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Autore: DirceMichelaRivetti    01/01/2016    1 recensioni
Storia che vuole esplorare il passato di Jenkins, dalla sua gioventù fino al momento in cui la magia venne tolta dal mondo; i suoi rapporti con la Biblioteca e la sua relazione col padre.
Mi sono ispirata in parte al ciclo bretone, in parte a tutte le frasi (spesso lasciate in sospeso) pronunciate da Jenkins circa il proprio passato.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Dulaque, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Erano trascorse quasi due settimane da quando Galahad si era unito ad Artù, Galvano, Mordred ed Estor ed erano trascorsi un paio di giorni dalla brutta disavventura con l’uomo e la scacchiera dissanguatrice. Il legame tra i cinque si era notevolmente rinforzato dopo quell’ultimo episodio.

Galahad era tuttavia piuttosto pensieroso era certo di avere delle domande per cui non avrebbe ottenuto risposta, una volta che si fossero ricongiunti con Lancillotto. Non gli pareva giusto indagare ciò che suo padre non voleva che ancora sapesse, ma d’altra parte non voleva neppure restare ancora con mille dubbi. Si decise quindi a vincere le sue incertezze.

Una sera, attorno al fuoco, Galahad si fece coraggio e disse: “Pur lontano da Camelot e da qualsiasi altra corte frequentata dai vostri cavalieri, ho sentito raccontare moltissime storie e oserei dire che mi pare quasi di conoscere le personalità più di spicco di Logres. Vi è però un uomo di cui ho sentito il nome alcune volte, che sembra essere importante, ma che nessuno è mai riuscito a spiegarmi chi sia esattamente e che cosa faccia.”

Mordred commentò, ridacchiando: “Se intendi Keu, ce lo chiediamo tutti quanti.”

“Chi, dunque?” domandò Galvano.

Pelleas è il suo nome.”

L’aver rivisto o ripensato a quell’uomo dopo tanto tempo, aveva fatto riaffiorare in Galahad i quesiti su di lui; si era ricordato che il padre gli aveva fatto cenno al fatto che Pelleas centrasse con la Tavola Rotonda, per cui sperò che i suoi compagni di viaggio gli fornissero spiegazioni.

I cavalieri e il Re si scambiarono qualche occhiata perplessi, poi Artù disse: “Sei già molto fortunato ad aver sentito il suo nome e mi piacerebbe sapere come sia possibile. Solitamente lui raccomanda sempre il silenzio su di sé e quasi mai si è rivelato a qualcuno che non fosse Merlino o membro della Tavola Rotonda. In realtà, solamente io e Merlino lo conosciamo piuttosto bene e sappiamo … beh, per te sarà già un onore sapere quello che sanno i cavalieri della Tavola Rotonda: è lui che, diverse volte, ci indica dove intervenire ed è a lui che consegniamo gli oggetti più pericolosi in cui ci imbattiamo. Questo è quanto.”

Galahad era forse ancor più dubbioso che non soddisfatto da quella mezza risposta.

Mordred chiese: “Tu da chi hai sentito il suo nome?”

Estor intervenne rapidamente: “Sicuramente da sua madre Elaine, non ti sembra?”

“Ah, già” borbottò l’altro “Mi sembra ancora strano pensare che Lancillotto abbia avuto un figlio da quella donna. Quando mai li si è visti assieme?!”

“Fratello, non è gentile parlare in questo modo.” lo ammonì Galvano.

Mordred sbuffò e non disse null’altro. La conversazione deviò su altri argomenti e Galahad accantonò le proprie curiosità per qualche ora, finché non rimase sveglio da solo con lo zio per il turno di guardia.

“Zio, che cosa sai di mio padre e mia madre? Lei mi ha sempre detto che lui non le aveva mai perdonato il fatto che lei non fosse la donna che lui amava; che cosa intendeva dire? Non capisco … e poi che cos’è cambiato, anni fa, che li ha convinti a formare una famiglia?”

Estor non rispose subito, rimase pensoso e mosse la mani nervosamente, ma infine disse: “Sei grande, dopo tutto, non credo che conoscere la verità, almeno quella che è stata detta a me, possa turbarti. Lo so che molti immaginano i genitori innamorati, uniti e così via, ma la vita spesso va contro agli ideali. Tuo padre ama una donna, di cui non farò il nome poiché è sposata e non voglio creare imbarazzi. Durante uno dei suoi viaggi Lancillotto ha incontrato Elaine, non so che cosa sia accaduto esattamente; lui dice di essere stato ingannato, non saprei. So per certo che non volle più sentir nominare né lei, né Pelleas finché non ti ha conosciuto, dopo aver visto te si è addolcito. Sei anni fa, mi pare, a causa di un malinteso, la donna amata da tuo padre cadde preda della gelosia e lo ferì, emotivamente, in maniera molto profonda. Lui andò in depressione, si isolò finché ad un tratto lo raggiunse Elaine che si prese cura di lui, gli stette vicino e lo aiutò a riprendersi. Lancillotto le fu molto grato per questo e decise di darle una possibilità e vivere assieme a lei, in Francia, dove non si sapesse che non sono sposati, lontano dal suo vero amore che lo ha fatto soffrire … ma credo che l’unico motivo per cui sia riuscito a stare lontano da Logres così a lungo sia stato perché tu eri con lui. La sola presenza di Elaine non sarebbe bastata a trattenerlo.”

“Che cosa c’entra mia madre con Pelleas? È già la seconda volta che li colleghi.”

“Non lo sai?!” si meravigliò Estor “Non è stata lei a parlarti di lui?”

“No.”

“Chi allora?” il cavaliere era stato piuttosto incalzante.

Il giovane, vedendo lo zio innervosito ma non per rabbia, decise di dire la verità: “L’ho conosciuto di persona. Mi è venuto a far visita, tal volta, mentre ero solo. Non capita più da quando vivo con mio padre. Non mi ha mai raccontato nulla di sé, ma abbiamo sempre e solo parlato di nozioni e studi.”

“Quindi tu l’hai visto fuori dal suo castello? Com’è possibile? Come fa a muoversi con la ferita che si ritrova? Va beh, non ha importanza. Galahad … io non so se posso dirtelo, cioè, se avesse voluto che tu lo sapessi, te lo avrebbe detto lui stesso. Pazienza, tanto vale che te lo dica, lasciarti col dubbio mi pare crudele. Pelleas è il padre di Elaine, o almeno così si dice.”

Il giovane strabuzzò gli occhi e rifletté ad alta voce, quasi per convincersi, tanto gli pareva sorprendente il fatto: “Quindi lui è mio nonno?!”

Rimase con quel pensiero per tutta notte e si coccolò ricordando le conversazioni avute con lui. Si chiedeva il perché del tenere segreta la loro parentela, ma preferiva godersi la sensazione di avere un altro tassello sulla propria famiglia, le proprie origini e dunque la propria identità.

Vi avrebbe pensato volentieri anche il giorno seguente, ma venne coinvolto nelle conversazioni di Artù e dei cavalieri.

Giunsero finalmente alla piana nebbiosa. Usciti dalla foresta, videro un muro di nebbia alzarsi a un chilometro circa da loro; saliva fino in cielo ed era così largo che lo sguardo non poteva abbracciarlo completamente. Si avvicinarono e si resero conto di quanto la nebbia fosse fitta e che sarebbe stato praticamente impossibile vedere alcunché, una volta entrati in quell’area.

Estor domandò: “Galvano, Mordred, come andate a trovare vostra zia, di solito? Avete idea di come raggiungere il castello?”

“No, di solito ci incontriamo in altre residenze, oppure viene lei nelle Orcadi.”

“Come procediamo?” continuò a chiedersi Estor, preoccupato per il fratello.

“Intanto quante corde abbiamo?” chiese Galahad.

“Corde?” domandò Galvano, poi capì “Certo, ci leghiamo assieme per non perderci una volta dentro, ottima idea.”

Artù era piuttosto tranquillo, si sfilò il fodero con Excalibur e disse: “Galvano, prendila tu al momento, io userò Marmiadoise, la sua luce dovrebbe aiutarci ad avanzare. Sono convinto che Morgana, quando si accorgerà che siamo noi, ci aprirà un passaggio per il suo castello senza difficoltà. Dobbiamo solo farci notare.”

“E respingere i suoi guardiani, finché non vi avrà riconosciuti.” aggiunse Estor.

Il Re diede la propria spada al nipote e per sé ne prese una che aveva legata al cavallo, assieme a bisacce e altri bagagli; appena la lama fu sfoderata, brillò di una tale luce da abbagliare gli altri e costringerli ad abbassare lo sguardo.

Galahad provò un brivido d’emozione: quella spada era appartenuta, un tempo, ad Ercole e Artù l’aveva conquistata in battaglia, sconfiggendo il gigante Frollo.

Il giovane era estasiato: era la prima volta che vedeva dal vivo qualcosa di considerato leggendario e il trovarsi in presenza di un oggetto che era stato protagonista di alcune delle grandi imprese dell’umanità, gli provocava una sensazione di ammirazione ed entusiasmo e ne era elettrizzato.

I cinque uomini legarono se stessi e i cavalli in una cordata, ma non in fila indiana. Artù era davanti e accanto a lui c’era Galvano, dietro erano stati messi i destrieri divisi in due fila, alla loro sinistra c’era Estor, a destra Mordred, mentre Galahad era dietro a tutti a far da retroguardia.

Dopo alcuni minuti si udì un frullio d’ali. Il gruppo si arrestò. Artù agitò Marmiadoise per aria, cercando di illuminare un poco ciò che li circondava; infatti la nebbia era talmente fitta che anche la potente spada non riusciva a schiarire se non per tre metri di diametro. Videro delle ombre volteggiare sopra di loro, ma non poterono distinguerle con precisione, ma sembravano rapaci molto grossi. Pochi istanti dopo, alcuni di essi piombarono in rapidissima picchiata contro di loro. Gli uomini sollevarono gli scudi per ripararsi, ma gli uccelli erano numerosi e parevano giungere da tutte le parti, dunque era difficile proteggersi, anche perché l’attacco fu molto rapido.

I rapaci avevano becchi e artigli molto robusti e affilati e riuscirono a ferire i cavalieri e anche a strappare loro qualche brano di carne. La cosa più agghiacciante era stata che, cozzando contro gli scudi o le spade, con cui gli uomini avevano tentato di respingerli, per l’aria erano vibrati suoni metallici.

Un attimo dopo una pioggia di frecce si abbatté sul gruppo.

Galvano, che era vicino al re e dunque aveva una visuale migliore, si rese conto che ciò che li stava colpendo non erano dardi normali, bensì piume di bronzo. Il cavaliere sbuffò e comunicò agli altri: “Uccelli Stinfalidi!”

“Idee utili per affrontarli?” domandò Mordred “Non credo che potremo seguire l’esempio di Ercole e abbatterli con le frecce.”

“Bah, io posso anche accontentarmi di abbatterli a spadate quando si avvicinano” disse Estor “Il tempo lo abbiamo.”

Galahad rapidamente pensò a ciò che sapesse su quelle bestie e disse: “Hanno un udito molto sensibile, potremmo trovare la maniera di sfruttare questo fattore per confonderli o disturbarli.”

“Ci vorrebbe un suono molto acuto” disse Galvano “Non saprei però come produrlo.”

“Ci penso io.” li tranquillizzò Artù.

La gemma azzurra della corona si illuminò e si sentì una nota lunga e acuta, che costrinse gli uomini a tapparsi le orecchie. Gli uccelli parvero disorientati e infastiditi, ma appena il suono cessò, ripresero l’attacco. Questa volta, i cavalieri furono più abili a difendersi e ne riuscirono ad abbattere qualcuno con le loro spade.

“Non è stato sufficiente, dannazione!” disse Morded, furente.

“Ci vorrebbe qualcosa di più acuto ancora, ma forse ci rimetteremmo anche noi.”

“Pitagora!” esclamò Galahad “Pitagora ha studiato anche la musica e il suono, ha osservato che le note hanno diverse e specifiche lunghezze e vibrazioni e per questo corde differenti producono suoni diversi su una cetra. Ipotizzò che potessero esserci tonalità con vibrazioni tali da non poter essere sentite dalle orecchie delle persone ma solo da alcuni animali.”

“Sono solo ipotesi!” ribatté Mordred “Come potremmo, poi, ottenere un suono che non sappiamo se esiste?”

Artù invece, annuì: “Ho capito che cosa intende il ragazzo. Con la corona posso farcela … basta ch’io abbia ben chiaro in mente come sia scientificamente possibile quel suono e la corona dovrebbe riuscire ad emetterlo. Io provo.”

Poco dopo gli uccelli parvero cadere preda della follia, si agitarono, alcuni riuscirono a fuggire lontano, ma la maggior parte cadde a terra, morta.

I cinque uomini si rimisero in ordine, cercarono di capire se i cavalli stessero bene e poi si rimisero in cammino. Passarono pochi minuti e improvvisamente si aprì uno squarcio nella nebbia, come un varco, che rivelava un sentiero in un prato fiorito che conduceva a un solido castello poco distante.

Artù sorrise e disse: “Ecco, Morgana si è accorta di noi e ci mostra il passaggio, andiamo.”

Attraversarono quel varco che subito si richiuse alle loro spalle. Non vi era più nebbia, ma un’atmosfera primaverile in un ambiente che aveva del selvatico e dell’addomesticato al medesimo tempo, come se qualcuno avesse voluto ricreare un luogo silvestre.

Salirono a cavallo e galopparono fino al castello. Vennero ben accolti da servitori, non tutti umani, che li aiutarono a scendere da cavallo e procedettero alle solite procedure quando giungevano ospiti di riguardo. Estor, allora, fu rapido: prese un biglietto che aveva preparato nei giorni precedenti, senza farsi notare dai suoi compagni di viaggio, lo mise in mano a uno dei servi, ordinandogli di consegnarlo immediatamente a Morgana.

Il messaggio era semplice: avvertiva la Fata che Artù era convinto di trovare lì Lancillotto come ospite, dunque le conveniva avvalorare tale teoria per evitare che il Re scoprisse che cosa avesse davvero fatto.

I cinque uomini vennero fatti accomodare in un salone dove poterono sedersi, rifocillarsi ed essere medicati alle ferite che avevano subito dagli uccelli Stinfalidi.

Presto li raggiunse Morgana: era bellissima, alta e magra, di carnagione lattea ma luminosa, occhi di smeraldo e lunghissimi capelli lisci color rame. Andò subito ad abbracciare il fratello e i nipoti e  si profuse in mille saluti. Rivolse poi un saluto anche ad Estor e, infine, notando la presenza di Galahad domandò chi fosse.

Artù rispose: “È colui che stavi aspettando, è il figlio del tuo ospite che doveva raggiungervi, noi lo abbiamo incontrato e abbiamo deciso di accompagnarlo. A proposito, dov’è il mio buon Lancillotto? Desidero riabbracciarlo, ormai manca da vari anni.”

Morgana si sorprese nello scoprire che Lancillotto aveva un figlio e subito un’idea le balenò nella testa e illuminò il suo sguardo, però nascose tutto ciò ai suoi ospiti; simulò un sorriso e disse: “Il vostro cavaliere è stato a caccia, è rientrato poco prima del vostro arrivo, ora si sta lavando e cambiando, presto ci raggiungerà.”

La verità era che Morgana, letto il biglietto, dopo essere andata su tutte le furie ed essersi calmata, era andata nella stanza in cui teneva prigioniero Lancillotto e gli rivelò le circostanze che la  costringevano a rendergli la libertà, dicendogli poi di rendersi presentabile e raggiungere il salone il prima possibile.

Così avvenne e Lancillotto si riunì col suo Re, coi suoi amici e con suo figlio.

Artù era molto contento di poter stare in compagnia della sorella che praticamente non aveva più visto da quando era stato costretto ad esiliarla e parlavano con una tale amicizia e intesa che pareva non si fossero mai separati.

Il Re erra così lieto che si fermò in quel castello per una settimana e poi decise di partire, solo perché i suoi cavalieri gli ricordarono che, se non fosse giunto a Camelot per la Pentecoste, la Regina e tutta la corte si sarebbero molto preoccupati.

Durante quel soggiorno, tuttavia, Morgana mise in atto un piano che le era nato nella testa non appena scoperta l’identità di Galahad. Il secondo giorno, la Fata mostrò al fratello e ai suoi compagni il proprio castello con anche i cortili, i campi coltivati e gli allevamenti, tenendo per ultime le scuderie, poiché ben sapeva come i cavalli attirassero grandemente l’attenzione di quegli uomini.

Mentre il Re e i cavalieri ammiravano i destrieri, notarono uno stallone nero non ancora domato, tenuto in un recinto. Ne rimasero tutti affascinati, poiché appariva robusto e adatto sia alle battaglie che a lunghi viaggi. Morgana spiegò che quel corsiero era comparso nelle sue terre qualche mese addietro e che con grande fatica erano riusciti a spingerlo in quel recinto, ma che nessuno era riuscito ancora domarlo e dunque era intenzionata a donarlo a chi ne fosse stato capace.

Artù allora disse: “Mi piace molto quest’animale e son certo che mi servirebbe bene, tuttavia la tradizione impone che a tentare sia prima il più giovane e poi si vada in crescendo, dunque spetta a Galahad di tentare per primo.”

Il giovane non si tirò indietro e Morgana fu soddisfatta poiché gli eventi stavano prendendo la piega  che lei aveva previsto. La Fata aveva mentito a proposito del cavallo, esso infatti era un animale sovrannaturale, nato dal sangue di Medusa, che lei aveva evocato tramite la propria magia; aveva gli zoccoli in acciaio e il suo fiato era incandescente, tanto da poter arrivare anche a sputare fiamme, mentre il suo nitrito atterriva chi lo udisse. Morgana aveva richiamato una tale creatura poiché desiderava che il giovane morisse nel tentativo di domarla, proprio davanti agli occhi di suo padre. Non aveva potuto tenere imprigionato Lancillotto, ma non aveva rinunciato alla possibilità di farlo soffrire.

Le cose, tuttavia, presero una differente piega da quella desiderata dalla Fata.

Galahad prese un paio di briglie di quelle offerte da Morgana ed entrò nel recinto. Si pose davanti al cavallo che, dopo averlo guardato per qualche istante, si precipitò in carica contro di lui, nitrendo tremendamente, come urla infernali. Il giovane si scostò in tempo per evitarlo, ma dopo poco lo stallone lo stava puntando nuovamente. Galahad fu rapido e agilissimo: mentre la bestia gli passava accanto, appoggiò le proprie mani sul suo dorso e si diede la spinta per balzare in groppa; fu l’affare di pochi secondi e tutti rimasero stupiti. Era riuscito, tuttavia, solo a salire sul destriero, domarlo sarebbe stato ben più complicato.

Tenendosi stretto soltanto con la forza delle proprie gambe, il giovane aveva le mani impegnate nel tentativo di mettere le briglie; il cavallo si ribellava fieramente a tale tentativo, agitando il collo e, ogni tanto, soffiando col suo fiato incandescente contro le mani del giovane, che ignorò il dolore e, dopo un paio di tentativi falliti, riuscì a infilare le briglie.

Ora teneva saldamente le briglia e cercava di calmare il cavallo che si agitava furiosamente e cercava di disarcionarlo in ogni modo: si scuoteva vigorosamente, galoppava a zig-zag e si impennava.

Galahad resisteva, senza spaventarsi, ma d’improvviso le briglia di cuoio si spezzarono e lui, perso il suo sostegno, cadde a terra. Il corsiero si precipitò nuovamente contro di lui, sollevò le zampe anteriori e cercò di schiacciarlo sotto i suoi zoccoli d’acciaio. Il giovane si rotolò da una parte e dall’altra per evitare di essere pestato. Vedeva le zampe imperversare sopra di lui, mentre tutt’attorno la polvere si alzava, disturbando la vista e irritando il respiro. Non riusciva ad allontanarsi il tanto necessario per rimettersi in piedi. Raccolta grinta ed energia, Galahad alzò le braccia e afferrò gli zoccoli e si oppose alla loro spinta. Rimasero in quella posizione per lunghi momenti: sopra lo stallone che cercava di abbattere le sue zampe, sotto il giovane che resisteva per respingerlo; due forze contrapposte che lottavano in un’immobile tensione per sopraffarsi.

Il cavallo nitrì per incutere timore nell’uomo, ma non ebbe successo; allora soffiò fuoco dalle sue narici. Galahad prima voltò il capo per ripararsi in parte e poi si sforzò di accostare le mani e tenerle in corrispondenza del viso, in modo che le zampe stesse dall’animale lo riparassero dalle sue fiamme.

Ad un tratto un tremore scosse i due avversari. Le braccia del giovane si piegarono per un istante, per poi raddrizzarsi di nuovo dando una vigorosa spinta all’equino che venne sbalzato prima verso l’alto e poi di lato e cadde per terra, ma subito si rialzò, furioso. Il tempo era però stato sufficiente affinché Galahad si rimettesse in piedi.

Uomo e cavallo si diedero ancora battaglia. Il giovane replicò la stessa agile mossa con cui era salito in groppa la prima volta ed ebbe di nuovo successo, ora però non aveva briglie che lo potessero aiutare. Serrò le gambe in modo che bastassero a tenerlo in equilibrio, poi passò un braccio attorno al collo dell’animale e serrò la presa, mentre con l’altra mano gli afferrò la criniera.

Lo stallone era ancora imbizzarrito, ma le salde prese di Galahad si facevano sentire e iniziavano a sortire qualche effetto. Dapprima il giovane strattonava la criniera e bloccava il collo; la furia del destriero andò pian, piano scemando e l’uomo gradualmente abbandonò le maniere brusche e lasciò andare il collo e con la mano prese ad accarezzare la criniera e il dorso.

Il cavallo era diventato docile e obbediva ai comandi di Galahad. Il ragazzo, soddisfatto, fece un giro del recinto al passo, poi al trotto e infine al galoppo, per poi tornare placido. L’uomo smontò e carezzò affettuosamente il muso del corsiero che lo ricambio con un nitrito amichevole.

Gli spettatori erano rimasti sbalorditi da tale impresa e non poterono che ammirare la bravura del giovane e lo applaudirono abbondantemente.

Galahad condusse il cavallo davanti ad Artù e gli disse: “Sire, vi faccio dono di questo cavallo.”

Il Re sorrise e rispose: “E io lo rendo a te, valoroso amico, hai ben dimostrato che siete degni l’uno dell’altro.”

“Vi ringrazio infinitamente, mio signore.”

Lancillotto gli disse: “Dagli un nome, figliolo, questo cavallo ti sarà ottimo compagno.”

Il giovane ci pensò un poco, poi disse: “Penso che un nome adatto sia Brannon.”

Galvano commentò: “Se ricordo bene, è il nome di un demone, secondo la tradizione normanna … direi che calza a pennello.”

Furono tutti contenti e orgogliosi della buona riuscita del ragazzo. Solamente Morgana era scontenta per il fallimento del proprio piano; stava già pensando a un qualche nuovo tranello, ma poi le venne un’idea differente: non avrebbe più cercato di uccidere Galahad, avrebbe lasciato che raggiungesse Camelot e che fosse presentato a tutta la corte di modo che Ginevra scoprisse che Lancillotto non le era stato fedele. Era certa che la cieca superbia e gelosia della Regina si sarebbero risvegliate tremendamente e sarebbero state sufficienti per far soffrire Ginevra; in fondo, la Fata aveva giurato odio alla moglie del fratello, mentre considerava Lancillotto solo come un ostacolo per i propri piani o un mezzo per ferire la sua nemica.

Il Re e i cavalieri conclusero il loro soggiorno presso Morgana e si rimisero in viaggio alla volta di Camelot. Erano ancora distanti da Logres e dunque il cammino era piuttosto lungo e attraversava anche territori ostili.

Dopo alcuni giorni trascorsi senza trovare ospitalità da alcuna parte, poiché erano passati solo per zone rurali, giunsero nei pressi di un castello austero. I viaggiatori decisero di chiedere di trascorrere la notte lì e dunque si avvicinarono al portone serrato, cercando qualcuno a cui rivolgersi.

Dalla torretta che sovrastava la porta, una guardia si sporse e li avvertì: “Mal venuti, signori, al Castello della Pessima Avventura.”

Galvano ribatté, offeso: “Villano, perché accogli in tal maniera dei viaggiatori?”

“Perché? Lo capirete bene se farete un altro passo ed entrerete in questa fortezza. Parlo per il vostro bene: se entrerete qui, troverete solo ingiurie ed oltraggi.”

Mordred replicò: “State parlando a Re Artù! Apriteci e smettetela con questa sceneggiate.”

“Al mio Signore non spaventa il nome del vostro. Entrare qui non è un problema, è uscirne il difficile. Se insistete, aprirò il portone, ma siate consapevoli che non lo varcherete una seconda volta.”

I cavalieri non si lasciarono intimidire ed entrarono ugualmente. Non trovarono nessuno ad accoglierli. Lasciarono i cavalli nel cortile e si incamminarono per ispezionare il palazzo e cercare qualcuno. Entrati nell’edificio, trovarono trecento donne, vestite poveramente, intente a tessere in un grande salone. Meravigliati di ciò, si accostarono ad una di loro e domandarono chi fossero, per chi lavorassero e dove potessero trovare il signore del maniero.

La donna tristemente rispose: “Siete stati stolti ad entrare in questo castello e presto incontrerete il nostro malvagio padrone e il suo tremendo fratello. Sono figli del diavolo! Non dico tanto per dire, lo sono realmente: loro madre era una strega e loro padre un demone. Essi hanno la forza di cento uomini e sono eccellenti guerrieri, ma non possono uscire da questo castello, dunque ogni volta che arrivano degli stranieri li sfidano a duello e, dopo averli vinti e uccisi, li divorano. Solo il nostro precedente re è riuscito sopravvivere, ma a caro prezzo: egli ottenne di avere salva la vita, ma a patto che ogni anno inviasse qui trenta fanciulle come pagamento di un tributo. Quelle che vedete in questa stanza sono le donne mandate qui nell’arco di dieci anni. Siamo costrette a lavorare tutto il giorno e il nostro padrone vende le stoffe da noi prodotte e si arricchisce, mentre noi restiamo in povertà e con pochissimo cibo.”

“Non abbiate timore” la rassicurò il sovrano “Sono Artù Pendragon e i miei compagni sono alcuni dei miei più valenti cavalieri, vi do la mia parola d’onore che faremo qualsiasi cosa in nostro potere per porre fine alla vostra prigionia.”

“Ah, Dio vi benedica per la vostra buona volontà e vi protegga, anche se temo che nemmeno voi ne uscirete vivi.”

Artù e i suoi proseguirono l’esplorazione del castello, salirono uno scalone e raggiunsero una sorta di sala del trono dove trovarono due uomini alti oltre due metri, muscolosi, con pelle spessa e dura color grigiastra, occhi rossi da felino, denti come zanne. Erano i fratelli demoniaci.

“Oh, bene, abbiamo visitatori!” esclamò uno dei due, sogghignando “Erano alcuni mesi che non ricevevamo ospiti … iniziavo giusto ad avere un certo languore.”

“Suvvia, fratello” lo richiamò l’altro “Dove sono finite le buone maniere? Dobbiamo almeno presentarci ai nostri ospiti, spiegare loro le nostre tradizioni.”

“Sappiamo già quanto occorre sapere.” annunciò Artù, solennemente “Siamo qui per porre fine alle vostre angherie.”

“Oh, che carino!” commentò uno dei due mezzidemoni “Anche lui ripete la solita frase fatta. Quante volta l’abbiamo sentita?” e scoppiò in una risata.

“Preferiremmo saltare le formalità e giungere subito al combattimento.” dichiarò Artù.

“D’accordo, come volete.”

I due fratelli si alzarono in piedi e si prepararono al duello, impugnando le loro armi: due bastoni biforcuti di corniolo.

Lancillotto si fece avanti e domandò: “Sire, permettete che sia io a battermi con costoro. È da molti anni che non vi rendo un servigio.”

“Te lo accordo, mio buon amico. Dal momento che i campioni da affrontare sono due, vorrei fosse tuo figlio ad affiancarti in questa prova, poiché ancora non l’ho visto battersi contro un nemico reale.”

Lancillotto e Galahad si strinsero l’elmo e la corazza, presero scudo e spada e si prepararono ad affrontare i due mezzidemoni.

Il duello cominciò. I signori del maniero assestavano colpi e mazzate dai quali elmo e scudo non era riparo: sotto quelle percosse le protezioni si ammaccavano e spaccavano e il ferro e il bronzo fondevano come ghiaccio.

Padre e figlio tuttavia non erano da meno e si battevano con grande abilità; presto però capirono che non era saggio affrontare ognuno il proprio avversario, ignorando l’altro duello, dunque si strinsero fianco a fianco e utilizzarono una tattica che richiedeva grande sincronia e armonia tra di loro, infatti cominciarono ad attaccare e a difendersi come fossero stati un’unica persona. Attenti l’uno all’altro e agendo come fossero una sola mente, riuscirono più facilmente a fare fronte ai possenti nemici, ad evitare i loro attacchi, difendersi e controferire.

Se i demoni si affidavano soprattutto alla potenza dei loro colpi, i cavalieri puntavano soprattutto sulla rapidità: le loro lame vorticavano da ogni lato, in alto e in basso e quando riuscivano a colpire una zona scoperta, anziché cercare di andare più in profondità (che avrebbe richiesto più forza e tempo), si limitavano a scorrere rapidamente la lama per allargare la ferita.

Per oltre un’ora combatterono senza che nessuno riuscisse a prevalere sugli altri, ma alla fine sia Galahad che Lancillotto ebbero la meglio, concentrandosi sui colli dei loro avversari che erano la parte più vulnerabile. Il padre mozzò il capo del suo nemico, mentre il figlio piantò la propria spada nella gola dell’altro, trapassandola da parte a parte.

I due tiranni del castello furono così sconfitti Artù decise di donare la fortezza alle donne che erano state lì prigioniere per tanto tempo.

Dopo aver trascorso la notte lì per riposarsi e aver fatto provviste, il Re e i suoi cavalieri ripresero il loro viaggio.

   
 
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