Lancillotto
rimase a Benoic per alcuni anni, non molti in realtà.
La vita del regnante non lo appagava quanto quella del cavaliere errante. Non era
stanco di battaglie e d’avventura, sognava le mille imprese che si stava
lasciando sfuggire, rimanendo nel proprio regno.
Ogni
volta che in Benoic si aveva notizia di qualche banda
di briganti o di qualche mistero, Lancillotto subito montava in sella e andava
a risolvere la faccenda, sperando di rivivere i brividi del passato, ma mai
nulla era sufficiente per lui. Pericoli magici non ve ne erano, poiché Viviana
era talmente potente che nessuno poteva utilizzare la magia in quel territorio,
senza che lei lo sapesse e fosse d’accordo. Questo la rendeva agli occhi di
alcuni una protettrici, agli occhi di altri una tiranna.
Respingere
soldati Longobardi, o di qualche altro popolo invasore, era quasi un noia per
la facilità con cui Lancillotto riusciva ad ottenere la vittoria. L’unica cosa
che gli teneva su il morale era il fatto che suo figlio andava in battaglia con
lui.
Dopo
un lustro, tuttavia, Lancillotto decise che la vita tranquilla a Benoic non era adatta per la sua indole e dunque decise di
tornare a Logres e riprendere a servire re Artù. Oltre
al brivido e all’adrenalina delle avventure in quelle terre, c’era anche il suo
cuore che lo spronava a tornare a visitare Camelot.
Presa
tale decisione, la comunicò alla sua famiglia. L’uomo dava per sottinteso che
Elaine sarebbe rimasta e Benoic, per cui si limitò a
chiedere al figlio che cosa preferisse fare: se seguirlo, oppure restare al
castello e amministrare il regno che, in fondo, gli spettava di diritto.
Galahad non ebbe
esitazioni nello scegliere: avrebbe accompagnato il padre, anche lui ansioso di
intraprendere qualche impresa e, soprattutto, di esplorare nuovi luoghi e
apprendere qualcosa di più. Il giovane aveva ormai ventuno anni e già da tempo
desiderava lasciare il castello per vivere le avventure di cui aveva sentito
raccontare innumerevoli volte da bambino, tuttavia non aveva ancora avuto il
cuore e l’occasione di domandarne il permesso ai genitori. Ora che era il padre
ad offrirgli una tale opportunità non l’avrebbe certo rifiutata.
Lancillotto,
soddisfatto, iniziò i preparativi per la partenza, con grande attenzione nella
scelta dell’equipaggiamento, dei cavalli, armi e armature. Fece cucire ex novo
uno stendardo col simbolo dei tre leopardi d’argento che lo distingueva da
sempre: in tutte le terre, infatti, egli era anche noto come il Leopardo.
Lancillotto
avrebbe voluto che anche il figlio scegliesse tale animale come stemma
araldico, per rimarcar care il loro legame, ma a Galahad
il leopardo non piaceva affatto, poiché nei bestiari era sempre indicato come
una fiera malvagia, impura e traditrice. Il giovane non sapeva quale simbolo
scegliere per decorare il suo scudo e il resto delle armi; per il momento
decise di limitarsi a scegliere i propri colori: l’argento e l’azzurro.
Finalmente,
dopo banchetti d’addio, giunse il giorno della partenza e padre e figlio
abbandonarono il castello e il regno di Benoic,
raggiunsero le sponde del canale della Manica e trovarono una nave che li
traghettasse dall’altra parte. Navigarono di notte e dunque si misero a
dormire, ma quando il mattino dopo si svegliarono, non si trovavano più sulla
nave, ma erano stati sbarcati assieme alle loro cose su una spiaggia.
“Dove
siamo?” chiese Galahad, confuso, guardandosi attorno “Perché
non ci siamo accorti di nulla?”
“Dove
siamo, non lo so, ma basta spostarci un po’ verso l’entroterra e dovrei
capirlo. Per il fatto che ci abbiano lasciati qua senza che ci svegliassimo,
beh credo si tratti di magia, oppure di un qualche potente sonnifero che hanno
mescolato all’infuso di ieri sera.”
“Non
credevo che viaggiare fosse così poco sicuro.”
“Tal
volta lo è, ma non pensavo ci saremmo imbattuti in qualcosa così presto,
pazienza. Comunque, da questa sera, faremo i turni per dormire e così sempre,
almeno finché non saremo certi di essere in posti sicuri. Suvvia, pensiamo a
mettere qualcosa nello stomaco e poi mettiamoci in marcia.”
Cavalcarono
per quasi un giorno intero, per lo più costeggiando campi coltivati, ma senza
incontrare una sola persona a cui chiedere informazioni. Prima che il Sole cominciasse
a calare dietro l’orizzonte, tuttavia, avvistarono le torri di un castello, per
cui si lanciarono al galoppo per raggiungerlo prima che facesse buio e vi
riuscirono. Furono bene accolti, i loro cavalli vennero portati nelle stalle
per mangiare ed essere strigliati, mentre loro furono condotti presso il
signore del maniero che, pur con modi educati e cortesi, li mise in guardia: “Io
sono re Evrain e questo è il castello di Brandigan, costruito talmente bene che non teme né re, né
imperatori. Non temiamo assedi, poiché all’interno di queste mura crescono in
abbondanza grano, frutta e verdura, vi sono fonti d’acqua purissima e abbiamo
bestiame in abbondanza e i nostri guerrieri sono talmente valorosi e abili che
si potrebbe dire che le fortificazioni sono state costruite più per un fattore
estetico che non per utilità di difesa. Nulla del mondo esterno ci spaventa, la
nostra unica paura si trova proprio qui con noi. Essa ha nome Gioia della Corte. Nessuno dei miei
cavalieri osa più affrontare tale prova, dunque ho stabilito di accordare
ospitalità solamente a coloro che si impegneranno a tentare quest’impresa. Sarò
ben lieto di offrirvi la cena e un letto dove riposare, ma solo a patto che domattina
vi cimentiate in questa prova che finora non ha visto nessuno uscire vivo.”
“Signore,
accettiamo ben volentieri. Sono Sir Lancillotto Del Lago, ho superato moltissime
ardue prove nella mia vita, sono sicuro che anche questa volta ne uscirò
vittorioso.”
Per
la sala si levò un mormorio di sorpresa ma anche contentezza. Evrain sorrise, sollevato, e disse: “Se voi siete davvero
chi affermate di essere, allora domani sarà sicuramente l’ultimo giorno della Gioia della Corte!”
Lancillotto,
orgoglioso, si rivolse a Galahad: “Visto, figliolo, come
la mia fama mi precede?”
Udendo
queste parole, Evrain specificò: “Noi non dubitiamo
del vostro valore, messer Del Lago, tuttavia la nostra certezza deriva d’altro.
Dovete sapere che un cavaliere e una damigella di questa corte sono stati
imprigionati dalla Fata amica di Guingamar, il
Signore di Avalon; ella disse che tutto ciò era una trappola per voi, Sir Lancillotto. Alcuni
dei miei uomini hanno voluto tentare l’impresa a voi riservata per amicizia
verso i prigionieri, ma hanno fallito. Domani, che voi ne usciate vincitore o
sconfitto, sarà il momento in cui i nostri amici saranno comunque liberati.”
Lancillotto
non rimase spaventato per quella scoperta e confermò la sua disponibilità ad
affrontare la prova.
Dopo
aver cenato, mentre si preparavano per andare a dormire, Galahad
domandò: “Chi è la Fata di cui ha parlato Evrain?”
“Morgana.
Difficilmente potrebbe essere un’altra, soprattutto se ce l’ha con me.”
“Come
mai?”
“Sono
il campione della Regina Ginevra e tra Morgana e Ginevra non è mai corso buon
sangue.”
“Perché?
Ho studiato molte cose del passato, ma purtroppo non so granché delle questioni
di corte. Ho sentito molti racconti sui cavalieri, ma pochissimo sulle donne.”
“La
questione è semplice. Morgana ha solo un anno in più di Artù e, quando Re Uther è morto, lei non era ancora stata data in moglie, a
differenza delle sue sorelle che avevano sposato Lot
delle Orcadi e Re Urien. Conobbe Artù pochi mesi
prima che lui estraesse la spada dalla roccia, divennero subito amici e il loro
legame si rinsaldò ulteriormente, quando scoprirono di essere fratello e
sorella. Si volevano molto bene, erano moltissimo uniti e Artù si consultava
con la sorella quasi quanto con Merlino. La situazione non cambiò dopo che il
re sposò Ginevra che divenne presto gelosa della cognata, giustamente. Artù si
confidava molto più spesso con la sorella anziché la moglie e questo è un
comportamento sbagliato per un uomo. Ginevra era l’unica che si rendeva conto
di come Morgana manipolava il re e quindi tutta la politica di Logres. La Regina soffriva molto, sia perché vedeva il Artù
agire in modo che lei riteneva sbagliato, sia perché si rendeva conto di non
poterlo persuadere che aveva ragione lei e mostrargli i suoi errori. Per fortuna,
Morgana commise un grave peccato: senza essere sposata, ebbe una relazione d’amore
con Guingamar, il cugino della Regina. Ginevra,
allora, mostrò la loro colpa alla corte e Morgana fu coperta di vergogna e
disonore e Artù dovette esiliarla. Da allora Morgana vuole vendicarsi e oltre a
prendersela con la Regina, se la prende anche con chiunque simpatizzi per lei.”
“Morgana
è molto potente nella magia.” osservò Galahad “Non
hai paura?”
“No,
i suoi incantesimi possono fare poco contro di me. Hai presente l’anello che
tua nonna Viviana ti ha regalato? Me ne donò uno anche a me, la prima volta che
partii all’avventura, è un potentissimo talismano contro i malefici e la magia
in generale. Domani lo indosserò.”
“Sai,
padre, sono entusiasta nel pensare alla sfida che ci attende tra qualche ora.”
“Figlio
mio, mi spiace, ma affronterò la Gioia
della Corte da solo. È una sfida per un singolo cavaliere per volta e
tenterò io.”
Galahad era deluso, ma
non contestò il volere del padre.
Il
mattino dopo, i due cavalieri furono accompagnati da Evrain
e il resto della corte in un bellissimo verziere che prosperava all’interno del
vasto perimetro della cinta di mura. Vi era un boschetto e uno splendido prato
con alberi e cespugli fioriti dai mille colori. Si sarebbe detto uno spicchio
di paradiso terrestre, se non fosse stato per la presenza di quindici picche
piantate nel terreno: su quattordici era impalata una testa mozzata, con ancora
l’elmo indosso, nell’ultima invece era appeso un corno.
“Non
vi sono mura o cancelli” osservò Lancillotto “Come possono essere prigionieri i
vostri amici? Non possono uscire?”
“No,
una barriera magica protegge quel luogo, vi si può solo entrare da una
strettoia che, comunque, non consente di uscire.”
Il
cavaliere decise che era il momento di iniziare la sfida, per cui spinse il
proprio cavallo all’interno del verziere e poi si diresse verso il boschetto.
Trascorse
oltre mezz’ora. Galahad, Evrain
e il resto dei presenti osservavano il verziere in attesa che accadesse
qualcosa.
“Normalmente
che cosa succede?” chiese il giovane.
“Non
lo sappiamo con esattezza. Semplicemente dopo un po’ dal bosco esce un
cavaliere con una picca e la testa dello sconfitto e le va a collocare accanto
alle altre.”
Passarono
altri venti minuti, poi finalmente si vide qualcosa: Lancillotto uscì dal
boschetto, fiero sul suo cavallo, non vi era nessun altro. Raggiunse la picca a
cui era appeso il corno e lo suonò. Allora si alzò un forte vento all’interno
del verziere. Chi era fuori poteva vedere la polvere alzarsi, rami e fiori
staccarsi e vorticare in aria, assieme alle picche e alle teste. Presto non si
poté più vedere nulla. D’improvviso il vento cessò. Il verziere sembrava
intatto, mancavano solamente i teschi e Lancillotto.
Evrain e i suoi erano
esterrefatti: mai era accaduto qualcosa del genere, mai nessuno aveva suonato
il corno e non sapevano che cosa aspettarsi.
Poco
dopo dal bosco uscì un cavallo montato da un cavaliere e una damigella. Il Re
esclamò: “Sono loro! I prigionieri! Sono finalmente liberi!”
I
due raggiunsero Evrain e subito la donna scese da
cavallo e si getto ai piedi del sire, chiedendo perdono. Spiegò: “La colpa è
mia. Quando il mio amato venne nominato cavaliere, temetti di perderlo, nonostante
sia uno dei più valenti; allora chiesi consiglio alla Fata che vive nel
castello nella piana nebbiosa e lei disse di potermi aiutare. La supplicai di
fare qualcosa e allora lei lanciò un sortilegio che imprigionò me e il mio
amico nel verziere finché non fosse giunto un cavaliere in grado di sconfiggere
il mio amico. Il mio campione era costretto a uccidere tutti gli sfidanti, perché
se li avesse graziati allora l’incantesimo mi avrebbe uccisa. Poco fa è giunto
un cavaliere che ha battuto il mio amico in duello e che lo ha graziato, dopo
aver ascoltato la nostra storia e così ci ha salvati entrambi. Dov’è qual
cavaliere? Voglio ringraziarlo.”
Evrain le raccontò
allora di ciò che era accaduto dopo che il corso era stato suonato. Tutta la
corte era felice che i prigionieri fossero finalmente liberi, ma anche molto
costernati per la misteriosa sorte del loro salvatore.
Galahad era piuttosto
preoccupato per il padre, temendolo prigioniero di Morgana, per cui decise di
non trattenersi oltre in quel maniero e partire alla ricerca del castello della
Fata. Si rivolse quindi ad Evrain per ottenere il suo
permesso di congedarsi e per avere delle indicazioni per come raggiungere la
piana nebbiosa. La damigella, che vi era stata, gli spiegò come raggiungere la
piana, ma lo mise anche in guardia: la nebbia era piena di spettri e pericoli
ed era impossibile raggiungere il castello, senza che Morgana stesso lo
volesse. Il giovane ringraziò per i consigli, poi prese il proprio cavallo e le
cose sue e del padre e si mise in viaggio.
Dopo
un paio di giorni, mentre era fermo presso un crocevia per pranzare e per
accertarsi di essere sul giusto cammino, Galahad vide
in lontananza giungere un gruppetto di quattro cavalieri avanzare. Anche loro
si accorsero di lui e infatti uno si staccò dagli altri e avanzò più
velocemente. Raggiunse il giovane e gli disse: “Buongiorno, il mio Signore
vuole conoscere il vostro nome.”
“Perché
dovrei rivelarlo a chi non si degna di presentarsi per primo?”
“Non
siate sciocco, ragazzino, non avete idea di chi vi ha posto la domanda.”
“Appunto
per questo non voglio darvi risposta. Sono cavaliere quanto voi, la vostra età
maggiore mi ispira rispetto, ma se voi rifiutate di dirmi in nome di chi
parlate, anch’io tacerò.”
“Non
posso dirvi il nome del mio Signore, spero vi basti il mio: sono Mordred delle Orcadi. Ora tocca a voi.”
“Potete
riferire che sono Galahad Del Lago e vengo dalle
terre di Benoic, oltre il mare.”
Mordred si accigliò,
poi volse il cavallo per andare a portare la risposta al suo Signore.
Il
giovane aveva preso il cognome del padre e della nonna ed era piuttosto fiero
di quelle origini; durante gli anni in cui aveva vissuto in Benoic,
era spesso andato al Lago ed era rimasto meravigliato dai suoi prodigi anche se
diverse volte aveva avvertito una sensazione di disagio e timore davanti ai
portenti della magia; Viviana lo aveva sempre rassicurato dicendogli che era
normale per chi aveva poco potere sentirsi in soggezione davanti a fenomeni
scaturiti da immensa energia. Ricordava esattamente le parole della nonna: “Non
devi avere paura di ciò che è sovrannaturale: finché lo temerai, esso potrà
sconfiggerti. Non c’è potere od energia che non possa essere sottomessa. I limiti
che credi di avere sono solamente illusioni e li devi abbattere per progredire.
Un tempo, un re storpio obbligò tutti i suoi sudditi a camminare con le
stampelle, pena la morte; visse talmente a lungo che la gente dimenticò che si
poteva camminare senza le stampelle e quindi continuò a camminare con esse
anche dopo che il re era morto. Non ci sono limiti, tutto ciò che li pone vuole
solo ingabbiarti e indebolirti. Nemica principale è la paura. So che diventare
un mago non è nei tuoi progetti, ma quel che ti dico vale in ogni aspetto della
vita. È ciò che ho insegnato anche a tuo padre e che lo ha reso così grande. Ricorda
sempre la ricetta del potere, qualsiasi potere: sapere, volere, osare, tacere.”
Galahad vide un altro
cavaliere staccarsi dal gruppo e precipitarsi verso di lui. Il sopraggiunto lo
scrutò con attenzione e poi gli chiese: “Siete voi che affermate di venire da Benoic e che vi fregiate del casato Del Lago?”
“Sì,
signore. Voi chi siete?”
“Sono
Estor delle Paludi, figlio di Re Ban,
fratello di Sir Lancillotto Del Lago. Voi affermate di appartenere alla mia
famiglia, ma io non vi conosco, né ho mai sentito alcuno dei miei parenti
parlare di voi. Potete dimostrare che state dicendo il vero?”
Galahad sgranò gli occhi,
stupito e un po’ rattristato: possibile che suo padre non avesse mai raccontato
di lui? Si vergognava? Lo voleva tenere segreto? Non capiva. Si sentiva ferito,
ma era sicuro che sicuramente il padre aveva una qualche buona ragione, gliel’avrebbe
chiesta quando lo avrebbe rivisto, per il momento doveva scacciare qualsiasi
emozione negativa.
Il
giovane prese la bisaccia e tirò fuori lo stendardo del padre e lo mostrò al
cavaliere.
Estor lo riconobbe e,
sospettoso, domandò: “Come lo avete avuto?”
“È
di mio padre, Lancillotto. Un sortilegio molto potente lo ha fatto sparire
davanti ai miei occhi e ora lo sto cercando. Spero sia nel castello di Morgana
o, almeno, di trovare lì qualche indizio. Questa è la verità che voi la
crediate oppure no. Vi prego di non trattenermi, poiché non voglio perdere
tempo e, se non vorrete lasciarmi proseguire, sarò costretto ad incrociare la
mia lama con la vostra, benché siate mio zio.”
“Non
è necessario. Sei il figlio di Elaine, giusto?”
“Sì.
Dunque mio padre vi ha parlato di me?!”
“Si
è confidato con me a tal proposito, sì, ma non mi aspettavo di incontrarti, non
qui, non adesso, almeno. Lancillotto si vergogna del proprio peccato, ma si è
sentito anche molto in colpa per non essersi preso cura di te. Credo abbia
trovato la forza di parlarne con me perché io sono un figlio illegittimo di Ban e dunque mi è più facile capire la situazione. Non parliamone adesso, il tempo è
poco. Hai detto che pensi che Lancillotto sia prigioniero di Morgana?”
“Esatto.”
“Bene,
siamo fortunati. I tre cavalieri con cui sto viaggiando sono Re Artù in persona
e i suoi nipoti Galvano e Mordred. Diremo loro che tu
stai raggiungendo tuo padre che ti risulta essere ospite presso Morgana. Il Re
sarà entusiasta di andare a trovare la sorella e il suo vecchio amico e quindi
vorrà accompagnarti. La sua presenza dovrebbe essere sufficiente per impedire a
Morgana di aggredirti con chissà quali mostruosità e costringerla a liberare
Lancillotto senza protestare.”
Galahad era perplesso e
chiese conferma: “Quindi mentiamo al re perché non crederebbe che la sua cara
sorella abbia imprigionato il suo miglior cavaliere?”
“Precisamente.
Ecco, ormai sono arrivati, stiamo attenti a non contraddirci.”
Arrivarono
gli altri tre cavalieri, tutti quanti sembravano avere circa quarant’anni e Galahad capì che probabilmente Merlino manteneva giovane il
Re e i suoi più fedeli e valorosi cavalieri; infatti Artù doveva avere almeno
una sessantina d’anni, mentre Galvano era poco più giovane di lui, infine Mordred era forse il solo che dimostrava gli anni che
realmente aveva.
Galvano,
che aveva ricci capelli neri, barba e baffi ben curati, sorridendo domandò: “Allora,
amico, hai risolto il mistero legato al tuo albero genealogico?”
“Sì,
mio buon amico, questo giovane è figlio di Lancillotto.”
“Lancillotto?!”
esclamò Artù, che aveva lisci capelli castano chiaro e una folta barba, mentre
in testa aveva la sua corona di elettro con incastonata una pietra azzurra “Dove si trova
ora il mio leale cavaliere, il mio ottimo amico? È da tanto che no dà sue
notizie.”
Galahad raccontò una
storia che in parte corrispondeva al vero e in parte seguiva la bugia ideata da
Estor: “Mio padre voleva presentarmi a Camelot per Pentecoste e non vi ha informato di ciò per
fare una sorpresa lieta al vostro cuore. Mi ha preceduto nel viaggio di una
settimana e ora si trova ospite presso vostra sorella Morgana, io mi stavo
recando colà per ricongiungermi a lui.”
Bastarono
queste parole e, come previsto da Estor, il Re
immediatamente decise di accompagnare il giovane, assieme ai suoi cavalieri.
Fu
così che Galahad conobbe Artù e alcuni dei cavalieri
della Tavola Rotonda. Cavalcarono assieme per oltre una settimana e il giovane
si fece subito ben volere da tutti quanti poiché dimostrava la sua bravura con
le armi nella caccia e sfoggiava le proprie conoscenze, pur mantenendo sempre
un atteggiamento umile, senza sembrare adulatorio. Sia Galvano che Estor vollero duellare con la spada con il giovane per
vedere come se la cavasse, si divertirono molto e rimasero soddisfatti.
La
piana nebbiosa non era vicina, per raggiungerla era necessario superare una
foresta in cui si avanzava lentamente, poiché non vi erano sentieri battuti. Un
giorno, mentre procedevano a piedi utilizzando accette per sfoltire rami e
arbusti per consentire ai loro cavalli di avanzare, udirono in lontananza
musica e canti. Un po’ incuriositi e un po’ speranzosi di poter trovare
finalmente un poco di civiltà dove ristorarsi, tutti e cinque tesero le
orecchie per cogliere l’esatta direzione da cui provenivano le melodie e le
seguirono. Vagarono per circa un’ora poi finalmente trovarono una radura,
completamente immersa nella foresta. Non vi erano edifici, ma solamente un
padiglione in legno e stoffa, con tavoli imbanditi con molte leccornie e con
fiaschi di vino e idromele, mentre tutt’attorno uomini e donne danzavano e
ridevano, mentre musici suonavano senza sosta.
Nessuno
andò loro incontro per accoglierli, ma subito sia Artù che i suoi cavalieri
andarono verso una tavola per mangiare e bere qualche prelibatezza. Solamente Galahad trovò sospetto un simile scenario e rimase un poco
in disparte, senza toccare nulla: sapeva che fate, folletti, elfi e spiritelli
potevano dar vita a grandi festeggiamenti e non sempre escludevano gli umani,
tuttavia le persone che vedeva erano apparentemente uomini e donne comuni: da
dove venivano? Non c’erano tracce del loro passaggio. E il cibo dove veniva
cucinato?
Si
accorse che anche Artù e i cavalieri avevano iniziato a danzare, si avvicinò
loro per condividere i suoi dubbi e si accorse che parevano non sentirlo:
ballavano e ridevano, ignorandolo completamente. Galahad
si preoccupò ancor maggiormente e si guardò attorno alla ricerca di qualche
indizio utile che lo aiutasse a capire che cosa fosse successo e come liberare
i suoi compagni di viaggio e il resto della gente da quella danza incessante e
frenetica. Era abbastanza certo che il cibo o il vino centrasse qualcosa con
tutto ciò, per cui decise di rimanerne alla larga dalle vivande. Notò che
nessuno entrava nel padiglione e quindi pensò che al suo interno ci potesse
essere qualcosa di importante o qualche spiegazione. Si avvicinò, scostò una
tenda ed entrò. Il padiglione era illuminato da una indefinita luce fredda, non
vi era molto al suo interno: tappeti che coprivano il suolo, un letto
circondato da tende, un tavolino basso su cui era posta una scacchiera e ai
lati due cuscini a sgabello; su uno di essi sedeva un uomo.
Quest’ultimo
alzò lo sguardo e fu abbastanza sorpreso di vedere il giovane, ma scacciò
presto lo stupore, indicò lo sgabello davanti a sé e disse: “Prego, accomodati.
È passato molto tempo dall’ultima volta che qualcuno è entrato qui senza essere
invitato da me. Fa piacere vedere che c’è ancora qualcuno che usa il buon senso
prima di assecondare la fame o i piaceri. Non so, però, se basterà.”
“Basterà
per cosa?” chiese Galahad sospettoso, avanzando di
qualche passo.
“Sciogliere
l’incantesimo, ovvio.”
“Ovvio
… Quindi è un tuo sortilegio che costringe quella gente a danzare; perché?”
“Oh,
lo capirai. Voglio essere generoso, visto che non sei caduto vittima dell’incantesimo
come gli altri, puoi decidere se andartene ed essere certo di avere salva la
vita, oppure tentare di liberare gli altri, ma rischiando di morire. Scegli con
attenzione.”
“Dovrei
andare a salvare mio padre da un’altra parte, ma dal momento che tra i tuoi
prigionieri ci sono mio zio e il mio Re, penso che darò la priorità a spezzare
quest’incantesimo. Cosa devo fare?”
“Battermi
a scacchi, se ci riuscirai, tutti quanti saranno liberati. Se perderai, invece,
morirai. Ora, se sei ancora d’accordo, dillo e non potrai più ritrattare. Se ti
impegni, non potrai abbandonare la partita.”
“D’accordo,
sono sicuro.”
L’uomo
sorrise, con la mano indicò la scacchiera e disse: “Bene, a te la prima mossa.”
Cominciarono
a giocare, per alcuni minuti non accadde nulla di strano e l’unica cosa che meravigliava
Galahad era che il suo avversario usava una strategia
molto aggressiva che mirava a mangiare molte pedine, anziché predisporre i
pezzi in vista di uno scacco matto. Dopo aver perso tre pedine, il giovane
cominciò a sentirsi leggermente stanco o forse era più esatto dire indebolito. Al
quarto pezzo catturato dall’avversario, la vista di Galahad
iniziò ad essere piuttosto sfuocata. Il giovane si sfregò occhi e si diede
qualche schiaffetto per concentrarsi.
L’uomo
allora osservò, piuttosto gaio: “Oh, finalmente qualche effetto!”
“Che
cosa significa?”
“Per
ogni pezzo che perdi, perdi anche un sedicesimo del tuo sangue. Sei robusto
quindi dovresti avere molto sangue, ma credo che un paio di litri tu li abbia
già persi.”
“È
così che vinci le tue partite a scacchi? Indebolisci i tuoi avversari
meschinamente in modo che non possano giocare al meglio?”
“Sì,
ma la finalità del dissanguare i miei avversari non è la vittoria, è un’altra. Vedi
il letto alle mie spalle? Lì c’è mia figlia è molto malata e nessun medico o
stregone è stato in grado di curarla. L’unico modo per non farla morire e darle
nuovo sangue ogni settimana. Per questo attiro i viandanti in questa radura e
li imprigiono nella danza frenetica, poi ogni settimana ne scelgo uno per la
sfida a scacchi. Oggi, purtroppo, è capitato a te.”
“Mi
dispiace per vostra figlia, ma sono ancora intenzionato a vincere.”
Non
fu facile per Galahad proseguire la partita poiché,
oltre a cercare lo scacco matto, doveva resistere alla debolezza che gli
rendeva più difficile il pensare e cercare di proteggere tutte quante le sue
pedine per non peggiorare le proprie condizioni.
Non
fu affatto semplice, la partita si protrasse per diverse ore. Dopo aver perso
un altri due pezzi, Galahad cominciava a risentire
parecchio della perdita di quasi metà del sangue che normalmente aveva in
corpo. Iniziava a temere di non farcela. Chiuse gli occhi per cercare la
concentrazione che ormai gli sfuggiva. Accadde allora qualcosa di strano: vide Pelleas, sempre ferito alla gamba, seduto su un seggio, in
una stanza piena di libri e pergamene; Yahuda gli
disse: “Quando giocavi a scacchi con me, non eri mai così in difficoltà. Su,
riprenditi, non puoi morire adesso, devi ancora riuscire a trovarmi. Ricorda che
la tua mente e il tuo spirito sono più forti del tuo corpo; anche se esso è
debole, puoi sempre lo stesso raggiungere la vittoria. Non è certo questa l’occasione
in cui è fondamentale la forza fisica.”
Galahad riaprì gli
occhi, confuso e certo si fosse trattato di un delirio, tuttavia, perché non
dargli ascolto?
Ricordò
uno degli esercizi che gli aveva insegnato sua nonna, che consisteva nell’ottenere
un livello di concentrazione tale da tenere la mente come isolata dal corpo. Vi
riuscì e grazie a ciò poté continuare la partita perfettamente lucido e presto
ottenne la vittoria, per perdendo altro sangue.
L’uomo
che aveva architettato tutto ciò rimase esterrefatto e si disperò pensando al
fatto che il suo incantesimo era ormai rotto e dunque perdeva la possibilità di
mantenere viva sua figlia.
Galahad si alzò in
piedi per andare a controllare se il Re e le altre vittime del sortilegio
fossero state realmente liberate, ma dopo pochi passi barcollò e svenne.
Intanto,
fuori dal padiglione, la gente aveva finalmente smesso di ballare e si sentiva
libera. Artù e i suoi, che avevano visto il loro giovane amico entrare nel
padiglione, vi entrarono per cercarlo e trovarono lui svenuto e l’uomo in
lacrime.
Il
Re si fece raccontare quanto accaduto e appresa la faccenda per intero disse
che era abbastanza sicuro di avere una soluzione. Sciolse dal proprio fianco il
fodero di Excalibur e lo legò alla vita della ragazza che giaceva sul letto. La
pietra azzurra sulla corona del re brillò e in pochi minuti la fanciulla tornò
sana e florida. Artù fece la stessa cosa su Galahad
per fargli riacquistare rapidamente il sangue perso e, nel suo caso, non fu
neppure necessario che la corona si illuminasse.
Il
Re e i suoi cavalieri furono molto grati al giovane per essersi esposto per
tutti loro e averli salvati.
Il
padre e la figlia erano contentissimi e l’uomo offrì a tutti quanti erano stati
suoi prigionieri cibo e ricchezze per farsi perdonare.
Artù
e i suoi, comunque, non si trattennero a lungo nella radura e ripresero il loro
cammino per la piana nebbiosa, ormai vicinissima.