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Autore: DirceMichelaRivetti    03/01/2016    1 recensioni
Storia che vuole esplorare il passato di Jenkins, dalla sua gioventù fino al momento in cui la magia venne tolta dal mondo; i suoi rapporti con la Biblioteca e la sua relazione col padre.
Mi sono ispirata in parte al ciclo bretone, in parte a tutte le frasi (spesso lasciate in sospeso) pronunciate da Jenkins circa il proprio passato.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Dulaque, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Artù e i suoi compagni giunsero finalmente a Camelot senza ulteriori ostacoli degni di nota.

Siccome il castello era molto vasto e dato che spesso i cavalieri vi soggiornavano anche per mesi, ognuno di loro aveva non semplicemente una camere in cui alloggiare, ma un vero e proprio appartamentino di tre o quattro stanze.

Stanchi del lungo viaggio, tutti quanti si ritirarono dunque nei propri alloggi. Era sera e quindi si fecero portare la cena in stanza e dormirono quasi subito.

Galahad si addormentò pensando a come la sua vita stesse cambiando, in realtà non era ancora successo granché di diverso dal solito, eppure sentiva che aver conosciuto Artù, che subito lo aveva trattato d’amico, ed essere arrivato a Camelot erano degli eventi fondamentali, che lo avrebbero trasformato, che lo avrebbero messo alla prova per dimostrare se era davvero un eroe, un cavaliere come aveva sempre ambito, oppure se non ne era degno. Per la prima volta si sentiva insicuro: si era sempre considerato un eccellente combattente e si era sempre impegnato per scrollarsi di dosso vizi ed egoismi, per fortificarsi nella virtù, eppure ora si domandava se era davvero l’uomo che voleva essere, oppure se tutto ciò fosse un’illusione e un’apparenza. Sentiva che fino a quel momento aveva comunque agito in un ambiente protetto, dove non aveva mai realmente rischiato e dove non era mai stata realmente testata la sua morale.

Le imprese che aveva affrontato da quando aveva messo piede in quelle terre erano state molto più ardue di tutto ciò che avesse fronteggiato in Benoic, ma che non erano gesta eclatanti, bensì comuni per un cavaliere; altre ben più complesse lo avrebbero atteso in futuro, ne sarebbe stato all’altezza?

Galahad si addormentò, in parte turbato da tali dubbi, in parte emozionato dalla speranza e dalla voglia di mettersi alla prova. Poco prima di scivolare nel sonno, gli parve di udire un canto lontano, ma credette fosse semplice frutto della sua mente stanca.

La notte successiva ebbe la stessa sensazione, ma non se ne curò; la terza sera, tuttavia, era ancora ben sveglio quando sentì una voce femminile intonare una canzone chissà dove. Incuriosito, il giovane decise di scoprire di cosa si trattasse. Probabilmente era semplicemente una suora o una sacerdotessa che pronunciava le preghiere usuali, tuttavia voleva accertarsene.

Uscì dalla stanza e camminò nel corridoio, cercando di capire da dove provenisse il canto. Impiegò diversi minuti prima di rendersi conto che la voce non proveniva da una delle stanze del castello, bensì da fuori. Le porte di Camelot erano chiuse di notte, dunque Galahad si procurò una corda, l’assicurò saldamente ad un merlo e poi si calò fuori dalle mura. Toccato il suolo, si diresse verso il piccolo fiume che scorreva lì vicino e che portava acqua alla città; la Luna era piena e quindi il giovane riusciva a vedere piuttosto bene, senza bisogno di torce. Guidato dal canto sempre più nitido, arrivò infine nel punto in cui il fiumiciattolo si trasformava in un laghetto; lì vide una figura umana femminile con lunghi capelli, era seduta di spalle e aveva la veste tirata su in modo tale da lasciar pensare che avesse i piedi e le gambe fino alle ginocchia immerse nell’acqua. Era lei che cantava.

Galahad, incerto, avanzò di qualche passo e, dopo qualche minuto in cui non accadde nulla, mormorò: “Scusate …”

La figura di spalle drizzò la schiena, come spaventata, poi si spinse in avanti e si gettò nel laghetto, scomparendo sott’acqua.

Il giovane, sorpreso, si accostò alla riva e guardo la superficie dello specchio d’acqua che era assolutamente liscia e non mostrava segno di essersi increspata per l’immersione.

Galahad era stato spesso messo in guardia dalla nonna e dal padre circa il fatto che spesso le creature fatate fossero pericolose per gli umani anche quando volevano far loro del bene, poiché la loro differente percezione della realtà le portava a conclusioni differenti da quelle del senso comune umano; il giovane, però, era rimasto incuriosito e, pur con le dovute cautele e mantenendosi vigile, volle saperne di più e si azzardò a parlare: “Scusatemi. Non volevo spaventarvi, mi dispiace. Non ho cattive intenzioni, ero solo incuriosito. Guardate, non ho armi con me. Sì, so che ci sono persone in grado di aggredire anche senza armi, ma io non sono di quelle. Vi do la mia parola d’onore che ciò che mi ha condotto qui è stato unicamente il vostro canto.”

La superficie si increspò leggermente, si mosse in cerchi concentrici e poi una testa emerse. Era una fanciulla di quindici o sedici anni, il viso tondo era fresco come la primavera, gli occhi erano grandi e brillavano del riflesso della luna, mentre i capelli erano mossi e, nonostante l’ombra, si poteva essere certi fossero corvini.

L’acqua arrivava fino alle spalle della giovane. Galahad si stupì di non vedere l’abito ch’ella indossava poco prima, ma presto si rese conto che in quel momento solamente la testa e il collo della ragazza avevano la forma di un corpo umano, mentre il resto era diventata acqua.

La fanciulla guardò con stupore l’uomo e gli chiese: “Il mio canto, avete detto? Dove eravate per udirlo?”

“Nella mia stanza a Camelot.”

“Mentite, non è possibile!”

Galahad si voltò e si rese conto che la fortezza era ad oltre un chilometro di distanza, confuso disse: “Ora pare assurdo anche a me, ma vi giuro che è la verità. Da quando sono giunto a Camelot, tre sere fa, ogni notte ho udito il vostro canto.”

La ragazza sbatté alcune volte rapidamente le palpebre per esprimere il proprio interesse, poi emerse completamente dalle acque e una tonaca lunga e bianca la rivestì. Si avvicinò al giovane con circospezione, ma senza timore, anzi anche lei ricambiava la curiosità. Lo osservò dapprima da capo a piedi, poi il suo sguardo si fissò sugli occhi di lui e lo scrutò come se stesse leggendo qualcosa.

Galahad, un poco perplesso, domandò: “Va tutto bene?”

“Sì …” rispose lei prima con tono sospeso, poi sorrise e ripeté: “Sì. Il mio nome è Melissa. Qual è il vostro?”

Galahad. Sbaglio o il vostro accento indica che non siete originaria di queste zone?”

La fanciulla rise e commentò: “Vi stupisce il mio accento e non che sia uscita dall’acqua completamente asciutta?”

“Beh, ho pensato voi foste una Naiade o un’altra tipologia di ninfa delle acque e dunque mi stupisce che non siate presso il vostro corso d’acqua.”

Il sorriso di Melissa si allargò ancor di più, come contenta di trovarsi davanti qualcuno competente in materia: anche se in quei tempi le creature fatate popolavano la Terra molto più di adesso, la maggior parte delle persone non si curava di conoscerle e si limitava ai luoghi comuni e al sentito dire.

La ragazza dunque disse: “Mia madre è una Pegea, mio padre un umano. Ho vissuto con lei alla sua fonte, lontano da qui, fino all’anno scorso, quando mio padre ha deciso di portarmi qui. Non avevo mai vissuto in una città e spesso sento la nostalgia dell’acqua, per questo la notte vengo qui.”

“Avete i vantaggi di una ninfa e la mobilità degli umani, dunque?”

“Non tutti i vantaggi. Posso diventare acqua pura solo per breve tempo e neppure ho la longevità delle Pegee, infatti cresco e invecchierò secondo i ritmi umani.”

“Quindi siete davvero giovane come apparite?”

“Sì. Ho sedici anni, quindi non sono neppure troppo giovane, anzi a giudizio di qualcuno sono anche vecchia, almeno per prendere marito. Non saprei, ero abituata alla percezione del tempo che hanno le Pegee, devo ancora entrare per bene nei ritmi umani.”

“Non avete paura a venire qui, da sola, di notte? No, beh, in effetti potete sempre rifugiarvi in acqua come avete fatto poco fa.”

“Oppure gli lancerei un incantesimo.”

“Questa mi è nuova.” commentò, sorpreso, il giovane “Mi risulta che le ninfe possano solamente manipolare l’acqua e che abbiano qualche abilità curativa.”

“Nulla ci vieta, però, di apprendere la magia. Ammetto che non è una scelta comune, io l’ho fatto soprattutto perché le mie capacità naturali sono più limitate di quelle di una normale Pegea e per il fatto che ho la possibilità di avere eccellenti insegnanti.”

“In effetti, da questa parte del mare ci sono alcuni dei più famosi praticanti di magia dei nostri tempi. Anche sul continente, però, si trova qualcuno degno di loro, per esempio in Benoic.”

“Ho capito, vi riferite alla Dama del Lago e alle sue discepole, giusto?”

“Esatto. Le conoscete?”

“Solo di fama e, comunque, i miei maestri hanno avuto dei dissapori con lei, in passato.”

“Voi è da molto che avete iniziato questo apprendistato?”

“Qualche anno; si è trattato soprattutto di preparazione spirituale e di contatto con le energie interiori ed esterne … complicato da spiegare in breve, soprattutto a quest’ora. Più che incantesimi ho appreso regole generali.”

“Potere, focus ed effetto?”

“Beh, sì, anche, ma quella è ritualistica che chiunque può applicare. Io pensavo più che altro ad energia, immaginazione e volontà, oppure la triplice luce dell’anima neschamah, ruach, nephesch.”

“Questa è cabala.”

“La cabala è soltanto uno dei molti linguaggi con cui si cerca di spiegare e conoscere la magia, ma essa non può essere carpita con la mente, dev’essere percepita e vissuta con lo spirito e nello spirito.”

“Mi hanno sempre parlato della magia in maniera piuttosto razionale, con un approccio quasi scientifico, oppure come una fonte di potere a cui attingere.”

“Sì, so che ci sono molti che la percepiscono in questa maniera, come una disciplina tra le tante.” il tono della giovane si fece sognante, guardava l’orizzonte e sembrava cercare le parole per esprimersi “Per me la magia è una filosofia, un modo di essere, un legame con l’altrove che ti cambia.”

Galahad trovò quell’affermazione simile a ciò che gli aveva accennato Merlino, qualche volta in passato, talmente tanto tempo addietro che se ne era dimenticato.

“Mi considererete gretto se vi domando che cosa sapete esattamente fare con la magia?”

Melissa rise divertita e rispose: “Gretto voi? Non lo si può certo pensare. Il vostro animo è uno dei più limpidi che abbia mai visto.”

“Che cosa ne sapete, voi, del mio animo? Mi avete appena conosciuto.”

“Tutti emaniamo energia e in essa c’è l’impronta di ciò che siamo e che proviamo, sempre in mutamente: ogni nostra azione, ogni pensiero e ogni emozione la altera in un qualche modo. Percepire tale alone permette di farsi un’idea di chi abbiamo davanti, è come uno specchio dell’anima, mostra la vera natura, deformata o sublimata in base al nostro essere … è difficile da spiegare. Ci sono maghi in grado di scoprire l’intero passato di una persona e dedurne il futuro, semplicemente percependo questa impronta energetica.”

“Il futuro? Dunque sarebbe già stabilito?”

“No, ma si può prevedere la piega che prenderanno gli eventi in base alle premesse e predisposizioni attuali; ovviamente si può intervenire per cambiarle.”

“Avete detto che il mio animo è limpido, che cosa intendevate? Che cosa significa?”

“Io sto ancora muovendo i primi passi in questo ambito, posso percepire la vostra aura ma non visualizzarla nitidamente: devo ancora affinare i miei sensi. Posso dirvi, però, che vi sento libero ed elevato, dimostrate una sorta di distacco e disinteresse da ciò che normalmente avvinghia gli uomini. Sento anche paura e insicurezza, per cosa non so dirlo. Infine credo che, al momento, i vostri nemici, ciò che potrebbe macchiare la vostra anima, siano l’orgoglio e la superbia.”

Galahad rimase colpito da quelle parole: erano piuttosto calzanti, per lo meno per l’ultima parte e per ciò che lo turbava. Rimase in silenzio, non sapeva cosa dire; da una parte l’educazione gli suggeriva di essersi trattenuto fin troppo, dall’altra sentiva la voglia di restare lì: in fondo non stava facendo nulla di male e non vi era nessuno nei paraggi che potesse fraintendere e malignare. Eppure non riusciva a trovare un valido argomento di conversazione che gli consentisse di trattenersi ancora un poco.

Alla fine cambiò argomento di punto in bianco e chiese: “Che cosa stavate cantando, quando vi ho disturbata? Mi è parso fosse latino, ma non ho distinto bene le parole.”

“Era il De Raptu Prosepinae di Claudiano.”

Galahad si meravigliò e commentò: “Un autore alessandrino, se non mi inganno, e il suo testo è piuttosto tetro, quasi un’esaltazione degli Inferi.”

“La discesa negli Inferi è necessaria.”

“Mi piacerebbe ascoltarvi, il latino lo capisco benissimo. È possibile?”

La ragazza si sentì piacevolmente sorpresa e rispose di sì con un cenno della testa e poi cominciò: “Inferni raptoris equos, afflataque curru sidera Taenario, caligantesque profundae Junionis thalamos, audaci prodere cantu mens congesta iubet. Gressus removete, profani! Iam furor humanos de nostro pectore sensus expulit; et totum spirant praecrodia Phoebum.

La ragazza recitò a memoria l’intero poema che era composto da circa un migliaio di versi, ma a quei tempi non era inusuale sapere mnemoticamente molti lunghi testi.

Dopo aver ascoltato tutto quanto, Galahad iniziò a sentirsi assonnato e decise di tornare al castello; si offrì di accompagnare la ragazza alla sua abitazione, ma lei  rifiutò, dicendo che aveva desiderio di restare ancora un poco presso il fiume.

Il giovane raggiunse le mura, si riarrampicò su di esse con la corda che aveva lasciato lì e rientrò nella propria stanza e presto si addormentò. Nelle sere successive non sentì più il canto.

 

A Camelot i giorni trascorrevano piuttosto rapidamente nei preparativi per la grande festa di Pentecoste. A corte si stavano radunando, giorno dopo giorno, cavalieri, nobili, sacerdoti e personalità di spicco del regno di Logres e anche dei confinanti.

Artù accoglieva tutti quanti con grande riguardo e amicizia e si assicurava che nessuno dei propri ospiti avesse motivo di essere scontento. Pur prestando attenzione a tutti quanti, il Re si circondava soprattutto coi suoi nipoti e gli altri cavalieri della Tavola Rotonda, in più anche Galahad, che aveva preso molto in simpatia durante il loro viaggio. Lancillotto, invece, spesso scompariva per intere mattine o pomeriggi, ma nessuno sembrava farci caso.

Dopo una settimana da quando Artù era tornato a Camelot, giunse colà Merlino.

Galahad non lo seppe subito, poiché quel giorno era andato a caccia, desiderando donare al re della selvaggina. Ne fu informato quando rientrò a corte, portando un cervo e un cinghiale che aveva inseguito e ucciso da solo, senza neppure l’aiuto dei segugi.

Il giovane fu felice nello scoprire ciò: erano oltre dieci anni che non vedeva il mago e aveva gran voglia di rivederlo e conversare con lui. Chiese a un servitore di annunciare a Merlino che desiderava incontrarlo, ma gli venne risposto che il mago, al momento, era impegnato in un colloquio e dunque avrebbe dovuto attendere. Pazientemente, il giovane si sedette davanti la porta della torre in cui alloggiava Merlino ed aspettò.

Passata un’ora, l’uscio si aprì e lo varcò Melissa. Galahad rimase sorpreso di trovarla lì, ma subito ricordò le buone maniere, salutò educatamente e poi aggiunse: “Non mi aspettavo di incontrarvi qui a corte, non vi ho mai vista nei giorni scorsi.”

“Non trascorro qui molto tempo, anche se dovrei. Preferisco gironzolare per il borgo o fuori dalle mura. Comunque io ho intravisto voi un paio di volte, ma eravate talmente assorto in non so quali conversazioni col Re e i suoi cavalieri che non mi stupisce non mi abbiate notata.”

“Sappiate che me ne dispiaccio.” tacque qualche momento “Quindi è Merlino il vostro maestro di magia? Non c’è che dire, siete capitata dal migliore.”

Da dentro la torre si udì la voce del mago chiamare: “Galahad, vieni.”

Il giovane si affrettò: “Devo andare, mi ha fatto piacere rivedervi e sappiate che, quando e se lo desiderate, potete disturbarmi in ogni momento, anche se mi trovo con il Re. Buona serata.”

“Me ne ricorderò, grazie. Temo, però, che non mi tratterò a Camelot a lungo, dopo la Pentecoste me ne andrò.”

“È comunque una settimana di tempo. Come mai ve ne andrete? Vostro padre dovrà allontanarsi e voi lo seguirete?”

“No. Merlino pensa che sia giunto il momento, per me, di fare un po’ di esperienza di vita: viaggiare, scoprire, apprendere direttamente e mettermi un poco alla prova, prima di riprendere lo studio teorico.”

Il giovane stava per replicare qualcos’altro, ma la voce di Merlino lo chiamò nuovamente e, dunque, si congedò.

Galahad entrò nella torre, salì un paio di rampe di scale e si trovò nel salotto di Merlino che era intento a preparare una tisana. Il mago gli dava le spalle, ma non appena lui varcò la soglia, egli gli disse: “Oh, finalmente è arrivato il momento di reincontrarci. Mi fa piacere constatare che non sei affatto cambiato, nonostante l’adolescenza, direi che la parte più difficile l’hai superata.”

“Perdonate, ma non mi sembra affatto di aver affrontato chissà quali difficoltà.”

“Eh, come tutti gli altri pensi che i problemi vengano dall’esterno e non ti rendi conto che gli avversari peggiori sono dentro di te? Da bambino ne eri conscio.”

“Lo sono ancora, ma credo di avere avuto una vita, finora, non dico normale, ma sicuramente felice. Mi pare che il mio animo non sia mai stato realmente messo alla prova. Non sofferenze, non tormenti, non ardue scelte si sono poste sulla mia strada. Seneca insegnava che il saggio viene costantemente afflitto per rafforzare il suo animo e poiché le fatiche e i dolori vengono inflitti per fare grandi gli uomini. Io, tuttavia, non mi sono mai trovato realmente a patire, dunque non conosco la mia grandezza, ammesso e non concesso che l’abbia.”

Merlino si mise a sedere su uno scranno e fece cenno all’altro di fare altrettanto e gli disse: “Amico mio, hai proprio una strana concezione della realtà. Conosco bene tutto il tuo passato. Mentre eri un ragazzino all’Abazia, non hai mai lasciato che le frivolezze, le distrazioni e i facili piaceri avessero attrattiva su di te. È in quel periodo che si formano i vizi e le virtù dei futuri uomini, le loro inclinazioni verso il  male o il bene e tu hai ben definito il tuo schieramento.”

“Ma quelle erano piccole cose, da nulla.”

“Resistere alle piccole tentazioni è il primo passo per resistere alle grandi. Poi sei andato a vivere con tuo padre nel suo regno e non hai permesso che la condizione di figlio di re, il potere e il prestigio con cui ti sei ritrovato, ti offuscassero e ti facessero perdere il senso della misura e del dovere. Nonostante avessi una moltitudine di servi, non ti sei scordato che il re e i principi debbono essere i primi servitori nel regno. Sei stato al fianco di tuo padre nel difendere e prendersi cura di Benoic.”

“Ho fatto il mio dovere, nulla di più.”

Due tazze colme di tisana volteggiarono per l’aria e andarono a porsi una tra le mani del giovane, l’altra in quelle di Merlino che disse: “È molto più di quello che fa la maggior parte degli uomini. Tantissimi sono coloro che rifiutano il proprio dovere a causa di una strana e distorta visione della libertà. Tu, per fortuna, non la consideri come il poter fare tutto ciò che si vuole.”

“No, signore. So bene che la libertà è una delle armi a doppiotaglio più pericolose che esistano. Libertà e responsabilità vanno a braccetto, sono l’opportunità per le persone di migliorare ed evolversi, ma il più delle volte provocano disordine perché la gente è egoista e non riesce a cogliere le responsabilità che ha verso gli altri.”

“Esatto. Comunque ho visto anche ciò che hai fatto da quando hai messo piede da questa parte del mare: non le giudicherai imprese da poco, voglio sperare?”

“Certamente sono stato ciò che di più pericoloso ho affrontato nella mia breve vita, tuttavia mi rendo conto che sono questioni comuni per un cavaliere.”

“Dunque è per questo che hai paura? Hai anelato a ciò per tutta la vita e ora hai timore, lo sento. Che cosa avresti allora intenzione di fare? Rinunciare senza neppure provare, così da poter dare la colpa del fallimento al fatto di non aver tentato e non alle tue capacità?”

“No di certo. Sono giunto fin qui e non mi tirerò certo indietro.”

“Giusto, dunque  è inutile che ti lasci turbare dalla paura. Temi di non essere all’altezza delle aspettative tue, di tuo padre e del re, ma devi ricordarti che il tuo compito è quello di fare del bene e non di compiacere qualcuno. La paura di deludere spesso porta ad agire troppo impulsivamente o a perdere di vista i reali obbiettivi, oppure può indurre a rinchiudersi in una prigione di superbia per paura di vedere i propri limi. Non lasciarti condizionare.”

Galahad non rispose: che cosa mai poteva dire di fronte a quella sacrosanta verità? Riconosceva che Merlino aveva detto esattamente ciò che aveva bisogno di sentirsi dire per rinfrancarlo.

Il mago continuò: “Io sono assolutamente sicuro che tu diventerai molto più di ciò che ora tu speri. Non voglio però rivelarti ciò che vedo. Quando ti sembrerà di non fare abbastanza, quando ti sentirai frustrato dagli eventi e ti parrà di non poter fare la differenza, pensa a Democrito e alla sua teoria degli atomi: ogni corpo complesso è formato da particelle minuscole, apparentemente insignificanti, ma è su di esse che tutto si fonda. Nessuna azione, per quanto piccola, rimane senza eco e non ha effetto.”

Galahad sorrise, annuì e disse: “Grazie, non lo dimenticherò.”

“Dimmi, di cosa mi volevi parlare?”

“Beh, dei dubbi e le perplessità, ma hai già detto tutto. C’è, però, un’altra faccenda: nessuno mi vuol dire chi sia Pelleas. Anche voi ritenete ch’io non lo debba sapere? Lui è stato mio amico, sporadico ma costante, mentre ero in Abazia, poi è scomparso e quando ho provato a capire chi fosse, nessuno ha voluto dirmelo.”

“Porta pazienza, entro un anno, lo saprai: te lo avrà spiegato egli stesso.”

“Davvero?”

“Sì. Pelleas vuole che tu lo trovi e quando lo troverai ti racconterà tutto. Tra qualche giorno, la faccenda ti sarà più chiara. Fidati.”

“Va bene, ho fiducia in voi.”

 

La festa della Pentecoste era sempre più prossima e a corte furono organizzati alcuni banchetti pubblici a cui tutti gli ospiti prendevano parte ed erano sistemati attorno ai tavoli in base al loro rango e il loro prestigio.

Fu durante una di queste occasioni che Galahad scoprì che il padre di Melissa era niente di meno che Galvano, il quale aveva commentato, a proposito della figlia: “È un po’ selvatica e ostinata, ma le voglio un gran bene.” e poi aveva spiegato che lui, a 12 anni, era stato mandato a Roma per imparare a combattere e diventare cavaliere e lì era rimasto fino ai vent’anni, per questo di tanto in tanto tornava in quelle zone per nostalgia della gioventù. Circa diciassette anni prima, si era fermato presso le sorgenti del Clitunno per ristorarsi e lì aveva visto le Pegee, di una delle quali si era innamorato e ne era divenuto l’amante per alcuni mesi e così era poi nata Melissa.

I giorni a corte erano diventati piuttosto frenetici e ricchi di eventi come battute di caccia, competizioni con le armi, l’ascolto di menestrelli, balli, mercati e molto altro ancora.

Galahad si sentiva un poco frastornato: a Benoic erano state organizzate grandi feste, ma nessuna di esse era paragonabile a quella che stava animando Camelot.

Ebbe anche occasione di vedere qualche volta la Regina Ginevra che nei giorni precedenti non si era mostrata spesso e anche adesso era quasi sempre in disparte col suo seguito di damigelle. Galahad ebbe soltanto un paio di occasioni per porle i suoi omaggi, come era doveroso per ogni ospite della corte, ed ebbe l’impressione che la Regina fosse piuttosto fredda e sbrigativa. Si domandò se quello fosse il carattere della donna, oppure se l’avesse offesa in un qualche modo, ma alla fine pensò che fosse tutta quell’atmosfera che poteva aver creato tedio nella Regina o aver distorto la sua percezione.

I festeggiamenti ebbero il culmine nel giorno di Pentecoste, quando era stato organizzato un grande torneo al quale tutti i cavalieri potevano partecipare. Lancillotto e Galvano furono pregati da Artù di non scendere in lizza, altrimenti l’esito del torneo sarebbe stato scontato fin dal principio: se avessero partecipato, sicuramente il vincitore sarebbe stato uno di loro.

Il torneo non consisteva in una serie di prove d’abilità o di singoli duelli ben organizzati, bensì sarebbe stato una simulazione di una battaglia dove due schieramenti si sarebbero affrontati per poi perdere le distinzioni di fazione e lasciare spazio a una mischia in cui tutti erano contro tutti.

Lo scontro durò l’intero pomeriggio e il vincitore fu Galahad, applaudito e acclamato dal pubblico; ciò non generò invidia tra i cavalieri, bensì ammirazione e speranza poiché le nuove generazioni si mostravano all’altezza delle vecchie.

Durante il banchetto in suo onore ricevette complimenti da tutti quanti e il Re lo volle seduto accanto a sé.

Già dal giorno seguente gli ospiti iniziarono a lasciare Camelot e dopo tre sere il castello era tornato alla calma. Fu così che un giorno Artù si rivolse a Galahad: “Buon amico, stai dando prova di essere un ottimo cavaliere e vorrei tanto poterti nominare compagno della Tavola Rotonda, tuttavia non sono io a decidere a chi conferire tale onore, contrariamente a quanto si pensa. A decidere è Pelleas e non gli si può semplicemente fare richiesta. Se vuoi tentare, questo è ciò che devi fare: mettiti in viaggio, affronta le imprese in cui ti imbatterai, mostra il tuo valore e, soprattutto, le tue virtù. In questo modo Pelleas ti noterà e ti permetterà di trovare il suo Castello Meraviglioso; là lo troverai e sarà lui a parlarti della Tavola Rotonda e a decidere se ne sei degno.”

Galahad accolse molto bene quelle parole, sia perché gli riconfermavano la stima del sovrano, sia perché finalmente gli davano un indizio per trovare Pelleas e forse scoprire qualcosa in più su di sé.

Nei giorni successivi il giovane preparò l’equipaggiamento necessario per errare per il regno alla ricerca di avventure; salutò il padre e i cavalieri che ormai gli erano affezionati e partì in groppa al suo fido cavallo Brannon.

 

   
 
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