nobili famiglie italiane. Il più piccolo, Jofré, o Goffredo, come lo chiamavano a Roma, aveva appena due anni. E Lucrecia, la piccola Lucrecia... Ah, doveva garantire per loro un futuro stabile e sicuro... Ma come poteva riuscire a piegare un consiglio che ancora si chiedeva quale fazione appoggiare tra Orsini e Colonna, convincendo tutti a votare per uno spagnolo?
 Firenze, era risaputo, avrebbe spinto per far eleggere Giovan Battista Cybo, un uomo di un anno più giovane di Rodrigo, ma infinitamente più malleabile. Messo sul trono di Roma, avrebbe trasformato la Chiesa in una pezza da piedi di Lorenzo Medici, poco ma sicuro.
 Napoli voleva Francesco Todeschini Piccolomini, ancor più giovane, appena quarantottenne, originario di Siena, ma amato dai partenopei, che avrebbero tratto grande giovamento dalla sua elezione in così fresca età. In fondo era stato tra i più ferventi sostenitori della scomunica a Venezia. Aveva più volte dimostrato la sua capacità persuasiva e Napoli vi avrebbe trovato un fedele alleato.
 Diametralmente contrapposto c'era Marco Barbo, sostenuto da Milano e avverso in modo di certo non velato alle idee politiche di Piccolomini.
 Gli Orsini, ancora molto influenti, avrebbero strenuamente sostenuto Giovanni Conti, un vecchio di settant'anni, facile da gestire e da mettere a tacere per via della sua incrollabile fedeltà nei confronti del defunto Sisto IV.
 Ah, e poi secondo Mantova, Stefano Nardini sarebbe stato il nuovo papa. La sola idea faceva venir voglia di ridere tanto a Rodrigo Borja, quando a Giuliano Della Rovere, che si era appena unito alla riunione straordinaria.
 I Colonna avevano messo in atto una strategia forse poco cauta, ma allo stesso tempo molto chiara. A loro andava bene chiunque, purché non fosse il candidato degli Orsini.
 “Devo forse ricordare a tutti voi una volta di più quello che quel cane di Girolamo Riario ha fatto a Lorenzo Colonna?!” chiese a gran voce Giovanni Colonna, arringando i suoi vicini con ampi gesti del braccio: “Suo padre Leonardo Colonna aveva implorato pietà! Eppure ha dovuto perdere il figlio in un modo atroce e senza motivo! Giustiziato come un ladro a Castel Sant'Angelo!”
 Qualcuno fece eco e molte teste annuirono, dando nuova forza alle parole di Giovanni Colonna, che proseguì: “Fin troppo a lungo abbiamo sopportato le manie di onnipotenza di Riario! Le sue mancanze e la sua crudeltà! Ora che suo zio non è più tra noi, è giunto il momento di punirlo per tutte le sue colpe!”
 Mentre qualcuno cominciava a inneggiare alla vendetta, Giuliano Della Rovere restava in disparte, lo sguardo corrucciato e un'espressione greve in viso. Accanto a lui, Raffaele Sansoni Riario, tremava come una foglia.
 Rodrigo Borja li stava osservando, trovando quasi comica la differenza nell'atteggiamento dei due. Se non fosse stato che lui voleva il papato per se stesso, forse avrebbe appoggiato Giuliano. Era un uomo forte e deciso, quello che ci voleva per tirare fuori Roma da quel pantano...
 “Che vengano uccisi tutti! Giustiziati come ladri anche loro! Anche i bambini, anche i neonati! Che il sangue di Girolamo Riario muoia con lui!” esclamò quasi trionfante Giovanni Colonna, mentre i suoi più accaniti sostenitori applaudivano senza sosta: “E che venga tagliata la testa anche a sua moglie!”
 “Come osate!” gridò allora Marco Barbo, sentendosi chiamato in causa: “La moglie di Riario è una Sforza! È sangue del sangue dei Duchi di Milano! Non potete macchiarvi di un simile crimine!”
 “Nel momento stesso in cui ha sposato Riario, ha smesso di essere una Sforza!” ululò Giovanni Colonna.
 Quasi contemporaneamente, i due cardinali si avventarono l'uno sull'altro, continuando a gridarsi insulti e dovettero accorrere parecchi porpati per dividerli.
 Mentre il consiglio era ancora immerso in quest'atmosfera da osteria, un messaggero si profilò sulla porta, portando un dispaccio.
 “Fate silenzio!” tuonò Rodrigo Borja, alzandosi dal suo scranno con fare imperioso.
 In meno di un minuto, la sala intera piombò nel silenzio più assoluto e i cardinali che si stavano azzuffando tornarono lentamente al loro posto, guardandosi in cagnesco e sistemandosi gli abiti e le papaline, miseramente scivolate in terra.
 “Che notizie portate?” chiese Giovanni Conti al messo, andandogli incontro con il suo passo sicuro e cadenzato: “Parlate!”
 Il giovane gli porse il messaggio e annunciò: “Caterina Sforza ha preso Castel Sant'Angelo, ha preso il comando dell'esercito e ha puntato i cannoni contro il Vaticano.”
 Il silenzio perfetto che si era creato, si ruppe di nuovo col fragore di una bombarda che esplode improvvisamente.
 Anche quelli che si erano tenuti calmi poco prima, ora stavano vagando per la sala, gridando al tradimento, urlando insulti, mettendosi le mani tra i capelli, inneggiando alla vendetta.
 “Una donna che osa fare questo!”
 “Quella maledetta strega! Che bruci assieme ai suoi figli!”
 “L'esercito in mano a una donna! Che sacrilegio!”
 “Quella donnaccia senza pudore...! Che scandalo! Che assurdità!”
 “Voglio vederla impiccata! Voglio vederla morta!”
 “I cannoni! Contro la Santa Sede! Sacrilegio!”
 “Quella bestia! Vuole far di noi carne da cannone! Animale!”
 “È il diavolo! È il diavolo!”
 Rodrigo Borja, che pure si era lasciato andare a volgarissime imprecazioni in spagnolo, riuscì a ritrovare la lucidità molto prima di tutti gli altri: “Eminenze! Eminenze!” cominciò a gridare, mettendosi nel punto più alto che riuscì a raggiungere.
 Questa volta gli ci volle più di un minuto per ottenere ascolto, ma quando vi riuscì, tutto il Sacro Collegio pendeva dalle sue labbra.
 Cercando di non apparire troppo compiaciuto da quell'effimero stralcio di potere, disse: “Eminenze! Non ha senso perdere così la testa! Dobbiamo stare calmi!”
 Guardò i le decine e decine di occhi rivolti verso di lui e seppe che in quel momento tutti loro – perfino Giuliano Della Rovere – avrebbero fatto quello che lui diceva.
 Perciò raddrizzò la schiena e decretò: “Quella donna ci ha in pugno. Poco importa se l'idea vi scandalizza. La realtà dei fatti è questa: quella donna ha Castel Sant'Angelo e noi siamo in grande pericolo.”
 Per un istante i ricordi interferirono con quello che stava per dire. Non amava i Riario, però, malgrado tutto, nel tempo era arrivato a ritenere Caterina Sforza una donna degna di rispetto. Benché non lo desse a vedere, la riteneva un'avversaria valida e difficile da sconfiggere.
 E poi la sua natura sanguigna gli fece ricordare di quando aveva fatto da padrino a Ottaviano – su mezza imposizione del papa, ma poco importava in quel momento – e così pensò anche ai suoi figli, che forse non lo avrebbero più rivisto, se quella donna avesse perso la pazienza e avesse fatto fuoco coi cannoni...
 “Dobbiamo agire con prudenza!” riprese, dopo la breve pausa: “Dobbiamo andare per trattative, cercare di patteggiare. Condannarla a morte o cercare di riprendere con la forza Castel Sant'Angelo sarebbe un suicidio, credete a me.”
 I cardinali tentennarono, ma in breve si erano già divisi in due gruppi. Il primo, più numeroso, dava ragione a Rodrigo Borja e cominciava a pensare che strategia diplomatica usare, mentre il secondo, più sparuto, insisteva per intraprendere la strada della forza. Dopo tutto, argomentavano, una donna non può di certo tener testa a degli uomini.
 Si procedette a votazione e ovviamente vinse la linea morbida.
 “Resta da decidere chi le porterà l'ambasceria. Andrei io stesso, ma i miei screzi con la Contessa sono noti a tutti. La mia sola presenza farebbe fallire l'accordo.” concluse Rodrigo Borja, stremato da quell'infinita riunione.
 A quelle parole, come fossero stati bambini interrogati dal precettore, tutti i presenti si finsero intenti a controllare taccuini, lettere, sistemarsi i vestiti, guardare con stupore gli affreschi della sala, controllarsi le scarpe...
 “Per Dio!” sbottò Rodrigo, battendo ambo i pugni sui braccioli dello scranno: “Di che avete paura?!”
 Ancora una volta la sala fu sommersa dalle voci di uomini pieni di arroganza e paura, ma il concetto generale era unico, seppur espresso in modi e accenti diversi: chi avrebbe garantito l'incolumità dell'ambasciatore, una volta entrato in Castel Sant'Angelo? Se era vero che Caterina Sforza non aveva paura di passare alle vie di fatto, chi poteva esser certo di tornare vivo dal suo covo?
 “Decideremo domani, allora! Fatevi un buon sonno e una buona mangiata, chissà mai che vi entri un po' di sale in zucca!” tagliò corto Rodrigo, alzandosi e abbandonando i cardinali al loro destino.

 “Ormai avranno saputo, mia signora.” disse Attilio, in un sussurro, arrivando alle spalle di Caterina, che stava controllando i reso conti di Castel Sant'Angelo.
 Controllava le scorte alimentari e il numero esatto di effettivi di cui potevano disporre. Con un po' di accorgimenti, Castel Sant'Angelo avrebbe potuto resistere a lungo perfino sotto un serrato assedio.
 “I turni di guardia?” chiese Caterina al capitano.
 “Sono stati resi più precisi e serrati. In proposito, il vicecastellano Codronchi è pronto per incontrarvi.” disse Attilio, chinando appena il capo.
 La prima cosa che Caterina aveva scoperto, dopo essere entrata in Castel Sant'Angelo era che il vicecastellano Vincenzo Codronchi non aveva fatto un buon lavoro. Come tutti gli uomini scelti personalmente da Girolamo, anche questo si era dimostrato un incapace. Il suo comando era debole e un comandante debole porta a truppe indisciplinate.
 Aveva deciso di allontarlo seduta stante, ma lo doveva fare davanti a testimoni, affinché i soldati rimasti capissero che lei era di tutt'altra pasta.
 “Benissimo.” disse Caterina, alzandosi dalla scrivania: “Fate radunare i soldati che non sono di guardia nel cortile. Che assistano alla caduta del loro scioperato Codronchi. E poi voglio ispezionare personalmente l'artiglieria.”
 E dicendo ciò si avvicinò alla porta, una mano sul ventre e l'altra sulla schiena.
 Quell'immagine portò Attilio Fossati a chiedere: “Non è meglio che riposiate un po'? Ormai è notte. Fino a domani mattina non ci saranno mosse, da parte della Santa Sede...”
 “Se vogliamo avere una possibilità di uscirne vivi, non possiamo permetterci di dormire, stanotte.” rispose Caterina, scuotendo piano il capo.
 “Come preferite, mia signora.” concluse il comandante e la accompagnò fin davanti a Codronchi, che attendeva, con gli occhi carichi di rancore, di conoscere il suo destino.

 

 

 

 

 

   
 
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