Era
sveglia già da un po’, una delle infermiere le
aveva portato un vassoio con
acqua, pane e una scodella di brodo, ma lei non aveva toccato nulla.
L’aveva
slegata, anche se era ancora in quella umida cella piccola e senza
finestre, di
tanto in tanto un uomo dagli occhi chiari apriva lo spioncino
rettangolare
della porta e le lanciava uno sguardo, forse per assicurarsi che fosse
ancora
lì. Di certo non poteva scappare. Si era stesa sul letto, lo
sguardo puntato
ben oltre la parete davanti a sé, perso in un luogo dove non
avrebbe dovuto
pensare a nulla, ma quel piccolo angolo di pace che si era creata non
durò a
lungo.
La
porta si aprì, l’infermiera e l’uomo
dagli occhi chiari la scortarono in
un’altra stanza, grande, luminosa, ben arredata, con una
libreria ricolma di tomi
e una scrivania grande oltre la quale sedeva un uomo anziano, canuto,
ben
rasato e dal fisico magro. Indossava un completo elegante, scuro e
sopra di
esso spiccava il camicie bianco.
Le
sorrise, vedendola entrare, ma quel ghigno servì solo a
metterla a disagio. Si
strusciò le mani sulle braccia scoperte, nonostante non
facesse freddo, si
portò i capelli, che ormai dovevano sembrare solo un rovo
incasinato, dietro
l’orecchio e cercò di deglutire, ma un groppo le
bloccava la gola.
-Siediti-
Le
indicò la sedia di fronte alla scrivania e lei
obbedì silenziosa, sentendo i
passi dei suoi aguzzini che si allontanavano oltre la porta chiusa.
-Io
sono il Dottor Delacroix, gestisco questo posto. Sai dirmi il tuo nome?-
Qualsiasi
cosa le avessero iniettato, doveva essere un farmaco potente,
perché la nebbia
non aveva ancora smesso di offuscarle la mente, non riusciva a pensare
lucidamente.
Una
vocina le disse che sarebbe stato meglio mentire, ma nella confusione
di
immagini e suoni, non poté trovare neanche un nome.
-Belle Duval-
-Sai
dove ti trovi e perché sei qui?-
Sono
nel mio peggiore incubo. –In
un
manicomio-
-Una
casa di cura- la corresse subito, forzando ancora di più il
sorriso.
-Questo
è.. reale? Se fosse solo un sogno..-
-Sei
qui perché eri un pericolo per te stessa e per gli altri,
Belle, vagavi in
stato confusionale, capisci cosa intendo? È reale-
In
stato confusionale..? Ce l’avevano portata loro in stato
confusionale!
-Io..
non è così..-
-Perché
credi di trovarti in un sogno?-
-Perché
se non è così..- il suo sguardo vagò
sui tanti titoli della libreria, anatomia
umana.. delirio e le cure..
nuovi
metodi per la cura della schizofrenia..
-Questo
è un manicomio..-
Lo
aveva già detto?
-Una
casa di cura- la corresse ancora, alzandosi e appoggiandosi alla
scrivania,
guardandola con attenzione.
-Credi
di poter controllare i sogni?-
Oh,
se solo avesse potuto controllarli.. la
voce di quell’uomo non le piaceva, così pacata,
sinuosa, così serpentina.
Doveva essere per forza velenosa.
Le
tornò in mente la brodaglia della locanda, le pareti bianche
della stanza in
cui si era svegliata, l’infermiera che le faceva
l’iniezione. Chiuse gli occhi,
lasciando che tutte le sue forze scivolassero via senza opporre
resistenza, accogliendo
il vuoto che ne rimase come unica ancora di salvezza. Guardò
gli occhi piccoli
e luccicanti del medico e non trovò assolutamente nulla da
dire, nulla che volesse dire.
Lui
continuò a porle delle domande, a chiamarla, ma lei rimaneva
in tranquillo
silenzio consolatorio. Alla fine l’uomo dagli occhi chiari
tornò a prenderla,
ma stavolta la scortò nella stanza dove si era svegliata o,
almeno, era
identica a quella, ma ugualmente vuota. Niente compagna di stanza per
lei.
L’infermiera chiuse la porta alle sue spalle.
Si
rannicchiò sul letto, le ginocchia strette al petto, la
schiena incastrata
nell’angolo del muro, avvolse le braccia attorno alle gambe e
fissò nuovamente
lo sguardo lontano da lì, in quel mondo tutto suo che non
aveva mai raggiunto
veramente, fatto di illusioni e pace, tuttavia, questa volta era una
pace che
mascherava unicamente il vuoto. E lei vi si perse, grata di averlo
finalmente
trovato, perché, se avesse voluto sopravvivere, non
c’era altro modo.
Il
dottor Delacroix continuò a parlare con lei, giorno dopo
giorno, ma lei continuò
a non rispondere e, poco a poco, il suo sguardo si fece sempre
più vacuo, il
suo corpo sempre più provato dalle privazioni, nonostante
qualcuno ai margini
della sua visuale, continuasse a lasciarle un vassoio di cibo nella
stanza, la
sua pelle sempre più pallida, forse perché
evitava il sole rintanandosi nel suo
angolo oscuro finché non calava la notte.
Poi,
dopo un tempo che a stento aveva sentito scorrere,
l’infermiera l’aiutò a
scendere delle scale fino a che non sentì il calore del
giorno sul viso e la
luce accecante negli occhi.
Sbatté
le palpebre e vide un prato ben curato, animato da molte anime assenti
come
lei.
Chiuse
gli occhi, ancora e ancora, ma quella visione non sparì.
Dov’era il suo angolo
buio? Dov’era il suo angolo privato di vuoto e silenzio?
Il
suo sguardo si posò sugli uomini e le donne smunte e dallo
sguardo perso, anche
lei appariva così?, sugli angeli candidi della morte nei
loro abiti bianchi,
sul palazzo maestoso alle sue spalle.
L’infermiera
la fece sedere su una sedia e le disse che si sarebbe allontanata
alcuni
istanti. In fondo, anche se aveva lasciato quel vuoto così
confortante, poteva
continuare a restare nel suo silenzio. Almeno così non
l’avrebbero imbottita di
sedativi.
Un
uomo dalle guance paffute e il viso sorridente le si sedette vicino.
Non lo
degnò di uno sguardo. Ma lui continuava a fissarla
sorridendo, con i capelli
grigi scompigliati e la posa rilassata.
-Ehilà,
ragazzina, finalmente ti hanno fatta uscire, eh? Dì un
po’, come ti chiami?-
Finse
di ignorarlo, ma lui non la lasciò comunque in pace.
-Io
sono Maurice, paziente già da.. allora, vediamo.. due anni,
ma, ehi, non hanno
sperimentato ancora nessuna nuova cura su di me. Certo, qualche volta
mi hanno
rimpinzato di farmaci per ‘alleviare la tensione’-
sbuffò –Che sciocchezze.
Metà della gente che sta qui non era altro che povera gente,
persone che
avevano tutte le rotelle apposto e ora guardale- indicò con
il mento alcuni
pazienti che camminavano con lo sguardo incantato rivolto al cielo e la
bocca spalancata
in un sorriso scomposto.
-Il
dottor Delacroix sperimenta sui suoi pazienti un nuovo metodo di cura
all’avanguardia, ma ancora in via sperimentale. Quando li
portano via, sono
normali, quando li rivedi.. e più passa il tempo,
più peggiorano. Chissà quanto
ci metterà a decidere che è il mio turno. Ma tu
sei sanissima, proprio come me,
dico bene?-
La
scrutò, trafiggendola con uno sguardo intenso che non aveva
più nulla di
giocoso.
-Mi
chiamo Belle- sussurrò.
-È
un piacere, Belle. I nuovi arrivati hanno sempre delle
difficoltà, ma io ti
consiglio di lasciar perdere il mutismo e collaborare. Meno loro ti
credono
matta, più tempo avrai prima di..- lasciò cadere
il discorso, ma i suoi occhi
erano puntati nuovamente sui pazienti che le aveva indicato poco prima.
Si
voltò nuovamente verso di lei e le diede una leggera
gomitata, riportandola
fuori dai suoi pensieri.
-Molti
di noi si creano un mondo tutto loro appena arrivati, per sfuggire a
tutto
questo, ma ciò non vuol dire che tu sia davvero matta-
E,
solo per un attimo, trovò la forza di sorridere.
Si
impegnava davvero. Ogni giorno, durante l’ormai abituale
seduta con il dottor
Delacroix, si sforzava di rispondere placidamente a tutte le domande
che le
porgeva, cercava, beh, cercava di non sembrare pazza, come le aveva
consigliato
Maurice. Aveva ripreso a mangiare, non si era più fatta
prendere da crisi di
panico o di mutismo, sorrideva alle infermiere, anche se ciò
le costava uno
sforzo non indifferente e chiacchierava spesso con Maurice, durante
l’ora d’aria
o nel pomeriggio, quando li lasciavano liberi nella stanza principale,
dove
ognuno poteva sedersi ai tavoli rotondi, leggere dei libri portati
dalla
famiglia o, nella maggior parte dei casi, fissare inebetiti il vuoto.
C’erano
un paio di tipi che la facevano rabbrividire tutte le volte, Maurice le
aveva
sussurrato che a volte anche i criminali venivano portati lì
e che quei due
uomini erano stati condannati per omicidio appena l’anno
prima. Così, evitava
di incrociare il loro sguardo o, ancora meglio, la loro strada. Passava
la
maggior parte del tempo libero con Maurice e Simon, un uomo che doveva
aver
passato i cinquanta già da un po’, con una
calvizie evidente e le mani troppo
piccole per un uomo, uno dei pochi che aveva ancora tutte le rotelle
apposto.
A
volte aveva sorpreso alcuni dei portantini fissarla in maniera alquanto
insistente e si era sentita vulnerabile, indifesa, consapevole che
quelli,
almeno nel suo mondo, non erano stati tempi d’oro per le
donne, soprattutto in
un posto dove o eri matto davvero, o ti ci facevano diventare. In ogni
caso
nessuno di loro aveva protezione, lì.
Ma
lei abbassava lo sguardo, ignorava il tremolio alle mani, ingoiava il
groppo
che rischiava di soffocarla e pregava con tutto il cuore che riuscisse
a tornare
a casa illesa.
Insomma,
lei si impegnava davvero, ma quei dannatissimi sogni dovevano sempre
incasinarle la vita, smascherarla, puntarle il dito contro, mostrando a
tutti
quanto davvero fosse fuori di testa. Si svegliava spesso in piena
notte, urlando
in preda a orribili incubi, e le infermiere accorrevano per sedarla. Il
pomeriggio aveva sempre una terribile emicrania che le dilaniava la
testa.
Maurice
le diede una leggera gomitata sul braccio, ma lei non tolse le mani dal
cranio
né aprì gli occhi.
-Ehilà,
bella addormentata, non escluderci così-
Si
massaggiò le tempie, sospirando.
–Sono
sicura che la mia testa scoppierà da un momento
all’altro-
-Non
ti accadrà nulla, devi solo smetterla di farli arrabbiare-
-Non
è colpa mia, gli incubi mi perseguitano. Se solo non
sognassi più..-
Aprì
gli occhi e vide che Simon se ne era andato. Perfetto, non
l’aveva neanche
sentito allontanarsi. Maurice si voltò verso di lei.
-Dì
un po’, ragazzina, è vero che hai un qualche..
potere dei sogni? Gira voce che
è per questo che sei diventata il nuovo giocattolino del
dottor Braise*-
-Braise?-
-Sì,
è il nuovo nome che gli hanno appioppato, perché
sai, dopo le terapie.. a volte
riesci a sentire l’odore di bruciato.. l’odore dei
tuoi neuroni che vanno in
fumo, almeno così dicono-
Lo
fissò basita. Era orribile.
-Allora?
È vero?-
Sospirò
ancora. –Non
ho nessun potere, è solo
che, alcune volte.. i miei sogni si avverano-
-Chiarisci
alcune volte-
Scrollò
le spalle. –Nove
volte su dieci-
-Però,
ragazzina, chi l’avrebbe mai detto- rise di gusto. –Magari
sei davvero una strega-
Lo
fulminò con lo sguardo, ma non poté evitare di
sorridere a sua volta.
Poi, proprio davanti
ai suoi piedi, si disegnò una scia luminosa che, tuttavia,
in tutta
quell’oscurità non l’accecava, invece,
la invitava, rassicurante, le mostrava
dolcemente la via e lei la percorse. Fece alcuni passi, forse
camminò a lungo,
a lei sembrò un tempo infinito, ma quella strada non
conduceva a nient’altro
che a nulla. Si fermò, si voltò indietro, voleva
tornare sui suoi passi, ma,
appena oltre i suoi piedi, la strada scompariva, tornando ad essere
notte e
cecità, cancellata da una mano accurata, letale,
impassibile, sicura, eliminata
lentamente, ma sempre più indietro. E lei non poteva
più percorrerla, non
poteva più tornare indietro. E allora dimenticava
perché era lì, come era
arrivata in quell’unico punto luminoso sotto i suoi piedi.
Quando anche quello
si spegneva, lei ripiombava nel buio, nella paura,
nell’inconsapevolezza del
perché fosse lì. La gola si chiudeva, ancora, il
petto dilaniato dal panico,
ancora, il fiato mozzo, ancora.
E lei urlava.
Angolo
autrice: Salve a tutti, come al solito pubblico con un
immenso ritardo (non odiatemi), spero che il nuovo capitolo vi piaccia.
La scelta dell'immagine non è casuale, diciamo che questa
è stata l'immagine che ha messo in moto tutta la storia, che
ha generato l'idea a cui poi non ho potuto evitare di dare vita. Fatemi
sapere cosa ne pensate, buona lettura.