Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: AlsoSprachVelociraptor    29/12/2015    2 recensioni
!!!*ATTENZIONE!* STORIA RISCRITTA E RIPUBBLICATA SU QUESTO PROFILO. NON LEGGETE QUESTA!! LEGGETE LA NUOVA VERSIONE!! (QUESTA VERSIONE è DATATA ED è QUI SOLO PER RICORDO)
Anno 2016. Shizuka Higashikata, la bambina invisibile, è cresciuta e vive una vita tranquilla con i suoi genitori Josuke e Okuyasu nella cittadina di Morioh, e nulla sembra poter andare storto nella sua monotona e quasi noiosa esistenza. Ma quattro anni dopo la sconfitta di Padre Pucci un nuovo, antico pericolo torna a disturbare la quiete della stirpe dei Joestar e dell'intero mondo, portandoli all'altro capo della Terra, nella sperduta cittadina italiana di La Bassa. Tra vecchie conoscenze e nuovi alleati, toccherà proprio a Shizuka debellare la minaccia che incombe sull'umanità. O almeno così crede.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Dal Forcello al loro albergo a Villafranca, il tragitto in auto era di circa mezz’ora d’autostrada. Okuyasu era seduto sul sedile posteriore centrale, con la figlia addormentata su di lui e la testa del marito appoggiata alla sua spalla. Quel giorno avevano rischiato di morire, quella maledetta fontana impazzita li aveva attaccati, senza una ragione apparente. Okuyasu ha avuto davvero paura, paura per non essere riuscito a proteggere la sua unica famiglia, paura di morire prima di aver detto loro “vi voglio bene” un’ultima volta.
Non poteva permettersi di lasciare Josuke e Shizuka da soli, erano peggio di due bambini, sporcavano e facevano confusione, non sarebbero nemmeno capaci di cucirsi un bottone da soli. Era già capitato che, per il fatto che fosse sempre Okuyasu a fare i mestieri in casa, pulire, spazzare, cucinare, fare la spesa e occuparsi della bambina, sua figlia lo avesse chiamato per sbaglio “mamma”. Non si preoccupò più di tanto, ad una bambina possono capitare lapsus del genere, soprattutto per il fatto che era lui a fare il casalingo e il tradizionale ruolo di “mamma”, e non se ne preoccupò minimamente, anzi scoppiò a ridere. Ma non fu la stessa reazione che ebbe quando capitò anche a suo marito di chiamarlo “mamma”. Era un po’ preoccupante, in effetti, o più che preoccupante era semplicemente bizzarro, come era lui del resto. Amava Josuke, ma doveva ammettere che era molto complessato, un po’ altezzoso e davvero fin troppo introverso. Ma era pur sempre il suo compagno di vita, l’unico vero amore che abbia mai conosciuto, la persona con cui ormai aveva passato più di metà della sua triste vita, sempre l’uno di fianco all’altro, a sostenersi a vicenda. Almeno, Okuyasu a sostenerlo.
Non sapeva davvero cosa avesse fatto Josuke per lui.
Era ormai pomeriggio inoltrato, e il sole rosso fuoco affondava nell’oceano verde e oro dell’orizzonte padano. Erano rimasti loro quattro (Yukako, Koichi, Okuyasu e sua figlia) a mangiare in un fast food americano alla Città della Moda, per poi montare in auto e ripartire verso Villafranca. Josuke non era mai sceso da quando se ne andò dopo il combattimento, con il braccio sanguinante stretto al petto e la coda fra le gambe.
Se ne rimaneva immobile, seduto sul sedile posteriore ad osservare il nulla, aspettando chissà cosa. Okuyasu gli si sedette vicino, nel sedile centrale, spalla contro spalla con lui e con sua figlia in braccio, tremendamente assonnata. Shizuka si addormentò poco dopo, cullata dagli pneumatici che inciampavano sul fondo statale sconnesso e dalle braccia calde del padre a tenerla salda e al sicuro, certa che almeno lui non l’avrebbe sgridata o non le avrebbe tirato uno schiaffo.
-Jotaro mi ha avvertito che arriverà la settimana prossima, per dei disguidi. Non mi ha voluto dire nient’altro. Sembrava così scosso…-
Koichi disse quelle parole con poca emozione. Erano tutti scossi, ora come ora, e appena Koichi telefonò a Jotaro e alla sua famiglia per avvertirli di ciò che era successo, dall’altra parte della cornetta Koichi non recepì nessun tipo di sorpresa o emozione. Solo tanto sconforto.
Yukako e Okuyasu rimasero zitti, senza rispondere a Koichi. Non c’era nessun bisogno di replicare a ciò che era successo. Avevano una settimana per riprendersi, mentalmente e fisicamente.
Poco dopo, anche Josuke si piegò su Okuyasu, appoggiando la testa sulla sua spalla e tenendo gli occhi socchiusi, accoccolandosi contro di lui e tenendogli il braccio con le sue mani gelide, quasi quando la sua espressione in quel momento.
-Voglio essere come lui- sussurrò, l’unica frase che disse per un fin troppo lungo periodo di tempo, con una voce che non sembrava nemmeno la sua. Okuyasu non capì a cosa si riferisse.
Yukako guidava veloce, e l’autostrada era praticamente sgombra, se non per due o tre automobili che la percorrevano assieme a loro, riflettendo sulle loro lucidissime carrozzerie la luce aranciata del sole calante.
Shizuka dormiva sul sedile di fianco a quello del padre, la testa appoggiata alle sue cosce e il respiro lieve. Okuyasu si coprì gli occhi con una mano, parandosi gli occhiali dai riflessi rossi come il sangue che gli si scagliavano contro, come quelle lame d’acqua, come il sangue sgorgato in quel giorno che doveva solo essere di relax.
-Koichi, Yukako, posso chiedervi un favore? È importante.- disse tutto ad un tratto Okuyasu, con il tono più tranquillo che riusciva a fare. Koichi si girò verso di lui, guardandolo con uno sguardo un po’ preoccupato e una cartina stradale del nord Italia tra le mani.
-Chiedi pure.-
-La bambina può passare la notte nella vostra camera? Voglio parlare con Jojo.-
-Certo, Oku. Fa’ pure, sai che Shizu per noi è come una nipotina.- rispose Yukako, lo sguardo incentrato sulla strada ed un tono di voce più caldo del solito. Non può che rispondere in quel modo a Okuyasu, quell’uomo che lei poteva considerare come il suo migliore amico.
Si era iniziata ad affezionare a lui qualche tempo dopo essersi conosciuti, ritrovandosi in classe assieme. Yukako non era mai davvero stata una persona socievole o affettuosa, ma con quel ragazzino che scoppiava a piangere ad ogni verifica, non poté fare altro che affezionarsi. All’inizio erano solo sguardi, ogni volta che lui aveva una crisi di pianto in classe, ogni volta che rimaneva terrorizzato a fissare il vuoto quando non capiva qualcosa, ogni volta che si arrendeva prima di iniziare davvero a mettersi in gioco. Poi iniziò ad avvicinarsi, a consolarlo, a cercare di farlo smettere di disperarsi. Le dispiaceva per lui, e Okuyasu era gentile e amorevole, a dispetto del suo aspetto un po’ da bulletto. Yukako sapeva che aveva bisogno di protezione. In realtà no, se l’era sempre cavata da solo in tutta la sua vita, ma Yukako doveva proteggerlo, era intrinseco nella sua natura trattarlo come un fratellino minore e difenderlo da quel mondo che lo trattava tanto male. Dai bulli, dalle ragazze che lo deridevano alle spalle, dagli scherzacci e dalle battutine. Lei non le sopportava, non sopportava come Okuyasu non reagisse.
La loro amicizia durò nel tempo, e quando entrambi si sposarono e i loro mariti trascorrevano le giornate a lavorare in ospedale, loro si ritrovavano al bar Deux Magot, all’inizio per parlare della loro nuova, emozionante vita da sposati, successivamente per lamentarsi del matrimonio e dei figli.
Yukako gestiva il Fairy Grandmother Aya, il più grande salone di bellezza di tutta Morioh, in ricordo di una donna, una madrina che se n’era andata troppo presto, diciassette anni prima, ma non aveva mai davvero abbandonato il cuore di quella città. Lei era diventata una parrucchiera professionista, la migliore nella zona di molti chilometri, e non solo per il suo stand. Il buongusto era sempre stato parte di lei, e sì, forse il suo stand giocava anche un ruolo chiave per il suo lavoro. Assieme a lei lavorava Yuuya Fungami, l’ex motociclista ora tatuatore, le tre donne che da ragazzine erano state sue fan e ora erano rimaste sue ottime amiche come estetiste, e molte altre persone che avevano conosciuto la povera Aya, e volevano ricordarla in quel modo. Aveva insistito con Okuyasu perché venisse a lavorare con lei, ma lui aveva sempre rifiutato. Spesso e volentieri, però, veniva al Fairy Grandmother a fare compagnia, portare biscotti appena sfornati, e aiutarli in qualsiasi modo potesse.
Ora che il suo migliore amico si ritrovava in difficoltà, come poteva rifiutarsi di aiutarlo?
Koichi guardò la moglie, poi rivolse un sorriso a Okuyasu.
-Cerca di farlo sfogare, ne ha davvero molto bisogno.- sussurrò il biondino, cercando di non farsi sentire da Josuke. Okuyasu annuì poco convinto.
Arrivarono all’hotel al crepuscolo. Smontarono lentamente dall’auto, Yukako con Shizuka in braccio, ancora mezza addormentata, e Okuyasu che trascinava per mano Josuke, cercando di tirarlo per la mano per fargli accelerare un po’ il passo, mentre il portinaio sbraitava e si sbracciava verso di loro, spronandoli ad entrare velocemente in albergo prima che si facesse buio. Gli abitanti di quelle zone avevano paura ad uscire di notte, spiegò loro il custode dell’albergo.
-Di notte spariscono molte persone, ormai da 4 anni è così- disse mentre consegnava loro le chiavi delle stanze.
-Vedrà che la situazione cambierà- si lasciò scappare Koichi, in un impeto. Non sopportava che la situazione fosse così impossibile da risolvere, non l’ha mai sopportato.
Il portiere negò con la testa e gli sbatté le chiavi della camera sul palmo della mano, affranto.
I cinque giapponesi se ne andarono un po’ delusi, raggiungendo le camere. Quella degli Higashikata si trovava al primo piano, vicino alle scale, e quella degli Hirose al secondo, all’altro capo delle scale.
Josuke se ne stava con la fronte contro allo stipite della porta ancora serrata a chiave. Okuyasu lo scostò con poca gentilezza e aprì la porta, trascinandolo dentro praticamente a forza. Lui si buttò sul letto senza nemmeno svestirsi, a faccia in giù, rimanendo immobile sul materasso. Prese dalla valigia nella stanza dei vestiti puliti e il pigiama della piccola per consegnarli poi a Koichi, con fare fin troppo premuroso e quasi materno.
-Buonanotte- sussurrò Okuyasu alla figlia, scostandole la frangia e dandole un dolce bacio a stampo sulla fronte. –sogni d’oro, piccola mia.-
Lei gli sorrise, stropicciandosi gli occhi, e si avviò assieme agli zii su per le scale, mentre Okuyasu tornò in camera e si chiuse la porta alle spalle, tirando un profondo sospiro di sollievo. Finalmente poteva sentirsi al sicuro.
Fece per andare in bagno ma si fermò ad osservare Josuke. Rimase qualche secondo a guardarlo, allibito. Sembrava un vegetale, non parlava e non faceva nulla. Roteò gli occhi e se ne andò in bagno.
Aveva bisogno di staccare, di riposarsi e di non pensare a tutto il male che era successo quel giorno. Si spogliò in fretta e si fece una doccia calda, rimanendo a riflettere sotto l’acqua bollente che gli colpiva i muscoli tesi delle spalle, coperti dai lunghi capelli grigi che arrivavano almeno a sotto le scapole. Se li portò su un lato e iniziò ad insaponarli, perdendosi nei suoi pensieri.
La giornata era stata stressante, e i sentiva i muscoli rigidi e i nervi tesi, oltre alla sensazione di freddo che le lame di acqua gelate che scaturivano dalla fontana nemica gli avevano portato.
Quella fontana.
Okuyasu rimase sotto al getto, con i lunghi ciuffi neri e fradici davanti al viso, appoggiandosi al muro della doccia, a pensare. Provava già una forte emicrania, non era facile per lui riflettere così intensamente, ma doveva sforzarsi. La situazione era grave, avevano tentato di uccidere suo marito e sua figlia, questo non era il momento per fare la vittima e arrendersi al mal di testa.
Rimase almeno un quarto d’ora con la fronte premuta contro il muro a pensare, cercare di ricordare qualche dettaglio che gli potesse far dedurre chi fossero quei nemici misteriosi che si nascondevano dietro ad una fontana che sparava lame.  Non poteva essere una fontana normale, si doveva trattare di uno stand nemico. L’acqua bollente gli colpiva la possente schiena e scendeva giù, gli ustionava la pelle e la testa gli sembrava scoppiare, ma doveva scoprire chi erano. Da solo, però, cosa credeva di fare? Era un povero scemo, poco più che un malato di mente, non avrebbe potuto aiutare molto. Ne soffriva di questa sua condizione tanto denigrante, non poteva arrendersi alla realtà di essere inutile.
Tirò un forte sospiro e si rimise ritto in piedi, passandosi le dita tra i capelli e cercando di lavarli, togliendo a forza i granelli di sabbia o polvere o qualsiasi essa sia rimasti impigliati tra le lunghe ciocche.
Dopo un attimo di smarrimento su come si fosse potuto imbrattare i capelli in quel modo, ricordò le parole del marito. “Waterjet abrasivo”, aveva chiamato quelle lame d’acqua. Contenevano anche della sabbia, ma nell’acqua delle fontane non c’è tanta sabbia, e il ghiaccio che aveva imprigionato Shizuka e Josuke, come quello che ricopriva il terreno era puro, senza tracce di sabbia.
Okuyasu giunse alla conclusione che erano due portatori di stand, e quello della fontana era un attacco combinato.
Uno controllava l’acqua e le lame, e l’altro la sabbia. Doveva essere così.
Poi il suo svenimento fu molto sospetto. Si sentì folgorare, come se una scossa elettrica gli avesse passato tutto il corpo. Forse non erano solo in due ad averli attaccati.
Se era così, si trattava di una squadra estremamente coordinata e con molta esperienza nei combattimenti. Ma perché li avevano attaccati? Ancora qualcosa non quadrava.
Mentre finiva di insaponarsi il corpo, sentì un rumore nella camera da letto, come qualcosa di molto pesante che cadeva. O qualcuno.
-Jojo? Tutto ok?-
-Sì.-
La risposta di Josuke fu veloce e pronta, basso grugnito infastidito più che una risposta vera e propria.
–Sei caduto?-
Josuke non rispose. Voleva dire che sì, era caduto, ma che non l’avrebbe mai ammesso, non a lui di sicuro.
Finì di sciacquarsi e uscì dalla doccia, dandosi una veloce asciugata con un asciugamano, per poi aprire di scatto la porta, più per sorprendere l’altro uomo che per accertarsi che stesse bene. Era sempre coricato a faccia in giù sul loro letto, ma era in pigiama ora. Okuyasu rimase imbambolato sull’uscio del bagno ad osservarlo confuso, completamente nudo e coi capelli gocciolanti davanti al viso, a capire come diavolo avesse fatto a cambiarsi e a rimanere nella stessa, identica posizione.
-...come cazzo…? Come hai fatto?- balbettò, appoggiandosi allo stipite della porta. Josuke non si mosse. Strinse le spalle e rimase a faccia in giù sul lenzuolo, sotto lo sguardo del marito.
Okuyasu si era stancato di stare al suo complesso gioco di silenzi e dispetti, non riusciva a capirlo, ma in diciassette anni assieme era arrivato alla conclusione che non poteva capirlo. Poteva solo spronarlo.
-…caro mio, lo sai che il lenzuolo è sporco e tu ci stai strofinando la faccia sopra? Ho visto un programma in tivù, dove dicevano che ci sono macchie di piscia e di… fluidi corporei. Sai cosa sono, vero? Sei dottore…-
Josuke ebbe un sussulto e si alzò sugli avambracci, osservandolo con gli occhi sgranati e arrossati. Cercò di controllarsi, rotolando su sé stesso e facendo per cadere dall’altra parte del letto, tenendosi su per miracolo. Si tirò indietro dalla fronte i capelli, ora che il gel che metteva sempre aveva finito il suo effetto, e cercò di rimanere freddo come al solito. –S..sono traumatologo.- sbuffò. Sul suo viso c’era ancora il ribrezzo per le parole dell’altro, però.
Okuyasu scoppiò a ridere mentre Josuke si contorceva sul letto, tirando le lenzuola con un’espressione di puro disgusto e scalciandole per terra.
Ancora in lacrime per le risate, Okuyasu si vestì alla svelta con il suo vecchio pigiama.
Si stese dalla sua parte del letto e si coricò di schiena, con le mani dietro la testa a tenerla sollevata, ancora pensieroso.
-Devo farti delle domande.- disse sovrappensiero, mentre l’altro si sistemava meglio al suo fianco, che lo fissava con uno sguardo confuso e preoccupato.
-Quelli che ci hanno attaccato oggi… tu li hai visti, vero?-
Okuyasu si girò verso di lui, e si guardarono negli occhi per un bel po’. I suoi occhi scuri si scontrarono contro quel freddo muro azzurro delle iridi di Josuke, che non sembrava voler rispondere. Si alzò quasi di scatto e, infilandosi le pantofole, ovviamente di marca, si diresse di corsa in bagno, sbattendosi la porta alle spalle. Okuyasu sbuffò sonoramente e si lasciò ricadere sul letto, sapendo che non sarebbe tornato per un bel po’. E ricominciò a pensare, ora più fresco e rilassato di prima.
Quel bagliore rosso che aveva visto nel parcheggio poteva voler dire qualcosa. Magari era uno di loro… non poteva saperlo, dato che era svenuto prima di tutti gli altri. Poteva chiedere a Shizuka, che aveva combattuto contro qualcuno, ma Okuyasu lasciò perdere e non le chiese niente; infondo sua figlia era piccola e stanca, non voleva farla stare peggio di quanto già stesse. Con Josuke non era la stessa cosa: suo marito era un uomo adulto, responsabile e forte. O almeno, avrebbe dovuto esserlo. Da come se n’era scappato in bagno non sembrava altro che un bambino spaventato.
Okuyasu rimase perso nei suoi pensieri finchè non cadde in un leggero sonno, e iniziò a russare rumorosamente, come suo solito. Josuke, spettinato e con gli occhi tutti arrossati e gonfi, si affacciò dalla porta del bagno e rimase a fissarlo, coi suoi lunghi capelli arruffati e il viso spigoloso e il petto che si alzava e si sollevava con lentezza, accompagnando il suo russare. Non poteva scappargli, Josuke lo sapeva benissimo. Con un forte sospiro si chiuse la porta alle spalle e si avvicinò al letto il più silenziosamente che poteva, sedendosi poi sul bordo del letto e sfilandosi le pantofole, facendo per coricarsi ma fermandosi di botto, alla vista degli occhi scuri del marito puntati verso di lui.
-Pensavo dormissi…- si scusò Josuke, infilandosi velocemente sotto le coperte.
-Sai che ho un sonno leggero.- rispose Okuyasu, sbadigliando e stiracchiandosi sul letto, mentre lo guardava con insistenza.
Rimasero per un po’ a guardarsi sdraiati fianco a fianco sul letto matrimoniale, così intensamente da sembrare una battaglia di sguardi che aveva ben poco di romantico o di pacifico.
Di solito quello a cedere era Okuyasu, lui si arrendeva sempre, ma non quella volta. Era per il bene della sua famiglia, della piccola Shizuka e anche di quel testone di suo marito, che non voleva proprio arrendersi.
-Josuke, ti prego.- gli sussurrò, cercando di allungare una mano verso di lui. In tutta risposta lui si ritrasse un po’ indietro, sbuffando sonoramente e abbassando finalmente lo sguardo.
Non ci è voluto molto, pensò Okuyasu. Forse sono sempre stato io ad arrendermi prima ancora di provarci.
-Erano tre ragazzine- bisbigliò Josuke, quasi affranto. –Avranno avuto si e no l’età della nostra Shizu. E cercavano me.-
Corrucciò le sopracciglia e borbottò una frase che non gli sentiva dire dal tempo dell’università. Tirò un pugno al materasso e si voltò di schiena, chiudendosi in sé stesso.
-Non è colpa tua, Jojo.- cercò di consolarlo Okuyasu, tentando di avvicinarsi a lui. Appena sfiorò la sua spalla, però, Josuke si voltò e gli soffiò addosso come un serpente a sonagli, reagendo fin troppo violentemente anche per i suoi standard.
Okuyasu lo lasciò stare. Si tirò indietro e rimase a fissarlo con espressione indecifrabile, mentre qualcosa negli occhi di Josuke cambiava. Sembrava quasi in colpa. Scuse silenziose, forse.
Non disse nulla, affondò solo il viso nel cuscino e si addormentò velocemente, ora non così lontano dal corpo di Okuyasu. Era già qualcosa.
Okuyasu era stanco, non solo in senso fisico. Si sentiva i nervi ancora tesi e i muscoli irrigiditi, la punta delle dita insolitamente fredde, il naso umido e infreddolito, quel clima tanto rigido a fine marzo era insolito per lui. Aveva controllato su Google Maps, il Nord Italia si trovava a latitudini vertiginosamente alte rispetto a Morioh, o Tokyo o New York o qualsiasi città in cui avesse mai abitato.
Okuyasu se lo ricordava, l’inverno a Tokyo. A girovagare per le strade deserte della periferia sudicia della città, a scaldarsi con gli altri vagabondi coi bidoni dati a fuoco. La neve cadeva pesante, e si sentiva le mani perdere sensibilità e le unghie staccarsi, con suo fratello maggiore Keicho che lo tirava per il polso nei sobborghi malfamati della metropoli, tra gli sguardi disgustati dei passanti. Venticinque anni dopo, Okuyasu si ritrovava in una camera d’hotel nel mezzo della Pianura Padana, a dare la caccia o forse scappare a una banda di ragazzine.
Okuyasu pensò che la vita è davvero strana, come puoi passare dall’essere un misero vagabondo orfano e girare per i sobborghi della metropoli facendo di tutto per mangiare qualcosa, fino ad essere sposato con un dottore e abitare in una villa nel centro di una bella e pulita cittadina, nel lusso e nella serenità. Perso in questi pensieri, Okuyasu abbassò le pesanti palpebre e strisciò verso Josuke, ormai addormentato da parecchio tempo. Con uno sbadiglio si lasciò anche lui abbandonare nel sonno, ripromettendosi di migliorarsi. Era arrivato fin lì, è arrivato a non dover più preoccuparsi di cercare gli scarti dei fast food nei bidoni della spazzatura per non morire di fame sul marciapiedi, certo, ma poteva arrivare ancora più in alto, può aspirare a non solo badare a sé stesso, ma proteggere la sua adorata figlioletta e il suo amato marito.
Sorrise lievemente e crollò nel sonno e, come al solito, sprofondare nel buio del suo sonno senza sogni.
 
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Svegliarsi con la suoneria del proprio cellulare non è il massimo, e peggio ancora è svegliarsi con la suoneria di tuo marito.
Okuyasu sobbalzò nel sentire quell’orribile ritornello pulsargli nelle orecchie e spaccargli i timpani, e tentò di alzarsi per spegnere la sveglia, al fianco del suo comodino, come al solito. Ma il suo cellulare non stava suonando, e solo con un fatale ritardo si accorse che si trattava del cellulare di Josuke.
Era passata una settimana dall’attacco della Banda, e in quella settimana non fecero praticamente nulla.
Okuyasu era corso per gelaterie e ristoranti tipici, si era ingozzato come un maiale tanto da non riuscire più a muoversi la sera. Shizuka era rimasta in albergo a giocare col cellulare, chattare, guardare la televisione italiana nella grossa hall dell’albergo e videochiamarsi con Rin e Sachiyo, le sue migliori amiche, ancora confinate a Morioh. Delle volte Okuyasu riusciva a origliare qualche conversazione, dove ammetteva che Morioh le mancava.
Ma se c’era una cosa che Shizuka non aveva fatto, era stato parlare con suo padre Josuke. Non aveva evidentemente preso bene quello schiaffo alla Città della Moda.
Josuke rimase per lo più confinato a letto, col braccio tirato al petto e immobile perché potesse riprendersi dai profondi tagli che, su una persona normale, sarebbero stati fatali. Ma Josuke era un Joestar, con la pelle coriacea come quella di un coccodrillo e la testa altrettanto dura. Tanto dura da non volersi svegliare a nessun costo, anche con la sua suoneria.
Shizuka si svegliò a sua volta, tirando il suo cuscino a terra e strillando a Okuyasu perché rispondesse lui.
Josuke rimaneva lì, con la testa affondata nel cuscino, con un sorrisino soddisfatto e le palpebre ben serrate, senza alcuna intenzione di svegliarsi. Era adorabile, però. Certo, il suo viso non era più rotondo come diciassette anni prima, i tratti erano più sfinati e duri, ma poteva benissimo considerarlo davvero adorabile, a dormire a pancia in giù come un bambino.
Si scostò un po’ sul letto e prese il cellulare, rispondendo alla bell’e meglio alla chiamata.
-Pronto..?- borbottò Okuyasu, mentre Josuke si rigirava infastidito sul letto.
-Oku? Ma dove siete!- sbottò l’altro uomo dall’altra parte della cornetta. Era Koichi, e sembrava adirato.
–Dormivamo- rispose Okuyasu, ancora assonnato, con tutta la calma del mondo.
-“Dormivamo”? Ma lo sai che ore sono?!-
-No.-
-Sono le sette e mezza, Okuyasu! Dovevamo trovarci alle sei! Le SEI!-
-…oh. Oggi?-
Si era dimenticato che giorno era in quella settimana di relax, e che quella sarebbe stata LA giornata. Si morse il labbro inferiore e si guardò un po’ intorno, cercando di alzarsi dal letto senza svegliare Josuke, sotto lo sguardo carico d’odio di Shizuka.
Cercò di rispondere sottovoce a Koichi al telefono, ma alzandosi in piedi fece ovviamente rumore. E Josuke si svegliò, trasformando quel sorrisino del sonno in un broncio offeso.
Prese il lembo del lenzuolo e lo scaraventò con ben poca grazia via da lui, i alzò sugli avambracci e si mise in piedi con lentezza, incamminandosi in bagno. Okuyasu rimase immobile sul letto, guardandolo sbalordito dal suo comportamento. Lunatico, o forse semplicemente pazzo. Con un profondo sospiro si rigirò nel letto e riprese ad ascoltare l’amico che gli parlava al cellulare, un po’ sovrappensiero e ancora molto addormentato.
-..Okuyasu! Ci sei?-
-Sì, sì… arriviamo…-
-Ah! Meno male! Sempre in ritardo, voi! Per le otto fatevi trovare nella hall. Alle dieci arriva l’aereo di Jotaro, dobbiamo essere all’aeroporto puntuali!-
Okuyasu annuì, mentre tentava di alzarsi dal letto, con molta lentezza. Sarebbe stata una giornata brutta e dura, se lo sentiva. Ma non ne era pronto.
 
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Dopo una buona mezzoretta, i tre furono pronti. In realtà erano pronti già da un quarto d’ora, ma tra i vari “non hai più diciassette anni, basta con il fuchsia e l’attillato” e “smettila di vestirti da barbone”, seguito dalle risatine della figlia, ci impiegarono almeno il doppio del tempo. 
Shizuka, come al solito, aveva stretta al collo la vecchia sciarpa di Joseph. Non l’aveva mai lasciata andare in quella settimana. Sapeva che le era utile, che le serviva se avesse voluto combinare qualcosa in quella città spietata.
Presero tutte le valige e si chiusero la porta alle spalle, pronti a scendere le scale e trovarsi con gli amici.
Shizuka non stava portando nemmeno una valigia, se non la sua solita borsetta. Se poteva farsi portare tutto dagli altri, perché fare fatica?
Era stanca di aspettare quei due vecchi. Corse davanti a loro e scese le scale di corsa, impaziente di arrivare alla fantomatica La Bassa e tutti i suoi misteri.
Okuyasu si stava per incamminare quando Josuke gli sbarrò la strada, piazzandosi proprio davanti a lui, e osservandolo da quei quindici centimetri in più d’altezza che aveva rispetto al marito. Si abbassò un po’ e gli schioccò un veloce bacetto sulla guancia, mormorandogli un frettoloso “scusami per tutto”. Okuyasu gli sorrise, ma non fece in tempo a reagire in alcun modo, perché l’altro prese con velocità una valigia sola e corse verso le scale, facendogli la linguaccia.
Okuyasu prese i restanti borsoni e valigioni, ovviamente quelli pesantissimi, e si incamminò lentamente giù per le scale, verso la hall dell’hotel, dove Koichi stava già sgridando Josuke, impegnato in ben altro al momento.
Shizuka era diventata stranamente cattiva verso Josuke. Non l’aveva ancora perdonato per quello che era successo una settimana prima, e lui non sapeva farsi perdonare in nessun modo.
-Sei ancora arrabbiata, vero?- le borbottò Josuke, arrivandole alle spalle. Lei si voltò verso di lui, lo fulminò con lo sguardo e abbassò gli occhi, gonfiando le guance. –Non so di cosa tu stia parlando.-
L’uomo non aveva voglia di giocare a quel lungo gioco che gli stava preparando lei, così decise di tirarla su per le ascelle e prenderla in braccio. Non si ribellò molto. Lo guardò un po’ in cagnesco e sussurrò un “non farmi cadere” stretto tra i denti.
Okuyasu finalmente finì la rampa di scale e li raggiunse, stremato e non molto abituato a fare tanti gradini, o semplicemente a faticare così tanto, con la lingua di fuori e il fiatone.
-Ci siamo tutti, possiamo andare!- esordì Koichi, picchiando le mani le une contro le altre. Yukako annuì e consegnò le chiavi dell’albergo al gestore, per poi incamminarsi, seguita da tutti quanti, verso il parcheggio.
Josuke continuava a tenere Shizuka in braccio, e lei ci stava prendendo decisamente gusto a essere così in alto.
-Shizu, vuoi che ti metta giù?- sussurrò suo padre, tutto ad un tratto, girandosi verso di lei. Lei lo guardò negli occhi a sua volta, confusa. –Eh? Perchè?-
-Non so, magari non vuoi stare in braccio a me. Se preferisci papà, dimmelo.-
Shizuka negò e si accoccolò contro di lui, sprofondando la testa nell’incavo del suo collo, intenta a non scollarsi da lui. Era una postazione di lusso, quella.
Era molto più in alto che con Okuyasu, profumava di dopobarba e profumi francesi costosissimi, e non la stritolava e riempiva di bacetti e coccole imbarazzanti e fin troppo appiccicose.
-Nah, va bene qui.-
Lo guardò in viso e lo osservò sorridere, con tanta emozione come non l’aveva mai vista, non a lui, gli occhi azzurri che brillavano e un sorrisone sul viso. Era felice di averla in braccio, felice di non essere, per una volta, meno di Okuyasu per sua figlia. Dopo essersi accorto di aver espresso un po’ troppa gioia, si schiarì la gola e cercò di trattenersi, con le guance tutte rosse e lo sguardo imbarazzato. Shizuka ci fece poco caso e tornò ad appoggiare la testa alla sua spalla, dondolando le gambe e godendosi il tragitto dall’hotel all’auto, cercando di trattenere una risatina divertita.
Stiparono tutte le valige nell’ampio bagagliaio e montarono sull’auto. Come al solito Yukako guidava e Koichi le sedeva accanto, sul sedile del passeggero, con le cartine stradali in mano, una della provincia di Verona, in cui si trovava l’aeroporto, e l’altra della provincia di Mantova, in cui invece si trovavano Forcello e la Città della Moda, e soprattutto la famigerata La Bassa.
Fortunatamente, l’aeroporto non era lontano. Appena parcheggiarono l’automobile, Koichi spalancò la portella e si fiondò giù, correndo in un punto imprecisato del parcheggio.
-Quattrocchi, tu che ci vedi bene, dove corre Koichi?- bofonchiò Josuke, dando una leggera gomitata al marito. In tutta risposta Okuyasu si sistemò gli occhiali e socchiuse gli occhi, osservando per bene il punto in cui Koichi stava correndo.
-Penso siano Jotaro e famiglia.-
Josuke si lasciò scappare un mezzo grido e con fretta aprì la portella e si slacciò la cintura, afferrando Shizuka per un braccio e tirandola con sé giù dall’auto. Sbatté la fronte contro all’abitacolo, come di consuetudine ormai, e una volta giù dall’auto e con la figlia confusa dal suo comportamento in braccio, ben stretta a sé, corse dietro a Koichi, non con poca difficoltà.
Okuyasu e Yukako rimasero fermi immobili, guardandosi negli occhi e non osando proferire parola per il strano comportamento dei mariti.
Josuke raggiunse i Kujo col viso tutto rosso e il fiatone, mentre lo guardavano male come al solito.
Rimase piegato su sé stesso per un po’, cercando di riprendere fiato, mentre Jotaro discuteva con Koichi.
-Riguardo alla conversazione di ieri- bisbigliò Jotaro, fermo davanti a loro, rigido e con le mani nelle tasche, col solito sguardo duro, forse anche più del solito. –ho fatto una ricerca con la Fondazione Speedwagon di Berna. I nemici sono guerrieri delle Onde Concentriche, dunque devono c’entrare con il calo di vittime per vampirismo a La Bassa. Suppongo che operino lì, dunque vivano anche nella zona. Data la giovane età, direi di iniziare a cercarli dalle scuole, e a La Bassa ce ne sono due di scuole superiori: l’istituto San Giorgio e l’istituto San Basilio. Inizieremo dal liceo San Giorgio, oggi. Spero tu sia d’accordo, Josuke.-
Lui alzò la testa di colpo e lo fissò negli occhi, spaesato, passando lo sguardo dall’amico al nipote. –Eh? Istituto Sang…che?-
Jotaro lo fissò con sufficienza e sbuffò rumorosamente, distogliendo lo sguardo dallo zio e tornando a guardare Koichi, dando la schiena a Josuke, tanto innervosito da non volerlo nemmeno guardare in viso.
Josuke abbassò lo sguardo e indietreggiò un po’, costernato dal comportamento dell’uomo che tanto stimava, rattristito dal fatto che, qualsiasi cosa avesse fatto, non sarebbe stato mai accettato da lui.
Mentre era sovrappensiero a rimuginare, Holly gli si avvicinò e gli si scaraventò praticamente addosso, scoppiando a ridere e abbracciandolo con forza, sfregandogli la testa sulla spalla.
-Ah, il mio fratellino!- gridò, saltellando lievemente. Josuke lasciò la presa sulla mano della figlia, che nel frattempo si era nascosta dietro di lui per evitare lo sguardo dei parenti su di lei, e avvolse la sorellastra con le sue braccia, fin troppo grosse per la sua schiena magra e ingobbita dagli anni.
-Sono contenta di vedervi qui, sani e salvi.- sussurrò, staccandosi dal corpo del fratello e girandoci attorno, raggiungendo la nipotina, che se ne stava premuta contro la schiena di suo padre.
Le passò una mano sui capelli, guardandola dritta in viso, con un lampo di tristezza che le varcò gli occhi sempre sereni e felici.
-Questa sciarpa era del mio papà. Te l’ho mandata io, so che ti servirà. Fanne buon uso, tienimela bene, mi raccomando!-
Shizuka annuì piano e Holly rise con la sua solita voce cristallina, capace di mettere tutti di buon’umore.
Holly avrebbe continuato ad appendersi al forte braccio del fratello e a stringere la delicata mano della nipote, se Jotaro non l’avesse richiamata con un grido sommesso e irritato. La donna si voltò verso il figlio, poi di nuovo verso Josuke, sorridendogli.
-Non badare a come si comporta Jotaro. Non è colpa tua.-
Detto questo girò i tacchi e se ne andò, ciondolando placidamente verso il figlio, che se ne stava già tornando alla sua automobile.
Dai finestrini dell’auto noleggiata dai Kujo, Rosanna, Jolyne ed Emporio salutarono scuotendo la mano e sorridendogli.
Josuke sospirò e prese Shizuka per mano, pensando che almeno qualcuno sembrava felice che ci fosse anche lui.
-Dobbiamo seguirli- sbottò Koichi, con una lieve nota di preoccupazione nella voce, voltandosi e tornando con passo svelto alla propria automobile. Josuke lo seguì, stando con facilità al suo passo dati i 30 e passa centimetri che lo separavano dal biondo. Shizuka si aggrappò a lui e finì per essere sollevata con un solo braccio dal padre, dato che sarebbe rimasta indietro. Era più bassa anche di Koichi, e non voleva di certo ritardare.
-saremo a La Bassa per le nove e mezza. In poche parole, gireremo per le scuole della città finchè non troveremo quelle tre.-
-Come fate a sapere che erano..?- sussurrò Josuke, stringendo la figlia al suo petto e cercando di mantenere un’espressione seria e tranquilla, anche se i muscoli tesi del collo e le mani che tremavano dicevano tutt’altro.
Shizuka lo notò, e, allacciandogli le braccia attorno al collo, talmente teso da sembrarle duro come il marmo, parlò piano, quasi sussurrandogli. –Gliel’ho detto io.-
Josuke la guardò e Shizuka non riuscì a capire cosa passasse in quella testa, non riuscì a scorgere una vera espressione sul suo viso.
Annuì e tornò a guardare l’amico, abbassando lo sguardo su di lui e affiancandoglisi, decisamente preoccupato, incamminandosi a grandi falcate verso l’automobile.
Aprì la portella e quasi buttò la figlia sul sedile posteriore centrale, sedendosi su quello laterale. Koichi tornò poco dopo, sedendosi davanti e indicando alla moglie l’auto dei Kujo e di seguirli.
L’automobile si mise in moto, e Josuke appoggiò il gomito allo sportello, guardando il noioso paesaggio che gli scorreva davanti agli occhi.
Furono quarantacinque minuti di verde e giallo, che si susseguivano ripetutamente oltre il vetro del finestrino, con uno sfondo bianco-grigio.
Campo di grano, canale d’irrigazione, campo incolto, canale d’irrigazione, campo di mais, canale d’irrigazione. Fiumiciattolo, cartello con fantasiosi nomi di paesini sperduti, argini, altri campi, altri canali e altri fiumiciattoli. E il perenne cielo luminoso e pallido sopra di loro, il candido sole che spuntava da dietro quella coltre malata e che a malapena illuminava quegli scenari tediosi e monocromatici. Il tutto servito su un panorama piatto, una tela quasi geometrica per quanto era incredibile. Sembrava che un bambino avesse tracciato una linea dritta con un righello su un foglio sporco di tempera. Sopra il cielo grigio-bianco, tanto luminoso da far male, sotto la campagna. In mezzo, solo la noia delle casupole di campagna e delle stradine sconnesse.
Grigio, verde, giallo.
Soporifero, era l’unico termine con cui riusciva a descrivere quel posto.
Le palpebre si facevano pesanti, gli occhi stanchi, e stava per addormentarsi, se una gomitata non gli avesse centrato le costole. Saltò sul sedile urlando, girandosi verso chi l’aveva colpito con gli occhi sgranati. Era stato Okuyasu, che lo guardava con un sorrisone, saltellando per l’emozione. Anche Shizuka sembrava emozionata, e Koichi sorrideva.
-Cosa..?- bofonchiò, confuso e dolorante.
-Siamo sul ponte di Borgoforte!- gridò Okuyasu, perforandogli i timpani.
-Ah.-
-No Jojo, guarda! Guarda!- e indicò qualcosa oltre l’auto di Jotaro, che li precedeva. Josuke rimase immobile e un po’ deluso dal fatto che tutti fossero tanto emozionati per un ponte. Ne avevano passati tanti in quei tre quarti d’ora, e non capiva cosa ci potesse mai essere di tanto importante in quello.
Appena però l’auto si inoltrò sull’enorme ponte, Josuke capì, e anche i suoi occhi si riempirono di meraviglia. No, questo non era un fiumiciattolo qualunque.
Era il Po.
Di fiumi ne aveva visti tanti nella sua vita, ma mai tanto maestosi. L’acqua impetuosa scorreva veloce e creava mulinelli luminosi, il becero sole si rispecchiava nell’acqua agitata e creava riflessi tanto brillanti da accecare, mentre scorreva verso l’infinito dell’orizzonte lineare e quasi irritante.
Era largo diverse centinaia di metri, e la sua lunghezza non era misurabile. Non si intravedeva né l’inizio né tantomeno la fine, e sul suo tragitto si scorgevano altri ponti lontani, altri boschi affacciati su quel fiume.
-Tirando dritto si arriva a La Bassa- sentenziò Yukako, interrompendo il torrente di pensieri nella testa del castano. –girando a sinistra si può raggiungere Pigugnaria, passando per… Muntichiana e Ronco. Ah, che nomi questi paesini.-
Koichi fece una risatina, per poi girarsi verso il sedili posteriori.
Josuke era in una strana posa col cellulare puntato a sé, Shizuka stava usando la fotocamera sull’altro finestrino e Okuyasu aveva la fronte premuta contro il vetro, osservando con un’espressione preoccupantemente ferma su quell’enorme specchio d’acqua.
-..ma che fate?-
-Selfie col Po- rispose prontamente Josuke, sviando per un istante lo sguardo dalla fotocamera anteriore del suo smartphone al viso dell’amico, con ancora l’espressione ebete con le labbra sporgenti e un occhio chiuso, mentre Shizuka non lo degnò nemmeno di uno sguardo.
Koichi si rassegnò di avere a che fare con una famiglia di idioti e si rilassò sul proprio sedile, chiudendo la mappa. Finalmente erano arrivati a La Bassa.
 
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-Fa ancora più schifo delle foto di Wikipedia- borbottò Jolyne, prendendo a calci la ghiaia sotto ai suoi piedi, mentre Emporio cercava di schivare tutti i sassolini che la sorella gli lanciava. Holly era rimasta seduta sul sedile posteriore, le gambe troppo deboli per reggerla e l’umidità dell’oltrepò che le distruggevano le articolazioni. Rosanna era al suo fianco, cercando di consolarla e aiutarla, mentre gridava alla figlia di non lanciare i sassi e la polvere al povero Emporio.
Jotaro controllò e ricontrollò l’orologio che aveva al polso, stanco di aspettare.
Avevano parcheggiato sul retro di un grande edificio rosso e di vetro, mentre i ragazzi al suo interno li scrutavano con attenzione.
Dopo qualche minuto anche il suv argentato arrivò, parcheggiò vicino all’auto nera dei Kujo, e i suoi passeggeri scesero.
-Perché avete fatto tanto tardi?- sbottò Jotaro, fulminando Josuke con lo sguardo.
-Ci siamo fermati a prendere il gelato caldo al K2. È una gelateria rinomata da queste parti, sai?- rispose lui, alzando le braccia al cielo, la coppetta di gelato stretta in una mano. Dietro di lui, anche Shizuka, Okuyasu, Koichi e Yukako reggevano le stesse coppette, quasi finite ormai.
Jotaro sospirò profondamente e cercò di tranquillizzarsi e di trattenersi dal pestarlo a sangue, mentre si passava una mano sul viso stanco.
Voltò loro le spalle e, con un gesto plateale per attrarre la loro attenzione, indicò l’edificio rosso.
-Quello è l’Istituto San Giorgio. Entriamo e chiediamo di quelle maledette ragazzine.-
Tutti annuirono all’unisono, e, seguendo Jotaro. Shizuka si accostò ai padri e fece per seguirli, finchè la grande mano di Jotaro non la fermò, afferrandola per una spalla.
-Tu ed Emporio è meglio se rimanete qui, assieme a mia madre e Rosanna.- sentenziò lui, guardandola a malapena e spingendola a forza verso l’auto, su cui sedevano gli altri tre.
-Fate i bravi, eh!- ridacchiò Jolyne, facendo loro la linguaccia e seguendo tutta emozionata il padre e gli zii verso la scuola, sotto lo sguardo carico d’odio di Shizuka.
 
 
 
 
It doesn't have to be like this.
All we need to do, is make sure we keep talking.
                              Keep Talking, Pink Floyd (The Division Bell, 1994)
 
 
Note dell’autrice
Hey hey heeyy, ciao a tutti! Sono tornata, evviva!
Purtroppo i capitoli sono molto lunghi e la mia vita è impegnativa, aggiornerò una volta al mese purtroppo. Scusate per il capitolo ENORME, il più lungo che abbia scritto finora, ma è un capitolo di riflessione e di poca azione, dunque… beh, spero vi sia piaciuto.
In questo capitolo i Joestar arrivano a La Bassa! La pianura padana è brutta, mi dispiace, e dispiace parecchio anche a loro, si vede!
Troveranno davvero in quell’istituto la Banda? Questo è un mistero (?)
Ci vediamo al prossimo capitolo, mi raccomando, stay tuned!
   
 
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