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Autore: Relie Diadamat    26/12/2015    6 recensioni
Merlin, ventenne suonato, si ritrova costretto a lavorare al fianco del suo inseparabile Asino, nel bar aperto da quest'ultimo. Con loro c'è Freya, la dolce ed ingenua fidanzata di Merlin, che Arthur detesta.
Tutto cambia un giorno, quando il giovane Pendragon rivela ai suoi colleghi un cambio di programma.
*
[Dal Cap. 1]
«Non saremo i soli a gestire il bar.» continuò Arthur, serrando lievemente la mascella, evidentemente quella non era stata una scelta del tutto condivisa dal biondino «Mia sorella Morgana ed il suo fidanzato Mordred saranno dei nostri.»
Il cervello del corvino si resettò in un lampo.

*
[Cap. 6]
«Io non voglio condividere proprio niente con te, Aridian.» sibilò, serrando lo sguardo.
«Strano…» Unì tra loro le mani, aggrottando la fronte «La droga la dividevi volentieri.»

*
[Cap. 13]
«Quella stronzata che sono attratto dal tuo ragazzo. Come ti è venuta in mente una cosa simile?»
«Perché io ti ho visto, Arthur. Ho visto cosa diventano i tuoi occhi quando lo guardi».

*
[Cap 11]
«Io ti avrei amata per sempre».
*
*
[Freya/Merlin/Arthur] [Mordred/Morgana/Merlin] [Freya/Merlin/Morgana] [Merlin/Arthur/Mithian] [Elyan/Mithian/Arthur] [Kara/Mordred/Morgana] [Freya/Gwaine]
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Freya, Merlino, Morgana, Principe Artù | Coppie: Merlino/Artù, Merlino/Morgana
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Nda: Buon salve a tutti!
Lo so, sono sparita per un tempo immemore ma in questi giorni non c'è stato un attimo di pace. 
Come mio regalo di Natale, però, vi offro questo capitolo molto corposo - quindi mi faccio perdonare per l'attesa -, sperando che sia di vostro gradimento. Tutte le domande del capitolo precedente otterranno risposta. In basso troverete uno spoiler 'particolare', in quanto non si tratta di una citazione del prossimo capitolo o altro, ma solo un avvertimento. 
In questo capitolo troverete:
- una scena Merthur che a me è piaciuta molto scrivere;
- sano e fraterno ArMor;
- Freine;
- e... piccoli scorci natalizi sul passato di Igraine.
Spero che il capitolo sia di vostro gradimento. Nel frattempo ringrazio tutte le persone che hanno aggiunto la storia nelle seguite/ricordate/preferite, quelle che mi seguono in silenzio e tutti coloro che hanno recensito gli scorsi capitoli.
Aspetto i vostri pareri!
Buona, spero, lettura!       


    XVII. Cambiamenti
               La firma del drago (Parte II)
 


Lo scorso Natale io ti ho donato il mio cuore,
ma il giorno seguente tu l'hai gettato via.

- Wham
 
 



Londra, 21 Dicembre 1987
 


Alice girò la chiave nella toppa tre volte, lasciando entrare una folata di vento invernale dalla porta. «Eccoci arrivati! Casa dolce casa… Fa’ come se fossi a casa tua».
Igraine si trascinò la valigia a mano nell’entrata. Rimase quasi colpita dal calore che percepì in quella casa non appena averci messo piede; più che una semplice casetta confortevole somigliava più alla dimora di Babbo Natale, pensò. La cosa le piacque fin da subito.
«Noi amiamo il Natale», cominciò a spiegarle la donna aiutandola con il giubbotto. «Spero non ti spiacciano tutte queste cianfrusaglie. Ci teniamo che tu ti senta a tuo agio».
Igraine incontrò con lo sguardo un peluche di renna con le gote più rosse di quelle di Heidi, avvinghiato ad un pacco verde smeraldo. Sorrise intenerita. «A Roma ne avevo uno uguale» disse con un inglese incerto, tentando di spiegarsi indicando il pupazzo con un dito.
«Oh», Alice parve compiacersi di quell’informazione superflua. «E’ il peluche di Vivian. Gaius gliel’ha regalato molto tempo fa. Le piace da morire!»
«Parla per te».
Igraine si voltò verso il divanetto. Identificò la biondina appoggiata al muro come la figlia di Alice; masticava una gomma americana a bocca aperta, lo sguardo scocciato.
«Lei è Vivian», Alice fece cenno ad Igraine. A stento non le brillavano gli occhi. La ragazza pensò che quella donna fosse una delle più dolci che avesse mai conosciuto.
«Hi», Igraine le sorrise cordiale, realmente contenta di non avere difficoltà nel presentarsi in inglese.  «Nice to meet you, Vivian».
Vivian alzò un sopracciglio all’insù, limitandosi a dedicarle un mezzo sorriso frettoloso.
Il sorriso, dalle labbra di Igraine, si disperse all’istante. Che avesse sbagliato qualcosa? Strano… Eppure Tristan le aveva detto che ci presenta così in Inghilterra! Che suo fratello le volesse far fare la figura dell’idiota?
«Sii gentile, Vivian!» la rimproverò Alice, corrucciando lievemente le sopracciglia, mentre sfilava sciarpa e capotto da dosso Igraine.
La biondina sospirò al richiamo della madre, mettendo in scena una stupidissima faccia esageratamente sorridente. «Hi!!»
Alice scosse il capo, brontolando chissà che cosa in inglese che Igraine non riuscì a cogliere. Parlavano terribilmente veloce quelle persone…
«Avrete tempo e modo di conoscervi meglio.» Alice afferrò la valigia di Igraine posandole una mano sulla schiena. «Nel frattempo sarà meglio posare borse e valigia nella camera di Vivian, che da oggi in poi sarà anche la tua stanza».
Vivian si staccò dal muro accigliata. «Cosa?!»
La donna minimizzò la questione con un gesto della mano, quasi volesse scacciare via una mosca, accompagnando Igraine verso il corridoio. «Quella stanza è troppo grande per una persona sola, conosco gente che potrebbe perdersi lì dentro. A Vivian non dispiacerà un po’ di compagnia».
Anche dopo sette passi, Igraine riuscì ad avvertire la mano gentile e delicata di Alice sulla sua schiena e la presenza più scostante e contrariata di Vivian alle sue spalle che intanto continuava a lagnarsi: «Ehi, dov’è finita la giustizia per tutti gli uomini?! Io non condividerò la mia stanza con un randagio!»
 
 



 

Londra, Giugno 2015
Prima settimana
 



L’ Asino era totalmente uscito fuori di senno.
Merlin non lo pensava solamente perché aveva avuto il coraggio di riunire l’intero staff di baristi al Pendragon’s nel loro giorno libero minacciando di eseguire ogni sua richiesta, né tanto meno perché girava nei paraggi provvisto di stampella, penna rossa e post-it magenta. No: Merlin ne era fermamente convinto perché Arthur stava programmando le loro vite su una… lavagnetta!
A quanto pareva, il biondino aveva comperato una lavagnetta economica ed un pacchetto di gessetti e, soddisfatto come un gatto strapieno, aveva annotato i futuri turni del bar.
Merlin non capiva perché dovesse lavorare quasi sempre di mattina – e di sera – ma ancor di più non riusciva a credere all’ingenuità di Ginevra: la ragazza aveva fatto notare più volte l’assenza del suo nome all’ex, facendosi aggiungere sbrigativamente al turno pomeridiano.
Quanto a lui… Sapere di dover lavorare tutte quelle ore con Morgana non lo aiutava a placare quello strano senso di oppressione che avvertiva alla bocca dello stomaco. Si sarebbe abituato, avrebbe quotidianamente masticato i suoi sguardi velenosi e i suoi silenzi assordanti.
Ce l’avrebbe fatta, come sempre.
 
 








Ginevra era conscia del fatto che bere più di tre tazze di caffè potesse gravare vistosamente al suo sano equilibrio mentale, ma l’ansia l’aveva portata a divorare grosse quantità di liquido scuro in meno di dodici ore.
Si era alzata i capelli fermandoli in una cipolla improvvisata con un elastico nero, presentandosi al bar prima di tutti gli altri. (Questo perché Arthur era stato così magnanimo da concedere loro almeno la mattinata libera).
Una volta che tutti furono entrati nel bar– più o meno mezz’ora dopo l’arrivo di Gwen -, la mulatta si torturò le mani al pensiero di essere l’ultima ruota del carro e, prendendo un bel respiro, si concesse il lusso di rassicurarsi che sarebbe andato tutto bene.
«Quella del drago è stata una bella idea».
Ginevra si era avvicinata al bancone, fermandosi al fianco di Arthur.
Il ragazzo, dopo un attimo di esitazione, si limitò a ringraziarla.
«Anche le divise sono molto belle. Si sposano perfettamente con il locale… Morgana ha intuito per queste cose. L’ha sempre avuto», continuò lei.
«E’ vero», Arthur si lasciò scappare un sorrisino. «Ma se te lo chiede, io non ho mai detto nulla di simile».
«Certo!» Gwen gli lanciò una rapida occhiata sentendosi in difetto, per poi voltare lo sguardo in avanti. «E… tu mi sembri in ottima forma. Ti vedo meglio».
Il biondino sollevò lentamente gli occhi sugli altri dipendenti seduti comodamente sui divanetti. Merlin e Freya si sfioravano come se avessero paura di cadere in mille pezzi una volta essersi toccati. «Già. Sto meglio».
«Credo sia anche merito di quella dottoressa… L’ho vista spesso nel bar e so che ti ha imposto un rigido riposo. Non che io ti spii, s’intende. Sembra una ragazza a posto e ho notato che passate molto tempo insieme.» Ginevra rischiò di imporporare, incartocciandosi nel suo stesso discorso. «Con questo non voglio dire che io l’abbia notato di proposito, so che sono cose che non mi riguardano – non più almeno. Volevo solo precisare che ti trovo bene grazie a lei, credo… ma non voglio farmi i fatti tuoi, semplicemente…»
Arthur, che molto probabilmente sarebbe diventato una statua vivente se la sua ex avesse continuato con il suo monologo di cortesia, corrucciò le sopracciglia spaesato nell’osservare una pallida Morgana uscire dal bagno ed un Merlin silenzioso alzarsi dal suo posto per incamminarsi verso la toilette – o verso sua sorella?
Si voltò verso Gwen per placare il fiume in piena delle sue parole, sorridendole da copione. «Certo, sì. Mithian è un bravo medico e… Merlin
Il biondino richiamò il giovane accorgendosi degli sguardi gelidi e taglienti che Morgana gli aveva riservato una volta incrociato il suo cammino e, per un minuto, tutte le incognite frustranti del mese andato tornarono a galla. «Trascina la tua inutile persona al bancone. Cominciamo».
Il corvino lo guardò seccato, indicando il bagno. «Io veramente dovr-»
«Ora
«Ma io dev-»
«MERLIN!»
Il ventenne sbuffò roteando gli occhi, raggiungendo controvoglia il bancone.
 
 






Londra, 22 Dicembre 1987




Igraine si rigirò nel letto sentendo la propria schiena annichilita.
Si stiracchiò tra le lenzuola pesanti, strusciando la guancia sul cuscino morbido che si accorse – per sua grande meraviglia – di avere ancora sul materasso e non per terra.
Con gli occhi ancora chiusi avvertì uno strano venticello gelido infastidirle il viso, insinuandosi fin sotto le coperte. Si voltò dall’altra parte, raggomitolandosi come un feto nel grembo materno, sperando che servisse a qualcosa. Sprofondò la faccia nel cuscino imponendosi da sola di continuare il bel sogno che stava facendo, ma anche quel metodo si rivelò inefficace, così, decise di aprire gli occhi – quasi potesse affrontarlo con una rimboccata di maniche quel gelo antipatico – scoprendo la stanza esattamente come la sera precedente se non per… una Vivian che – (secondo la poca lucidità di Igraine in quel momento) doveva essere stata aiutata da un folletto invisibile – rientrava dalla finestra spalancata, sfilandosi le scarpe alte con i talloni.
Igraine si chiese che ora folle della notte fosse prima di accorgersi del cielo azzurro che padroneggiava su tutta Londra.
Sconvolta dal fatto che quella ragazzina avesse passato tutta la notte fuori casa, restò avvolta nelle calde coperte ad osservarla svestirsi con una rapidità studiata a perfezionata col tempo, chiedendosi se un giorno anche i suoi ipotetici figli avrebbero fatto lo stesso.
Vivian s’infilò svelta il pigiama, immobilizzandosi nell’intercettare lo sguardo attento di Igraine.
«Se dici qualcosa a mia madre renderò la tua vita un Inferno, stray».
Igraine non fu sicura di comprendere pienamente ciò che la ragazzina le avesse detto, ma si convinse che quel ‘stray’ fosse un’offesa. Si limitò a restarsene muta senza alcuna espressione dipinta sul volto.
«Brava».
«Spero che mia figlia non prenda da te» le confessò – stupidamente – parlando nella sua lingua. Era quello che diceva spesso anche a Tristan quando diventava insopportabile o tornava a casa con graffi e lividi sulla faccia.
Vivian, che non capì nemmeno mezza sillaba, alzò un sopracciglio al suo solito modo preparandosi a risponderle a tono – più che altro per puro istinto snob – quando sentì i passi di sua madre nel corridoio. La ragazzina si catapultò sotto le coperte, dando le spalle alla porta appena in tempo.
Igraine vide spuntare una treccia color caramello e due occhi vispi dall’uscio. «Dormito bene?»
La ventunenne annuì.
«Io sto andando al bar… vuoi venire con me?»
«Sì, certo. Mi piacerebbe molto!»
Il volto di Alice s’illuminò. «Bene. Datti una rinfrescata ma non fare colazione, al Rising Sun abbiamo dei dolcetti natalizi deliziosi! E… ricorda di prendere i pattini prima di uscire».
I pattini? Da quando aveva dei pattini?
Igraine tentò di aprire bocca ma nel vedere Alice scuotere il capo alla volta di Vivian restò ad ascoltare: «Non capisco come faccia a dormire così tanto. Beh, le lascerò il solito bigliettino in cucina».
Igraine scrollò le spalle. «Ha diciassette anni. La mattina si ha sempre sonno a diciassette anni».
«Sì, ma anche a quindici, sedici e diciotto anni.» Alice allargò le labbra in un sorrisetto caldo, apprensivo e comprensivo. Un sorrisetto materno.  «Ti aspetto in soggiorno», le disse, prima di richiudere la porta e sparire nel corridoio.
Igraine alzò un angolo della bocca all’insù, scendendo lentamente dal suo letto per avvicinarsi a quello della biondina. Afferrò uno strano peluche di Babbo Natale con un occhio scucito e un sonaglino sul cappellino, scuotendolo ad un soffio dall’orecchio di Vivian. «Mi devi un favore» le disse, con un inglese sorprendentemente eccellente.
«Get out, stray» la sentì borbottare con la testa schiacciata contro il cuscino e ciocche di capelli dorati a coprirle buona parte del viso.
Igraine abbandonò il pupazzo accanto alla bocca della diciasettenne per poi accostarsi alla porta. Posò una mano sulla maniglia e, prima di abbassarla, sorrise soddisfatta. Poi, uscì dalla stanza.


*

 
Non pensava che una cosa simile potesse succederle il suo primo vero giorno a Londra. O, almeno, Igraine lo sperava.
Alice aveva aperto festosa il Rising Sun accendendo tutte le luci, permettendo così ad Igraine di ammirarne i luccicanti addobbi natalizi. La De Bois spalancò la bocca a forma di piccola o; credette di essere ancora nel suo letto a sognare La Fabbrica di Giocattoli di Santa Claus.
Accanto all’entrata, a sinistra, faceva da padrone un abete sintetico bianco neve agghindato da una serie di lucette blu che brillavano a intermittenza.
Era di poco più alto di lei e, incantata, Igraine portò istintivamente una mano verso l’albero sfiorandolo con le dita. «Zia Alice ma è… bellissimo».
«Gaius mi ha aiutata con le luci prima di partire», Alice si allacciò il grembiule sistemando tavoli e sedie. «Sono felice che ti piaccia… ma aspetta di assaggiare i dolci!»


*

 
Quello che la giovane De Bois aveva completamente ignorato erano i pattini che Alice calzò ai piedi.
«Sono il nostro marchio di fabbrica», le aveva spiegato. «I clienti si sentono più allegri se li serviamo pattinando come delle dive d’America».
Igraine aveva scosso il capo preferendo invece rintanarsi dietro il bancone, possibilmente alla cassa.
Alice fluttuava agilmente su quei dannati cosini con le rotelle – si ritrovò a pensare Igraine – tanto che la ragazza non faticò ad affibbiarle l’immagine di una fata turchina provvista di bacchetta magica al posto dei vassoi.
Ma il vero dramma, ahilei, arrivò quando Alice indaffarata ai tavoli non udì il richiamo di un avventore alquanto frettoloso. Igraine tentò di attirare l’attenzione della donna, ma questa con un cordiale sorriso le chiese la cortesia di fare da sé.
Igraine abbassò lo sguardo sui pattini. Non era caduta restando in piedi per più di un’ora, perché mai non avrebbe potuto avanzare di qualche stupido passo?
La giovane italiana si fece coraggio avvisando il cliente con un gesto, ma prima che potesse fare anche mezzo passo si ritrovò con la schiena contro il pavimento.
La prima cosa che vide dopo la caduta, ancora distesa a terra, furono labbra carnose e profondi occhi color carbone. «Una dolce fanciulla K.O.».
Era una faccia pulita che le parlava, con il mento e le guance ricoperte da un sottile strato di barba corvina. La fronte era nascosta da lisce ciocche nere, così sottili da sembrare spaghetti – un po’ come i suoi capelli.
«Ahi», mugugnò lei, un po’ per la vergona e un po’ per l’idea di doversi rimettere in piedi con quei dannati aggeggi.
Il ragazzo le sorrise, afferrandola per un braccio, aiutandola a rialzarsi. «Forse, è meglio fare conoscenza in verticale, che ne dici?»
Una volta rialzata, Igraine si aggrappò agli avambracci dello sconosciuto tenendosi forte. Non ebbe il coraggio di sollevare i suoi occhi chiari in quelli del ragazzo, ma sentiva di doverlo fare, almeno per ringraziarlo. «Grazie… Grazie mille per… Grazie».
Lo vide sorridere mostrando parte della dentatura, senza accennare ad un minimo di fastidio per la stretta della ragazza. «Sono un cavaliere, lo ammetto. Sir Gorlois per le donzelle, ma gli amici mi chiamano Lois».
Era bello, tanto da costringerti ad arrossire. Dio, se era bello.
Igraine si sentì in dovere di dire qualcosa, in parte impaurita per il tremito che si era impossessato delle sue gambe. Forse sarebbe stato carino dirgli il suo nome, forse avrebbe dovuto presentarsi, forse…
«Igraine!»
Alice si precipitò su di lei come una mamma chioccia iperapprensiva; aveva gli occhi velati di preoccupazione e le rughe più vistose attorno alle labbra. «Tutto bene, tesoro?»
«Sì», farfugliò, guidando timidamente i suoi occhi in quelli di Gorlois. Erano neri come la notte. «Credo di sì, grazie a te».
Alice sospirò come se, cacciando tutta quell’aria dalla bocca, potesse renderla più leggera. «Sei sempre al posto giusto nel momento giusto, Lois».
Il ragazzo scrollò le spalle ridacchiando un po’. «Mi rendo utile».
 
 
 
 
 
 
 
 
Londra, Giugno 2015
Prima settimana
 



«Il segreto è tutto nell’altezza. La punta del bollitore deve trovarsi poco distante dalla superficie liquida altrimenti rischiate…»
«Che disastro!» pigolò Freya tra i denti, mordendosi il labbro.
«Un disastro», Arthur sospirò poggiando lo sguardo sulla mora china sul suo pasticcio.
Morgana ghignò beffarda e Merlin non poté fare nulla per evitarlo o zittirla: a quello aveva già pensato Mordred…
Il francese seguì la figura della corvina con la coda dell’occhio. «Fa’ la brava», le aveva mormorato.
Le risa di Morgana arrivarono fastidiose come il ronzio di mille sciami di api alle orecchie di Merlin. «Altrimenti?» la sentì sussurrare al fidanzato con un tono tutt’altro che indifferente o infastidito.
Merlin tentò di ignorarla, tenendo fissa la sua attenzione sul caffelatte e quello stupido drago da disegnare per lo stupido marchio di fabbrica di quello stupido bar, gestito da uno stupido Asino… Ma forse, non tutto era così stupido.
«Te lo dico stanotte».
Merlin aveva volontariamente evitato di osservare un Mordred suadente soffiare all’orecchio di Morgana allusioni a notti tutt’altro che caste, concentrandosi sul cappuccino – stupido cappuccino! – che aveva di fronte. In quel colore caldo, dolce e accogliente, lasciò riposare le sue iridi glauche realizzando per la prima volta l’idea di una Morgana tra le braccia di un uomo che non fosse più lui, tra le lenzuola, con il corpo nudo e le luci spente e…
Non doveva pensare a certe cose! Altrimenti… avvertiva l’impellente bisogno di qualcosa d’illegale, proibito, dannoso e pensare a quella roba nelle sue vene lo faceva sentire sporco e osservato.
Osservato.
Sollevò lo sguardo dalla tazza fumante ritrovandosi il volto attento di Arthur concentrato su di lui.
L’Asino si era soffermato così tanto sulla curva delle sue labbra, sperimentando se nascesse in lui l’incontrollabile desiderio di raggiungerle, da non accorgersi di essere stato colto con le mani nel sacco.
«Perché mi fissi?» chiese Merlin, leggermente infastidito dal comportamento del Babbeo quel giorno.
«Io non ti fisso» si difese, ritraendosi dal bancone su cui si era bonariamente appoggiato coi gomiti.
«Seh».
«Metti in dubbio la mia parola?»
«Giammai».
Lo scambio di battute terminò con quella frase, ma i pensieri di Arthur ricaddero nuovamente sul corpo del ragazzo. Quando pensava ad una donna, in un certo senso, succedeva una consueta conseguenza biologica; l’Asino credeva che se si fosse applicato meticolosamente sulla figura di Emrys, magari avrebbe compreso qualcosa.
Sarebbe successo fissando le sue mani affusolate? E gli zigomi sporgenti? Il petto e le spalle e…
«Arthur…» Merlin respirò lentamente, adagiando il bollitore sul marmo del bancone. «Non riesco a concentrarmi sul mio lavoro se mi guardi in quel modo».
Il Pendragon, leso dall’esser stato preso in fallo, increspò le sopracciglia con fare di disappunto. «Io non ti guardo, Merlin, io ti osservo. Ed è il mio lavoro: il mio lavoro è osservare il tuo».
«Sì, è questo il problem-»
«Ricorda la lista nera, Merlin.» Arthur tamburellò per tre volte i post-it sul marmo come avvertimento, dedicando al corvino una smorfia.
Si alzò dallo sgabello aiutandosi con la stampella, avvicinandosi alla sorella; nell’allontanarsi, però, colse i due occhi castani di Ginevra su di sé. Occhi che sapevano di aver visto.
 



 
Seconda Settimana, Mattina
 



Freya si sentiva decisamente meglio quel Mercoledì rispetto al precedente: la prima sera di “lezione” aveva combinato un pasticcio dopo l’altro al punto da costringere Arthur ad esentarla dal continuare.
Così, si era rimboccata le maniche e si era esercitata a casa mentre Merlin, rientrato sfinito dai suoi turni, riprendeva in mano la chitarra solo per fissarla, senza mai sfiorare neanche una corda.
Si era impegnata molto nel riuscire a disegnare un qualcosa che avesse, anche vagamente, le sembianze di un drago sputa fiamme sulla schiuma e, nonostante i suoi malriusciti tentativi, Freya non aveva demorso: doveva riuscirci, ormai era diventata una sfida personale.
Era stanca di essere guardata con aria compassionevole dagli altri, sentirsi continuamente derisa o in difetto. Freya era stanca di essere stanca.
Come se non bastasse, quel Gwaine continuava a lasciare bigliettini al tavolo tra una birra e un’altra, scrivendo quanto Europa fosse stata scortese nell’averlo sedotto e poi abbandonato. Freya li recuperava ad uno ad uno per poi accartocciarli e cestinarli.
«Chi cavolo è questa Europa, adesso?», domandò – più a se stesso che a qualcuno in particolare – il Pendragon.
«Magari avrà bevuto troppa birra ultimamente», aveva proposto sarcastico Merlin.
«O magari saranno deliri d’amore. Forse ha trovato quella giusta», fu la timida e rosea opinione di Gwen accantonata dai due ragazzi con occhiate e “Nahh” sincronizzati.
Freya aveva preferito optare pe un ragionevole e saggio silenzio, standosene in disparte.
Quel Mercoledì mattina era tutto diverso: i silenzi tra lei e Merlin le pesavano meno delle sue recenti attenzioni – che stavano cominciando a insospettirla al punto da portarla a conclusioni capaci di scaraventarla al suolo con durezza.
Quel Mercoledì mattina era diverso. Al bar c’erano solo lei, Arthur, Mordred e…
Repentina, si abbassò come una talpa (o topo, o qualsiasi altro animale sia) in quello strano gioco col martello, fino a toccare il suolo con le ginocchia, facendo rotolare la penna accanto ai piedi di Mordred che intanto alzava un sopracciglio con fare confuso.
Freya si rese conto di sembrare una perfetta idiota, ma sperò che almeno Mordred la capisse. Restò nella sua goffa e patetica posizione, supplicandolo con i suoi occhi di terra umida di coprirla.
Lo vide disorientato e in parte desideroso di capire cosa stesse succedendo, Freya poteva coglierlo dal tipo di sguardo che le stava riservando.
Quella poteva essere la prova del nove: Mordred era una persona di cui fidarsi o no? Era dalla sua parte o le remava contro come tutti gli altri? Era un suo amico o l’ennesimo traditore?
«Ehi, amico. Una birretta, per favore».
Gwaine si era inusualmente fermato al bancone, prendendo posto su uno sgabello. “Perché?!” si domandò allarmata Freya.
«Certamente».
Mordred prese una Heineken dal frigo stappandola, lasciandola scivolare accanto ai gomiti dell’avventore.
«Grazie», Gwaine sollevò la bottiglia in segno di brindisi. «Alla salute!»
Freya, ancora ferma in quella posa discutibile, vide Mordred sorridere di rimando per poi afferrare una pezza e asciugare il boccale del cliente precedente.
«Tu devi essere il francese, il futuro sposo dell’altra Pendragon. Non sei così male come ti descrive la bionda principessa».
«Oh, beh. Quella la offre la casa allora».
«Ci speravo in realtà».
Nel sentire la risata sincera e bighellona di Gwaine, Freya provò l’impulso di scuotere il capo con esasperazione, portarsi una mano al fianco e l’altra alla fronte con teatrale arresa. Gwaine le faceva esattamente quell’effetto: le faceva dimenticare di essere nascosta dietro al bancone del locale in cui lavorava per evitare l’uomo che aveva baciato ad una festicciola da quattro soldi, rendendola senza pensieri o preoccupazioni. La trasportava, per un brevissimo istante, in un mondo sbagliato dove l’unico errore da correggere era la sua sfacciataggine. Eppure, Freya rise silenziosamente per altro: Mordred.
Era rimasto lì, tranquillo, senza smascherarla o chiederle nulla. Non che fosse un gesto di grande lealtà, ma in quel momento per Freya significò molto.
«Ricordati di salutarmela», Gwaine svuotò la birra. «Quella donna non smetterà mai di sorprendermi. È sempre stata una donna intraprendente ma… il matrimonio… Wow».
Un secondo. Morgana? E… Gwaine?? Cosa c’entrava lei con Gwaine?!
Gwaine lanciò qualche penny sul marmo alzandosi, cominciando ad incamminarsi verso l’uscita. «Felicitazioni!»
Mordred aggrottò la fronte, tenendo lo sguardo sul moro. «Chi era quel tizio?»
Arthur, arrivato da lì a poco dal bagno insieme alla sua inseparabile stampella stile Dottor House, scrollò le spalle con noncuranza. «Quello con cui la tua ragazza andava a letto».
«Cosa?»
«CHE?!»
Non servì a nulla mordersi la lingua con tutta la forza di cui era capace, Freya era perfettamente consapevole di aver squittito come una psicopatica e il modo in cui Arthur abbassò lo sguardo su di lei non l’aiutò affatto.
«Cosa stai facendo
Freya recuperò svelta la penna accanto alla scarpa di Mordred, dileguandosi a gambe levate verso i tavoli, distendendo eventuali pieghe sul grembiule con aria innocente.
Il Pendragon, letteralmente interdetto, si voltò in direzione del francese. «Si stava nascondendo?»
«Je ne sais pas».
Mordred sogghignò quando Arthur, irritato dall’accento francese, grugnì in una smorfia.
 





Londra, 23 Dicembre 1987
 



Dopo aver trascorso un giorno nella sorprendente quanto natalizia Londra, Igraine aveva appreso ben tre cose importanti:
  • Alice amava il Natale e i fiori in maniera a dir poco maniacale;
  • Gorlois – Lois – era un cliente affezionato del bar. Passava lì maggior parte del suo tempo per Vivienne, una riccia biondina che vedeva sempre in compagnia di due uomini;
  • Vivian, quell’altezzosa diciasettenne che continuava a dirle della “stray” (si sarebbe documentata il prima possibile sul suo significato), le doveva un favore.

Vivian aveva appena riscaldato la punta dell’ago sul fornello pronta a forarsi l’elica quando Igraine, arrivandole alle spalle, le picchiettò sulla schiena.
«Ma sei impazzita?!» sbraitò lei, da quel momento in collera col mondo intero per essere stata interrotta nella sua missione piercing segreta. Se Alice l’avesse scoperta… probabilmente le viole nel vaso in cucina sarebbero state il suo ultimo pasto. «Se mia madre mi scopre renderò la tua vita un Inferno».
Quella frase sembrava quasi un mantra per quella ragazzina, pensò Igraine. Tuttavia, la giovane De Bois preferì non emettere giudizio mostrandole invece, ad una spanna dal viso, i suoi pattini a rotelle. «Insegnami».
«Cosa
«Insegnami》 , ripetette, porgendole quei dannati cosi.
Vivian la squadrò come se le avesse chiesto di sterminare una famigliola di coniglietti felici. «Non se ne parla proprio. Io ho già il mio bel daffare. Sparisci, stray».
Igraine non mollò la presa. Rimase immobile, senza spostarsi di un solo centimetro. «Beh… è un peccato perché vedi, io so cose che Alice non sa… tipo la storia della finestra».
Vivian le riservò una smorfia scocciata.
«… E del piercing».
Vivian mise su una faccia imbronciata, puntandole contro la punta sterilizzata dell’ago. «Tu
Igraine allargò le labbra in un buffo sorriso, sollevando i pattini come a brindare all’augurio di una vita eterna.
Vivian sbuffò, comprendendo di essere con le spalle al muro.


*

 
Igraine non avrebbe mai pensato che a Londra potesse fare così freddo o potesse esserci così tanta neve; il viale, a Grosvenor Road, era interamente ricoperto di bianco fatta eccezione per l’asfalto. La strada era una lunga lingua grigia dove, di rado, qualche auto passava alla stessa velocità di una cane al passeggio.
Il sole non era ancora sorto e le due ragazze si erano incappottate come due escursioniste pronte a scalare l’Everest.
In tutta sincerità, abbandonare il suo lettuccio caldo e accogliente, trascinarsi fuori strada e sostenersi ad una sprucida Vivian al fine di non rompersi la testa, non era una prospettiva allettante per la giovane De Bois, ma doveva farcela: doveva imparare a camminare su quei pattini a rotelle al costo di ripetere quella discutibile esperienza ogni mattina.
Lei e Vivian non si scambiarono molte parole: la prima si concentrava nel non fracassarsi il cranio a due giorni da Natale, mentre l’altra le ordinava cosa fare di tanto in tanto. Eppure, per Igraine andava benissimo anche così. Collaborare, anche sotto minaccia, le faceva ben sperare che un giorno il loro rapporto si sarebbe approfondito e che ne sarebbe venuta fuori un’ottima amicizia. Questo perché il Natale era alle porte e perché Igraine era una ragazza ottimista.
 







Londra, Giugno 2015
Seconda settimana, pomeriggio
 



Stava fissando quella torta col chiaro intento di divorarla, questo era palese. Poco ci mancava che si leccasse i baffi come una tigre impaziente di sbranare la sua preda. Fu per questo che George – che TANTO aveva sudato per realizzarla – si frappose tra la Pendragon e il dolce, mentre una gocciolina di sudore gli rigava la fronte. «Serve qualcosa?»
«Non ci sono più dolci di là».
«Provvederemo subito».
George fece per voltarle le spalle, ma nel notare lo sguardo assatanato di Morgana fisso sul surfista in pasta di zucchero decise scrupolosamente non allontanarsi dalla sua dolce bambina.
«Mi chiedevo quante calorie potessero esserci», lo anticipò Morgana, ripensando alla moltitudine di zuccheri che aveva assunto in quella settimana. Non voleva di certo indossare una squallida divisa extralarge come quella stupida di Freya! Ma chissà, forse quell’idiota di Merlin preferiva le ragazze ingombranti.
«V-Veramente… MOLTE.» George tentò di nascondere l’inquietudine che la Pendragon sapeva lasciargli sulla pelle. «Noi trattiamo bene i nostri clienti… perché le torte sono per loro, per i clienti».
L’espressione estasiata di Morgana si tramutò in un ringhio malevolo: «Cosa intendi dire?»
Prima ancora che George potesse proferire anche solo mezza sillaba, Morgana corrucciò le folte sopracciglia in mondo ostile, bofonchiando cose tipo: «Parli come quell’idiota, sembra di sentirlo. Voi uomini, siete tutti uguali! Mi è passata anche la fame!» detto (o sarebbe più corretto, sbraitando ciò), Morgana Pendragon uscì impettita dal laboratorio sbattendo senza alcuna grazia la porta.
 
*


Quando Arthur staccò l’ennesimo scontrino ad una finta rossa sui quaranta accompagnata da una diciannovenne piena di brufoli, provò un forte senso di appagamento: i suoi polli si stavano rivelando meno incapaci di quel che pensava. Forse si sarebbe addirittura dovuto preoccupare per chi, tra i suoi dipendenti, sarebbe riuscito per primo a disegnare quel drago sulla schiuma. Non avrebbe sopportato l’idea di doversi congratulare con sua sorella, né tanto meno con Mordred.
Merlin, invece, si stava rivelando stranamente efficiente; in quell’ultima settimana si erano telefonati diverse volte e, quasi sempre, Merlin gli aveva fatto ascoltare qualche accordo.
«E’ incredibile», commentò Morgana, divorando il terzo pasticcino alle nocciole di fila.
Masticava famelica, mantenendo gli occhi ridotti a due fessure su Emrys.
«Quelli sono per i clienti», le fece presente il fratello.
Morgana, ignorandolo del tutto, azzannò un bignè alla crema sporcandosi parte della bocca. «Dovrebbero insegnare l’educazione a certi individui».
«Tipo Mordred?»
La Pendragon gli serbò un’occhiata omicida; con il muso sporco di crema e zucchero a velo, Arthur se la immaginò a svolazzare nel cielo con una scopa provvista di un grosso sacco pieno di dolciumi alle spalle.
«Mi ruba i cereali ogni mattina… e lo shampoo», si difese Arthur irritato, incrociando le braccia come un bambino capriccioso.
«Si chiama ‘condividere’, Arthur.» Morgana gettò la carte del pasticcino sul bancone, rimanendo assorta nei suoi pensieri per un po’.
Da quando era tornata a Londra non era riuscita a trovare un momento di pace per parlare con Arthur di quella cosa riguardante Uther. Prima c’era stato l’incidente, poi la sparatoria, l’arrivo di Mordred e… quel test di gravidanza che aveva nascosto sopra il suo armadio.
Ma adesso erano soli. Erano nel loro momento.
«Un amico di Mordred è riuscito a rintracciarla, quella Vivienne».
Arthur diventò serio di colpo.
«E’ stata un’inviata di spicco a Londra per molti anni, riuscendo a ricevere il ruolo di caporedattrice al Camelot’s. Attualmente riveste il ruolo di direttrice ad un giornale di Cardiff. A quanto pare, è restata dietro le quinte per un bel po’; molti dicono che abbia tentato il suicidio con un’overdose. Sua figlia Morgause lavora qui, al giornale di Londra».
Arthur serrò la mascella senza neanche accorgersene, stringendo forte i pugni facendo impallidire le nocche. «Questo non prova niente».
«Ma conferma l’esistenza di Morgause.» Gli occhi verdi di Morgana studiarono accuratamente il corpo di Merlin, seguendone ogni movimento. «La gente tradisce di continuo, ma raramente ha il coraggio di prendersi le proprie responsabilità. Vivienne potrebbe aver detto il vero, lei potreb-»
«E’ una drogata! Ha tentato il suicidio!» C’era rabbia nella voce di Arthur, una rabbia repressa per molto tempo. «I Pendragon non sono così, i Pendragon non tradiscono. Quella donna, qualsiasi sia il suo scopo non lo otterrà. Noi siamo gente per bene e d’onore».
Morgana non ebbe il coraggio di aggiungere nulla. Una parte di lei la spingeva a toccarsi il ventre come un riflesso involontario, ma quella razionale continuava a sussurrarle la realtà dei fatti: suo fratello non sarebbe stato dalla sua parte. Gli voleva bene, sinceramente e tanto, ma in quel momento sentì di odiarlo. Odiarlo per averla inconsapevolmente condannata al suo destino.
«Potresti scriverlo sulle t-shirt», cacciò fuori con acidità mentre avrebbe solo voluto correre a casa e distruggere quel maledettissimo test.
 
 






Londra, 24 Dicembre 1987


C’erano molte persone al Rising Sun, più di quelle che Igraine si aspettasse.
Si sentiva la schiena indolenzita a causa della seconda lezione mattutina con Vivian, ma doveva ammettere che tutto quell’ambaradan cominciava a dare i suoi frutti.
«I De Bois apprendono in fretta» le diceva sempre suo padre e, fortuna per lei, sembrava essere vero.
Quella mattina Gorlois era seduto al solito tavolino rotondo, il primo al centro dopo il bancone, bevendo la sua solita Sprite offertagli dalla casa, beandosi in silenzio della vista di Vivienne qualche tavolo più avanti.
Igraine non si era mai interessata più di tanto di che colore fossero i capelli di un cliente né tanto meno del modo in cui gli occhi cercassero un porto sicuro nel quale approdare, ma Vivienne…  Aveva occhi verdi come due smeraldi pregiati e labbra carnose rosse come petali di rosa, eppure il suo sguardo era terrorizzato. Sembrava si sentisse sol in compagnia di quegli uomini, quasi fosse invisibile ai loro occhi.
Igraine li aveva visti di sfuggita, quei due tizi. Era sempre Alice a servirli o prendere i loro ordini.
Probabilmente avevano la stessa età, ma non gli stessi interessi. Qualcosa li univa, di questo Igraine ne era certa, ma c’era un abisso immenso tra gli occhi freddi e autoritari del tipo a destra dai sorrisi aguzzi del biondo dalla fronte larga.
L’uomo dagli occhi di ghiaccio non rideva mai: si limitava a sorridere piegando un angolo della bocca in un mezzo sorriso, il più delle volte rivolto al suo interlocutore. Evitava gli occhi di smeraldo della donna, ma di tanto in tanto si incantava sulle labbra piene di Vivienne e sulle sue clavicole scoperte.
L’uomo dalla fronte spaziosa, invece, osservava languidamente ogni cosa; assaporava con lo sguardo tutto ciò che la sua vista avesse da offrirgli. Gustava ogni donna del locale con occhiate penetranti, terminando il suo liquore. Possedeva una risata sinistra, quasi un ghigno.
Cosa potesse mai unire tre persone così diverse tra loro, la giovane De Bois, proprio non riusciva a comprenderlo.
Successe nel momento in cui meno se l’aspettava, con il mento appoggiato sulla mano e le luci azzurrine che si accendevano ad intermittenza: l’uomo dagli occhi di ghiaccio si girò verso di lei e la guardò.
Non che fosse durato più di cinque secondi, ma Igraine provò una strana sensazione. Non riusciva a sentirsi le gambe o sollevare le labbra verso l’alto. Era successo qualcosa.
Qualcosa che le fece battere il cuore in modo strano, forse un po’ più veloce del solito.
 




 
Londra, Giugno 2015
Terza settimana, pomeriggio



 
Merlin tentò di sfiorare le corde della sua chitarra, ma i suoni che ne uscivano sembravano tutte note fuori tempo.
Ogni volta che riprendeva in mano quello strumento, erano tanti i ricordi che salivano a galla, tutti ricordi che in certo senso lasciavano un retrogusto dolceamaro nel palato.
Riaffiorava nella mente l’immagine ammaliata di Morgana, i capelli un po’ più corti e mossi, ipnotizzata dalla musica che lui suonava per lei. Ritornava alla mente la prima volta che le aveva sfiorato la mano, la prima volta che aveva conosciuto il profumo di rose selvatiche che riposava sull’incavo del suo collo.
Freya si era stesa sul divano, addormentandosi nel giro di qualche minuto.
Merlin perse molto tempo a guardarla dormire; sembrava così indifesa, dolce e innocente. Si era ripromesso di provarci sul serio con lei, ma come avrebbe potuto funzionare se l’immagine di Morgana si sovrapponeva a quella di Freya ogni volta? Come avrebbe potuto perdonare se stesso per ciò che le aveva fatto?
L’unica persona di cui aveva bisogno in quel momento era Arthur. Aveva bisogno di sentire la sua voce e le sue scemenze per concentrarsi sulla musica, tanto che quando il suo cellullare s’illuminò mostrando il nome del Pendragon a caratteri cubitali, Merlin rispose in meno di mezzo secondo.
«Come ti sei guadagnato il titolo d’imbecille? Credi siano state le persone ad affibbiartelo o è una dote naturale?»
Merlin attivò il vivavoce, posando il cellullare sul tavolo. «Buon pomeriggio anche a te».
«Dico sul serio, Merlin.»
«Nessuno mi ha mai dato dell’imbecille!», fu la risposta con cui Merlin si difese legittimamente.
«Non essere ridicolo, io ti do sempre dell’imbecille!», gli fece ammenda Arthur, quasi fosse una cosa del tutto naturale. «Ad ogni modo, ho bisogno di sapere come ti senti. Lo avverti anche tu?»
Il ventenne, perdendo ormai il filo del discorso – assai arzigogolato e contorto del biondino -, decise di non prendersela per l’asinina sfrontatezza del Pendragon. Si portò il peltro alla bocca, posizionando le dita sul manico della chitarra in modo da ottenere un La. «Nel senso, se esiste una remota possibilità di renderti apprezzabile? Ne dubito».
«Nel senso che molto probabilmente dovrei avere da qualche parte in casa una t-shirt con su scritto “sei il miglior fratello del mondo, alla seconda”».
Merlin, che nel frattempo si era già messo a maneggiare la chitarra, si tolse il peltro dalla bocca. «Che vuoi dire?»
«Lascia perdere».
«Okay».
Regnò il silenzio per qualche istante, dopodiché la voce irritata e frettolosa di Arthur riempì nuovamente la stanza: «Il problema è mio padre, e Morgana, e tutte le cose che credevo di sapere, le persone su cui pensavo di poter fare affidamento…».
Il corvino deglutì in silenzio, percependo il sapore stucchevole della colpa nel palato; aveva mentito spesso ad Arthur, anzi, gli mentiva in continuazione. La sua vita era una menzogna e quella consapevolezza era insopportabile: tante erano state le volte in cui aveva desiderato di raccontare al suo migliore amico come si fosse sentito quando Morgana gli aveva sorriso, chiamando il loro appartamento “casa nostra”, dell’umiliazione provata nel ricevere pugni e calci da suo zio, della volta in cui era stato costretto a vedere un uomo morire davanti ai propri occhi. Avrebbe desiderato il suo appoggio dopo la partenza di Morgana, avrebbe voluto lui al suo fianco, a sorreggerlo. Mantenne un tono calmo ignorando tutto il resto, pensando solo a ciò che gli era rimasto di autentico nella vita: «Io sono dalla tua parte, Arthur. Puoi dirmi tutto».
Lo sentì prendere fiato, e non gli fu difficile immaginarselo con lo sguardo basso, seduto in completa solitudine per evitare che qualcuno lo vedesse fragile, fallibile e umano.
«Credo di avere una sorellastra», gli rivelò a denti stretti, quasi fosse una vergogna o un peccato da pagare.
Merlin lo ascoltò senza fiatare, figurandosi la silhouette slanciata del biondino un po’ piegata in avanti come a sostenere il fardello di una colpa, come se gli fosse crollato il mondo sulle spalle. Probabilmente, se gli fosse stato accanto in quel momento, si sarebbero seduti vicini e si sarebbero guardati negli occhi. Merlin avrebbe allungato una mano verso il braccio di Arthur e gliel’avrebbe stretto forte. Ma loro sapevano consolarsi anche con i silenzi, anche con parole non dette ma recepite tramite il respiro udibile come un fruscio lievissimo dall’altra parte del telefono. Perché loro erano una squadra, e una squadra sa sostenersi nei momenti di difficoltà. Una squadra consolida la tattica fuori dal campo per poi diventare invincibile durante la partita. E Merlin sapeva che Arthur condivideva questo con lui, perché loro erano questo: complementari. E quello, era il loro momento. Il lor-
«Un’altra?!»
A sbottare quella frase mezza strozzata fu Freya, svegliata dalla chiacchiere dei due ragazzi, con gli occhi sbarrati come se avesse visto un fantasma.
Merlin, boccheggiando impreparato, tentò in tutti i modi possibili di disattivare il prima possibile il vivavoce, ma non fece altro che gettare accidentalmente il cellulare sul pavimento.
«MERLIN!» sentì ragliare l’Asino irritato. «Ti avevo detto di non dire nulla a nessuno!»
Perché quello stupido cellulare non si era distrutto? Perché la chiamata non era saltata?
«Sei stato tu a parlare!»
«Sì, perché credevo di potermi fidare!»
«Io non ho fatto niente! Non è colpa mia se mi riveli un colpo di scena stile soap opera mentre stiamo parlando al telefono!» E blablabla, perché la discussione andò avanti per le lunghe, tanto che Freya, saggiamente, decise di abbandonare divano e soggiorno nel più assoluto silenzio onde evitare coinvolgimenti di qualsiasi natura.
 
 



Terza settimana, sera
 




Arthur sapeva che quella sarebbe stata la sera decisiva.
Qualcuno, tra i suoi dipendenti, sarebbe riuscito nell’impresa. Quella sera, sarebbe stato disegnato il primo drago del Pendragon’s sulla schiuma di un cappuccino.
A vederli così concentrati sulle proprie tazze fumanti gli scappò un sorrisino: sembravano scolaretti delle elementari volenterosi di far ammirare i loro capolavori all’insegnante.
Mordred, che tra un furto di cereali e un altro gli aveva detto di essersi laureato in giurisprudenza e di aver lasciato uno studio a Parigi, maneggiava il bollitore con cura estrema. I ricci sulla fronte sembravano essersi congelati. Arthur se lo immaginò ad una scrivania a studiare pratiche noiose o esclamare «Obbiezione!» in tribunale.
Forse aveva davvero del talento, ma continuava a non piacergli.
Quando si era presentato a Merlin per la prima volta porgendogli amichevolmente la mano, Arthur aveva letto l’indecifrabile nella sua espressione posata e cordiale.
Quel tizio non gli piaceva. Convivere con lui era stato uno sforzo più che apprezzabile da parte sua; Morgana avrebbe fatto bene a considerarlo come un regalo di Natale.
Tsk, figuriamoci se quella strega l’avrebbe mai apprezzato!
Sua sorella era davvero un enigma per lui.
Da piccoli si tiravano ciocche di capelli a vicenda per poi fare la pace senza mai chiedersi scusa. Era una tregua silenziosa la loro, stipulata attraverso una battuta, un rintanarsi nel letto dell’altro o cedere il proprio cioccolatino.
Crescendo, le cose si erano complicate. Era da una settimana che Morgana gli rispondeva a tono senza alcun motivo. Evitava la sua presenza quando le era possibile e raramente perdeva tempo a scoccargli qualsiasi tipo di occhiata. Quella sera non si era neanche allontanata dalla sua stanza.
Era per la questione di Morgause, si era convinto Arthur, ma per qualche ragione sentiva che c’era dell’altro. Forse perché in quegli ultimi tempi si erano nascosti troppe cose: Morgana aveva avuto, a sua insaputa, una storia col suo migliore amico, poi di punto in bianco aveva deciso di sposarsi con un uomo che conosceva da pochi mesi. E lui si era tenuto per sé le proprie preoccupazioni, le proprie domande.
Erano cresciuti, lui e Morgana, e si era creato un varco tra loro.
Freya si mordeva un labbro tenendo il bollitore alla giusta altezza, cercando di ricreare con uno stuzzicadenti l’immagine di un drago.
Freya… Quella ragazza gli era sempre stata indigesta. Prima non ne comprendeva il motivo, ma ora era chiaro come il Sole: Merlin era la persona che più amava al mondo ed era tremendamente difficile accettare l’idea di condividerlo con qualcuno.
Sperava fosse Merlin a riuscirci, perché sarebbe stato giusto così: loro due erano una squadra. Loro due. Solo loro, contro tutto il mondo. (Anche se a quell’idiota servivano corsi di buon senso – prima lezione: mai usare il vivavoce quando la tua ragazza è nei paraggi).
Questo significava amarlo?
«Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!»
Le labbra di Gwen tremolarono dall’emozione, lo sguardo fisso sulla tazza. «Ce l’ho fatta!»
Anche se la bocca di Arthur rimase normalmente serrata, il pallore sul suo volto e la paura di lasciar cadere la stampella da un momento all’altro suggerivano uno stato d’animo differente.
Non doveva riuscirci Gwen! Il primo a disegnare quel cavolo di drago doveva ess-
«Finito anche io!» Freya sollevò le mani dalla tazza portandole verso l’alto. «Sono seconda! Sono seconda!»
Forse sarebbe svenuto.
Si voltò verso gli ultimi due rimasti, notandoli in difficoltà. «Ma siete due incapaci!», si lagnò, più che altro perché a causa della loro inabilità nel disegnare uno stupidissimo lucertole piromane adesso avrebbe dovuto occuparsi della scomoda situazione nella quale si era cacciato.
«E’ difficile!» si difese Merlin.
«Ho paura che la testa del mio drago sia diventata una pera», considerò Mordred, osservando con occhio critico la sua creazione.
Arthur era indeciso se schiaffarsi una manata sulla fronte o cacciarli a pedate dal bar, ma anche questo suo dilemma interiore fu ostacolato da una Gwen letteralmente su di giri.
«Ce l’ho fatta! Ho estratto Excalibur dalla roccia!» disse, con la voce che man mano si alzava di un semitono, indirizzando i suoi occhi verso Arthur, non accorgendosi di essere finita al centro dell’attenzione di tutti. Tossicchiò, abbassando impercettibilmente lo sguardo imbarazzata. «Io ho estratto Excalibur dalla roccia», ripeté con più calma, indirizzando i suoi occhi scuri in quelli straniti e impreparati di Arthur. «Io ho estratto Excalibur dalla roccia e per questo tu non puoi licenziarmi. Sono stata la migliore: mi sono impegnata, ho bevuto molto caffè per riuscirci e ce l’ho fatta. Merito di stare qui e nessuno può negarmi questo posto. Io ho bisogno di questo lavoro.»
Il castano denso degli occhi di Ginevra cominciò a divenire una pozza di caffè amaro, la voca a diventare più roca. «Siete la mia famiglia, Arthur. Tu, Merlin e Morgana. Non mi… Non riesco a immaginarmi un mondo senza di voi.
Sono andata via. Ho rotto ogni legame, ogni contatto, perché avevo sbagliato e volevo fare qualcosa per te. Allontanarmi dalle persone che amavo era il mio gesto; non volevo metterti nella condizione di assistere a schieramenti. Io, io ti sono grata di quel che abbiamo condiviso e mi dispiace moltissimo di averti ferito. Così sono andata via, sono sparita ma ora sono qui perché che tu ci creda o no io non ho mai smesso di amarvi. Voi siete la mia famiglia: ci siamo aiutati nei compiti in classe, abbiamo riso, scherzato, ne abbiamo passate tante insieme. Io rivoglio la mia famiglia e… ho estratto Excalibur dalla roccia e quindi non mi muoverò di qua finché non mi sarà data una divisa».
Merlin cercò il viso di Arthur. Il Pendragon era muto, fermo come una statua di marmo. I muscoli tesi, una linea retta sul volto.
Non si domandò neanche per un istante se Arthur avrebbe fatto la cosa giusta, Merlin sapeva con certezza che l’avrebbe fatto.
Il biondino avanzò di qualche passo aiutandosi con la stampella, in modo da avere una visuale migliore della tazza di Ginevra. Esaminò la schiuma senza la minima espressione facciale. Alzò il capo sulla mulatta, dicendole: «Presentati domani mattina prima dell’apertura. Odio i ritardatari».
Le labbra sottili della ragazza si allargarono d’istinto in un sorriso di gioia. «Certo», annuì.
Prima di allontanarsi dal bancone, Arthur lanciò uno sguardo anche alle creazioni degli altri baristi.
«Passabile», giudicò con superbia il disegno di Freya. «Questo cappuccino dovrebbe essere illegale», disse assumendo una smorfia denigratoria alla vista della tazza di Merlin, «e… caro il mio Mordred quella testa non assomiglia affatto a una pera, ma ad una mela».
«Beh», Mordred posò lo stuzzicadenti sul marmo allargando sportivamente le labbra in un sorriso, «potrei dire di aver creato il primo cappuccino Apple».
Ginevra incurvò lievemente gli angoli della bocca all’insù cogliendo l’allusione alla sua metafora, mentre persino Merlin si lasciò andare ad un accenno di risata.
Il Pendragon, d’altro canto, soffiò aria dal naso contrariato, brontolando una Pendragata che Merlin accolse con un sospiro di rassegnazione.


*

 
«Io cominciò ad avviarmi a piedi», Freya uscì dal bar sistemandosi i capelli sulle spalle alla bell’e meglio, fermandosi al fianco di Merlin.
Quest’ultimo fece per staccarsi dal muro sul quale si era appoggiato, dicendole che non c’era motivo di andarsene da sola e che a lui avrebbe fatto piacere andarci insieme.
«Preferisco così», mentì. «Poi, so che devi parlargli».
Freya indicò con lo sguardo il Pendragon che usciva dalla porta secondaria insieme alla sua inseparabile stampella, lasciando a Mordred l’onore di chiudere il bar in completa solitudine. Merlin piegò la bocca in un mezzo sorriso.
«Ci vediamo dopo», gli disse lei.
«Sì», Merlin rimase con la schiena contro il muro, «Ci vediamo dopo».
Forse avrebbe dovuto abbracciarla, baciarle una guancia o ancora meglio insistere per accompagnarla, ma non fece nulla. Freya rimase impalata guardarlo senza ricevere il commiato che avrebbe voluto, decidendosi a voltargli le spalle e incamminarsi da sola.
«Ha scoperto che ti droghi?»
Merlin voltò fulminio il viso alla sua sinistra, irrigidendosi come un cadavere alla vista di un Arthur in piedi al suo fianco alla dottor House style.
L’Asino increspò le sopracciglia. «Era una battuta», spiegò come se fosse un’ovvietà.
«Haha!»
«Sembrano esserci problemi con la dama del lago», lo burlò, «o era la ragazza delle fragole, non ricordo».
Fosse stato un altro giorno, Merlin gli avrebbe risposto a tono, probabilmente chiamandolo “Asino” da copione, ma quella volta non lo fece. Si ritirò a riccio, cercando nella parete alle proprie spalle un appiglio salvavita. «Possono due persone sentirsi sole stando insieme?»
«Potrebbero», Arthur rimase al suo fianco, guardando in avanti.
«Ci sono volte in cui mi sembra difficile anche salutarci la mattina, incrociandoci in cucina o in bagno. Questo cosa significa?»
«Che non è una cosa da poco».
Quando Merlin si voltò a guardarlo, Arthur aveva i suoi occhi fissi su di lui.
«L’amore, se è vero, non è mai facile. Solo perché s’incontrano delle difficoltà non vuol dire che sia tutto sbagliato. Freya è quella giusta». Gli costarono, gli costarono molto quelle parole, ma nel giro di tre settimane Arthur era giunto alla conclusione di essere innamorato del suo migliore amico e per questo provare una sorta di fastidio nei confronti della sua ragazza, ma grazie al discorso di Ginevra aveva capito anche un’altra cosa: amare vuol dire mettere il bene dell’altro prima del proprio.
«Lo pensi sul serio?»
«Sì».
Era una serata di Giugno come le altre, ma quel giorno soffiava un venticello leggero che rendeva l’afa estiva ben lungi dall’essere patita. Merlin non seppe dirsi se furono le parole di Arthur o il fatto che indossasse una leggerissima t-shirt a mezze maniche, ma sentì una lama di ghiaccio adagiarsi sulle braccia, scendendo fino ai polsi, sciogliendosi nel palmo della mano. «Mi dispiace per la telefonata».
Arthur contorse le labbra in una smorfia. «Anche a me».
Ci furono due minuti di silenzio. Due minuti in cui Merlin si convinse che le parole di Arthur contassero più dei suoi sentimenti. Due minuti di silenzio, prima che Mordred fece capolinea alle spalle del Pendragon, portandoselo via.
 








Freya non ne era certa al cento per cento, ma più diminuiva la distanza che la separava dall’officina più si convinceva di aver già percorso in precedenza quella strada. Una volta trovatasi sotto le luci fredde dell’insegna al neon, desiderò di possedere il potere dell’invisibilità.
Quella strada, quell’indirizzo, quell’officina…
«Percival mi odierà. Finirà per incolparmi del braccio rotto e della gamba amputata».
«E’ abbastanza stupido da non farlo».
«Ti odio!»
«No, mi ami».
«Credo che abbiamo bisogno della nostra intimità e per farlo…»
«Ok, Helena. Lo terrò io, ma non posso assicurarti di tenerlo lontano da motori e chiavi inglesi».
«Ama sentirsi coccolato e adora le canzoni di Natale».
Freya non riuscì ad ascoltare altro che la bionda seduta sul tavolo degli attrezzi balzò giù rischiando di rompersi il capo, sistemandosi goffamente la gonna troppo larga per la sua corporatura. La vide calarsi gli occhiali da sole sugli occhi, salutando l’uomo chinato sul motore di un auto con una pacca sul fondoschiena.
Non la degnò di uno sguardo quando le passò dinanzi e, senza la minima traccia di cattiveria, Freya ringraziò chiunque la stesse guardando dall’alto per questo.
Si fece coraggio – con grande sforzo –, rimproverandosi di non aver mai chiesto a Merlin il nome dell’amico che gli aveva generosamente riparato l’auto ad un prezzo più che ottimo.
Si avvicinò con cautela, a passi lenti – quasi in punta di piedi – fermandosi alle spalle del ragazzo in tuta che canticchiava quel che parevano essere i versi di Last Christmas.
Aveva la testa infilata nel cofano, i folti capelli castani lasciati liberi di solleticargli parte del collo.
«Last Christmas, nananana, but the very next day nananana. This year nananana I’ll give it to- Europa!»
Un sorriso pruriginoso si disegnò sul volto di Gwaine che, voltatosi, aveva incontrato la figura taciturna e ibernata di Freya.  «Allora lo possiedi un cuore», canzonò quello sistemandosi a qualche passo da lei.
Freya notò qualche macchia nera sulla tuta e sulle guance del moro. Quest’ultimo continuò, con fare piuttosto convinto: «Sai, pensavo proprio a te mentre cantavo. Te che prima mi seduci e il giorno dopo fingi di non conoscermi. È davvero orribile ciò che hai fatto».
«Io…», la voce di Freya era così flessibile da potersi spezzare col vento. «Mi dispiace, non avrei voluto».
Gwaine sembrò quasi intenerito dal viso angelico e mortificato della ragazza. «Con quegli occhi che ti ritrovi è difficile non perdonarti».
Freya aprì la bocca per dire qualcosa, ma non uscì alcun suono. Era come se qualcuno le avesse tirato via la lingua a morsi e le avesse strappato le corde vocali.
«Mi piacerebbe rivederti».
Il tono di Gwaine era serio ma allegro, i suoi occhi di moka scura vagavano sulla faccia della ragazza cercando di strapparle un consenso con un mezzo sorriso o con del rossore sulle gote. «Magari per un caffè. Potremmo parlarci come l’altra sera, senza impegno».
Gwaine non era un tipo apposto, quella Helena n’era la prova lampante: probabilmente si divertivano alle spalle di quel pover uomo con la gamba amputata o forse Freya vedeva traditori ovunque. Comunque stesso le cose, Freya sapeva di non essere l’unica per Gwaine. Le sue parole, poi, quanto potevano valere?
Eppure una parte di lei combatteva per nascondere il leggero tremolio della voce e la voglia incontrollabile di sorridergli apertamente. «Gwaine i-»
«Lo so, lo so: sono sempre in ritardo ma ho le mie buone ragioni e… Oh, sei già qua».
Quando Merlin entrò nell’officina sorridendo spensierato fermando affianco a lei, Freya distinse un tonfo sordo nello stomaco, come se avesse divorato tonnellate di cemento armato. Si sentì dolorosamente in colpa e sporca come mai in vita sua.
Vide Gwaine nascondere la delusione con la sua solita allegria bighellonante mentre sbeffeggiava Merlin come un vecchio amico del liceo.
Colse un sapore acre nel palato quando Gwaine scosse il capo rifiutando i soldi del corvino, fingendosi offeso per il gesto. «Per chi mi hai preso? Non sono mica un Pendragon, io!»
«Beh, con tutte le birre che scrocchi…», mormorò sarcastico Merlin, prendendo inaspettatamente la mano di Freya. «Grazie per averci tenuto la macchina per tutto questo tempo e… grazie per averla aggiustata».
«E’ stato un piacere», Gwaine spostò lo sguardo verso Freya come se non la conoscesse. «A questo proposito, sarebbe opportuno presentarsi. Sono Gwaine. Ti porgerei la mano, ma temo che non gradiresti», le disse, mostrandole i guanti unti.
«Freya».
«Freya», ripetette lui, stavolta rivolgendosi al corvino, lasciandogli una pacca sulla spalla. «Non te la far scappare, amico. A farle scomparire ci penso già io».
Merlin ridacchiò imbarazzato, afferrando al volo le chiavi dell’auto che Gwaine gli aveva lanciato. «Sei un caso disperato».
«Qualcuno doveva pur tenere testa alla principessa».
Si salutarono con una stretta al braccio.
Freya seguì il suo fidanzato nell’auto, accorgendosi quanto fosse sereno quella sera. Non ebbe il coraggio di sollevare lo sguardo sul parabrezza e incontrare gli occhi delusi di Gwaine. In quel momento, fosse stato possibile, sarebbe scomparsa all’istante.
«C’è una sorpresa per te», le disse Merlin sereno, mettendo in moto.
Solo in quel momento Freya notò la busta di plastica adagiata ai suoi piedi. La prese tra le mani, sentendo un tuffo al cuore alla vista della confezione di fragole.
«Forse dovremmo provarle con la Nutella, sai?»
Freya cacciò via quella morsa alla bocca dello stomaco con un sorriso. «Credo sia un’ottima idea».
 




Londra, 25 Dicembre 1987
 


Alice, Vivian e Igraine si erano riunite a tavola per festeggiare il Santo Natale.
Si erano date del bel daffare ai fornelli e con le decorazioni – Vivian più che altro si limitò a piluccare nei vassoi, fingendosi innocente.
Per Igraine quello era il primo Natale passato senza la sua famiglia, ma Alice era riuscita a rendere il tutto più che gradevole.
Prima di mangiare, la donna congiunse le mani in segno di preghiera, cominciando a parlare ad occhi chiusi: «Dio, ti ringraziamo per il cibo presente su questa tavola e per i bei giorni felici che ci hai donato. Ti sono grata per aver allontanato Gaius dalla mia casa, almeno per il giorno di Natale. Spero che tu lo protegga, ma so che lo farai. Benedici la mia amata famiglia e veglia su tutte le madri e i bambini del mondo, amen».
Igraine guardò spaesata la donna, alternando lo sguardo da Alice a Vivian.
«In realtà, Gaius odia il Natale. Per lui sarebbe stato una tortura passarlo qui, a casa con noi», confessò Alice.
Igraine era a conoscenza che Alice fosse cristiana, esattamente come lo era lei, ma ignorava quel lato singolare della donna. Alice non era una persona ordinaria, Alice aveva qualcosa di speciale.
Quella biondina astiosa, invece, non faceva altro che darle della “stray” ogni volta che ne aveva l’opportunità e, come se non bastasse, la minacciava come se non ci fosse un domani, allorché Igraine decise di schiarirsi la voce e congiungere le mani per parlare con Dio: «Dio, ti ringrazio per avermi dato la possibilità di venire qui a Londra e conoscere persone meravigliose come zia Alice e…», Igraine mise su un mezzo sorrisetto provocatorio, «e molte altre, ma avrei una piccola richiesta da farti: aiutami a comprendere il significato della parola stray che Vivian continua ad attribuirmi ogni volta che deve minacciarmi e, ti prego, fa’ in modo che lei non utilizzi quella tinta verde rame che nasconde tra la biancheria-»
«Cosa?» fu la domanda accusatoria di Alice.
«Ehi!» Vivian esplose come un vulcano in eruzione, colorandosi di rosso la faccia per la rabbia. «Ti avevo detto di non dirlo alla mamma!» Ringhiò alla bionda.
«Amen.» Igraine fece il segno della croce con estrema tranquillità. «L’ho detto a Dio, non ad Alice», si giustificò con innocenza.
«Io ti ammazzo!»
«Potrei considerarlo come un gesto d’intolleranza».
Alice si sporse sul tavolo ad osservare bene sua figlia. «Cos’è questa storia?»
Da lì, fu chiaro per Igraine che la convivenza con Vivian non sarebbe stata cosa facile, ma almeno quella biondina aveva compreso che la giovane De Bois non si sarebbe fatta mettere i piedi in testa da nessuno.
 



Londra, Giugno 2015
Ore 23.40







Arthur si svegliò di scatto nel suo letto, destato da un pianto incessante e familiare.
Si sbracciò per arrivare all’interruttore della abat-journ, riuscendo ad accendere la luce solo dopo aver urtato il suo orologio e la sveglia.
Il pianto continuava. Non riusciva a sopportarlo.
Si sedette sulla sponda del letto, cercando con gli occhi azzurri allarmati la sua stampella. Quando si mise in piedi per raggiungerla, questa cadde al suolo insieme al biondo. Il Pendragon strinse i denti, sentendo la gamba ingessata come una vera spina nel fianco. Afferrò la stampella, cercando di rimettersi in piedi con uno sforzo titanico.
Ricordò della volta in cui Morgana entrò paralizzata in casa insieme a Uther. Igraine non c’era, non era tornata a casa con loro.
Arthur chiese più volte dove fosse sua madre, ma Uther lo ignorò rintanandosi nella sua stanza, lasciando soli e confusi i due bambini. Morgana gli disse di aver visto la faccia di Topolino dal finestrino, poi la strada capovolgersi e un dolore enorme alla testa. C’era del sangue sul volto della mamma, gli occhi erano chiusi.
La prima volta che sua sorella pianse, Arthur fu schiaffeggiato dal padre. Morgana s’intrufolò nella stanza del fratello, sgattaiolando sotto le lenzuola.
Uther in poco tempo raccolse tutti gli oggetti, le foto e gli abiti di Igraine dalla villa, riponendoli nel garage. Guai a chi osava pronunciare il suo nome, Uther non avrebbe risposto di sé.
Morgana, che tra i due era sempre stata la più ribelle, escogitava mille diversivi per nascondersi in garage, rovistando tra gli scaffali riposti lì dal padre. Una volta riuscì a recuperare una vecchia videocassetta; la coprì con la maglietta, trotterellando nella stanza del fratello.
Abbassavano il volume al massimo e restavano a guardarla fino a tardi con gli occhi stanchi, addormentandosi vicini con l’immagine di Igraine impressa nella mente e sullo schermo.
Dal giorno dell’incidente, Morgana soffrì di incubi per molto tempo. Si svegliava nel cuore della notte agitata, gridando per la paura o chiamando con un urlo spezzato la madre.
Erano tutti quei ricordi a trascinare Arthur in corridoio, farlo sforzare come se da quello dipendesse la sua vita, raggiungendo a fatica la stanza dove Morgana stava piangendo tra le braccia di Mordred. Arthur aprì la porta con un gesto secco, piombando tra le braccia della sorella, spostando a forza il francese di lato.
«Ha cominciato a piangere nel sonno, io non…»
«Ci penso io a lei», tagliò corto Arthur, zittendo l’altro. Prese tra le mani il viso di Morgana, asciugandole le lacrime con i pollici. «Mi dispiace, okay? Avevi ragione, ho sbagliato. Proveremo a contattarla, te lo prometto».
Morgana chiuse gli occhi, mordendosi forte il labbro, tanto che Arthur temette che da lì a poco si sarebbe ferita. «Mi dispiace, sono stato un idiota.» Il fratello la strinse in un abbraccio, tenendosela stretta al petto.
Morgana pianse senza sosta, come se fosse impossibilitata nello smettere. Arthur tentò di consolarla abbracciandola, carezzandole i capelli corvini, asciugandole le lacrime, sussurrandole scuse, ma fu tutto inutile. Così, si alzò dal letto, permettendo a Mordred di raggiungere la sua futura sposa, allontanandosi nel corridoio, fermandosi dinanzi al telefono fisso.
Compose i numeri con urgenza, sollevando la cornetta. Squillò per due volte.
«Pronto?»
«Non riesce a calmarsi. Piange e io non so cosa fare. Lei ha bisogno di te».
«Arrivo».
Arthur rimase fermo all’entrata, aspettando con ansia che suonasse il campanello. Era stato l’unico a consolare Morgana dopo la morte della madre, lui era l’unico in grado di calmarla. Ma c’era stata un’altra persona nella vita di sua sorella, una persona a cui Morgana era molto affezionata. L’unica persona che dopo Arthur sapeva confortarla.
Quando udì scampanellare, Arthur si fiondò alla porta aprendola in meno di un secondo.
«Dov’è?»
«Di là, con Mordred», Arthur si fece da parte, zoppicando sull’unica gamba sana, in modo da permettere a Gwen di entrare. Il Pendragon non si sorprese di vederla in pigiama. «Grazie per essere venuta».
Ginevra, la faccia pulita e i capelli arruffati, gli dedicò un sorriso sincero per poi farsi strada sa sola.
Quando Gwen entrò nella stanza, Morgana sollevò lo sguardo affranto su di lei. La mulatta salì a gattoni sul letto, circondando l’amica con le sue braccia. Morgana si lasciò abbracciare senza opporre resistenza, rilassandosi pian piano che la mano di Ginevra le carezzava la schiena. Mordred si fece da parte, lasciando le due ragazze da sole, richiudendosi la porta alle spalle per raggiungere Arthur in soggiorno.
Passarono quindici minuti legate l’una contro l’altra e man mano il pianto di Morgana sfumò fino a ridursi ad un naso gocciolante e un viso arrossato.
Con il mento poggiato sulla spalla dell’amica, Morgana tirò su col naso, ritrovando la forza che l’era mancata quando nel sonno aveva rivisto se stessa distesa in una sala ospedaliera, con il volto grondante di sudore e le gambe divaricate. Era sola, nessuno aveva osato restare al suo fianco. Con l’accentuarsi delle contrazioni, anche i medici lasciavano la sala.
Era sola.
«Aspetto un bambino».
Morgana si staccò dalla stretta di Gwen, incatenando i suoi occhi di smeraldo in quelli scuri e accoglienti dell’amica e tutto salì a galla. Riaffiorarono nitide nella mente le immagini dell’uomo che l’aveva colpita due volte al volto, dello sparo, Merlin accasciato al suolo, il bacio sul tavolo da cucina di Gaius. Poi riemersero dalla sua memoria le parole che lei e Merlin si erano detti, le sue mani affusolate sul proprio corpo e la sua lingua sul collo. Ricordò di aver percepito la sua presenza come una scossa elettrica, mentre tutto intorno diventava caldo e incolore. Ricordò di averlo stretto al petto e di averlo baciato due volte, abbandonandosi completamente al piacere di assaporarlo ancora e ancora e ancora.
«Non so di chi sia.» Non c’erano più lacrime a rigarle il volto già bagnato, ma i suoi occhi spavaldi nascondevano la paura.


 
 
 
Cambiamenti. Trasformazione.
Ti è mai capitato? Svegliarti un giorno e guardare tutto da un altro punto di vista?
Tutto sembra assumere una forma diversa, preannunciando l’avvento di un nuovo inizio.
Te ne sei accorto senza desiderarlo; la tua vita ha preso una piega differente.
Ma il vero problema è: cosa farsene del cambiamento?
Lo accoglierai a braccia aperte oppure distruggerà ogni tua certezza?




 




* Relie's corner*
Il Rising Sun è il nome della taverna di Camelot nella serie;
- La prima - e unica - battuta in inglese di Igraine è "Piacere di conoscerti, Vivian";
- Per chi non lo sapesse "Hi" vuol dire "Ciao". Nella scena Igraine/Gorlois ho giocato con la somiglianza fonetica di "Ahi" e "Hi";
- "Get out, stray" vuol dire letteralmente "Sparisci, randagio". (Se ve lo state chiedendo sì, Vivian insulta Igraine chiamandola "randagio", ma voi pensate alla povera Igraine abituata alla lingua italiana e... capirete a cosa pensa quando le viene dato della "stray");
- Igraine, in questa storia, nasce in Italia ed ha radici francesi (per forza, se pensate al suo cognome) e non sa molto bene l'inglese. Quando Alice parla con lei lo fa in italiano, per il resto Igraine o va ad intuito o la frase è semplice da comprendere;
- Igraine non so quanto possa essere considerata IC o OOC (tale discorso vale anche per Gorlois e in futuro per Vivienne), in quanto è un personaggio che è comparso così poco nella serie che mi sento addirittura di considerarla OC. Tirando le somme, spero solo che la 'mia' Igraine possa piacervi;
- Non so voi, ma dopo questo capitolo mi è partita la Georgana XD;
- Sì, la notizia shock era la gravidanza di Morgana, ma io ho voluto giocarvi un brutto scherzo rifilandovi la storiella della sorellastra. (Giusto perché a Natale si è tutti più buoni);
- Complimenti a tutti quelli che hanno subito pensato a Gwen per la storia del drago. Tifiamo tutti per lei <3;
- Tempo fa accennai ad una sorta di fobia di Morgana nei confronti di Topolino. In questo capitolo(ne) ho tentato di spiegarvene la motivazione: Morgana, il giorno dell'incidente, nota per strada un uomo travestito da Topolino e poi accade l'impensabile;
- Inutile dirvi che Gwaine non è un personaggio negativo e che io sto imparando ad amarlo. Non vuol giocare sporco: dopo aver saputo che Freya è la fidanzata di Merlin ha deciso di "mettersi da parte";
- Arthur consiglia a Merlin di non lasciarsi con Freya perché crede di doversi comportare da "migliore amico";
- Spoiler: sarà presente la coppia Gwaine/Morgause; qualcuno potrebbe scoprire i sentimenti di Arthur nei confronti di Merlin e... il loro rapporto potrebbe subire dei cambiamenti;
- Domandina: secondo voi, cosa ha lasciato Helena a Gwaine?
- Non so cos'altro aggiungere se non... Buone feste a tutti!


 
   
 
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