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Autore: Floralia    07/01/2016    0 recensioni
Grace cammina da sola tra i boschi e le strade del Colorado. In una mano ha una pistola scarica, nell'altra un pennarello indelebile.
Genere: Avventura, Drammatico, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Violenza
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La prima sera trovarono rifugio presso una casetta di legno che sorgeva lungo l’argine destro del lago, appena prima dello sbocco sul grande fiume che serpeggiava all’interno delle montagne.
Tirarono i kayak a riva e si avvicinarono alla struttura con circospezione, ognuno di loro impugnando un’arma e una torcia elettrica.
Non era ancora del tutto buio, ma il cielo si tingeva di blu e verde e le prime stelle brillavano fievolmente appena sopra le montagne.
Grace si ricordò che una volta suo padre indicando il cielo le aveva detto che alcuni di quei puntolini luminosi non erano vere stelle, ma satelliti inviati dall’uomo nello spazio. Alcuni di essi captavano e rinviavano trasmissioni, altri erano vere e proprie basi spaziali che ospitavano astronauti.
Si chiese se ci fossero ancora delle persone lassù. Se fossero terrorizzate dall’assenza di comunicazioni con la terraferma. Se si sentissero sole nell’immenso vuoto siderale.
I quattro giunsero alla costruzione. Russell forzò la serratura della porta con il coltello da caccia. Manu entrò per prima, seguita dagli altri due.
Grace attese all’esterno, accertandosi che non arrivasse nessuno.
Si guardava attorno guardinga, stringendo il coltello in una mano e la torcia elettrica-spenta- nell’altra.
L’aria era satura di umidità e risuonava del fremito dei grilli.
A circa quindici metri di distanza i quattro kayak poggiavano sulla riva erbosa, risplendendo lucidi alla scarsa luce naturale.
Il lago sciaguattava mite per opera del vento, increspandosi in onde regolari.
Forrester e Russell emersero dalla casa reggendo il cadavere di un uomo adulto. Manu emerse qualche secondo dopo, tenendo in braccio alcuni stracci e una pala di metallo.
Grace li seguì al di là della collina e quando intese le loro intenzioni, si diede da fare per aiutarli a scavare una buca nel terreno.
L’uomo era in stato di decomposizione avanzata. Le sue sembianze erano irriconoscibili, la pelle gonfia e tirata. Era diventato un ricettacolo per gli insetti e per altri piccoli animali.
Lo seppellirono con tutti i vestiti poiché non era possibile recuperare nulla.
Ricoprirono la buca di terra e Grace recuperò una pietra larga e piatta che poggiò dove avrebbe dovuto essere la testa. Scrisse alcune parole con il pennarello indelebile e si diresse verso la casa di legno, dove gli altri tre già si affaccendavano a sistemare.
Vi erano due stanze. Una, larga circa quattro metri per sette, fungeva da ingresso, cucina e salotto. Una porta dava su una piccola ma graziosa stanza da letto. Al di fuori, nel giardino, sorgeva un piccolissimo bagno. Tutto era in legno e l’ambiente poteva risultare gradevole se si escludeva la grande macchia di sangue che occupava gran parte della testata del letto e il muro retrostante.
La puzza di cadavere era innegabile e insopportabile. Spalancarono tutte le finestre e accesero un piccolo fuoco nel caminetto. Manu vi gettò sopra alcuni rametti di piante aromatiche che aveva trovato nel giardinetto sul retro.
I due odori combinati sollevarono in Grace un impellente bisogno di vomitare.
“Vado a fare un giro. Cerco di trovare qualcosa da mangiare” sentenziò.
“Non puoi andare in giro a quest’ora. È pericoloso” la incalzò Manu.
Russell annuì. Forrester invece diede una lunga occhiata al soffitto, poi disse: “Vado io con lei. Questa è l’ora adatta per catturare qualche rospo. Magari troviamo delle erbe commestibili.”
Russell sbuffò sotto i baffi. “Meglio avere lo stomaco vuoto che rischiare di imbattersi in cadaveri. O in bande.”
“Capisco cosa vuoi dire. Ma io e Grace faremo attenzione. Niente luci, passo leggero.” Si voltò verso la ragazza in cerca di una conferma.
Grace annuì
I due uscirono dalla casa chiudendo la porta alle loro spalle.
L’aria fresca e pulita era contaminata dall’odore del cadavere che fino a pochi minuti prima aveva occupato il letto e che, probabilmente qualche giorno prima, aveva tentato di ricreare un’opera d’arte moderna sul muro retrostante infilandosi in bocca un revolver e premendo il grilletto.
“Forrester” Grace chiamò l’uomo, che già si incamminava verso la riva del lago “teniamo le luci spente?”
L’uomo annuì una volta sola, e le fece cenno con la mano di seguirlo.
La sua figura massiccia si stagliava scura contro la superficie argentea del lago. L’effetto ricordò a Grace il gioco delle ombre che sua padre eseguiva sui muri della sua stanzetta quando Brandon era appena nato.
Le grandi mani nodose si univano a formare un coniglietto, poi un cane, poi si distendevano in ampie ali d’aquila. Suo padre la guardava di sottecchi per vedere che effetto le faceva, e lei impazziva di gioia nell’ammirare il suo piccolo teatrino privato.
Si incamminarono una dietro l’altro lungo la riva, fino a quando raggiunsero un fitto canneto che si addentrava nel lago, rendendo impossibile determinare dove l’acqua terminasse e dove iniziasse la terra.
Forrester le fece il gesto di ascoltare, portandosi un dito all’orecchio.
Grace capì. I suoi occhi si stavano lentamente abituando al buio, mentre gli altri sensi si acuivano.
Si addentrarono nel canneto, sollevando l’orlo dei pantaloni per non inzupparli.
“Accendi la torcia piccola, fai attenzione se vedi del movimento. Cerchiamo rospi.”
“Come ne riconosco uno?”
Forrester si voltò verso di lei nella semioscurità e Grace immaginò che stesse facendo una faccia sarcastica.
Accese la piccola torcia che ormai era umida del sudore della mano.
Camminarono nella palude, tra le piante acquatiche, fino a quando l’acqua non arrivò a metà polpaccio. Nell’aria aleggiava un forte odore di uova marce e nugoli di moscerini si addensavano sulla superficie bassa, producendo un ritmico ronzio.
Grace udì un singolo penetrante grido.
Si irrigidì, la torcia le cadde dalle mani.
Altri gridi brevi seguirono, mentre la ragazza scivolava nel panico. Cercò di recuperare in fretta la torcia per illuminare la fonte delle urla e per trovare Forrester e nel frattempo il suo corpo aveva inviato gli impulsi per scappare. Inciampò nei propri piedi e cadde nel fango di faccia.
Durante la caduta aveva la bocca aperta in un grido di terrore, così quando atterrò le entrò il fango in bocca e le andò di traverso.
Incapace di respirare, Grace cercò di risollevarsi, solo per ricadere di nuovo a terra. Vomitò la melma e riuscì a mettersi in ginocchio, mentre l’aria risuonava di grida disumane e le mani le tremavano incontrollatamente. Gli occhi bruciavano, ricoperti dal fango.
Due mani la afferrarono per le spalle e la tirarono su. Grace si divincolò, rifilando alla cieca pugni e gomitate. Una andò in segno in una zona morbida dell’aggressore, il quale si lasciò ad espressioni molto colorite con la voce di Forrester.
“Sono i rospi! Sono i maledetti rospi che gracidano!”
Grace si pulì il viso con le mani, afferrò la torcia e si tirò in piedi. Le grida continuavano, così come gli improperi di Forrester.
Accese la luce e la puntò in direzione di questi ultimi. L’uomo teneva entrambe le mani strette intorno al pube e, vedendo la luce, voltò il capo in direzione di Grace. Aveva un’espressione sofferente. “CHE PROBLEMA HAI?”
Grace sputò fango e tentò di scrollarsi di dosso un po’di melma.
Intorno ai due centinaia di rospi gracidavano a volume assordante e il suono mostruoso assomigliava alle grida di esseri umani.
Forrester le si avvicinò, zoppicando per il dolore al basso ventre e ansimando. Prese a ridere.
Grace lo guardò a occhi spalancati e iniziò a ridere a sua volta.
All’inizio le sfuggì dalla gola una risatina nervosa, poi rise talmente di gusto da dover prendere fiato. Tossiva e sputava e rideva e entrambi non riuscivano a smettere.
“Ti prego scusami!” Grace aveva ritrovato il contegno.
“Non ti preoccupare. Devi smettere di essere così nervosa però. Immagina cosa fosse successo se avessi avuto una pistola in mano.”
Grace scosse la testa. “Scusami ancora. Spero di non averti colpito troppo forte.”
“Mi hai messo K.O. per un po’, devo ammetterlo.”
Ripresero a ridere.
Risero nell’oscurità illuminata solo dalla lama di luce ambrata della torcia, circondati dai rospi e dalle piante acquatiche, nella notte senza luna.
Forrester si raddrizzò e prese la torcia dalle mani di Grace. Estrasse anche il coltello dalla fodera agganciata ai pantaloni.
“Adesso cacciamo.”
 
 
I rospi che producevano versi simili alle grida umane avevano corpicini sodi e scivolosi.
Per quattro volte Grace pensò di averne afferrato uno, per poi farselo sfuggire dalle mani.
Sia la ragazza, sia Forrester cercavano di produrre il minor rumore possibile. Si muovevano cauti nella melma e comunicavano tra di loro a voce bassa.
“Questo è un posto sicuro per cacciare. Se ci fossero dei vaganti non sentirebbero il nostro odore per la puzza del canneto, e non sentirebbero le nostre voci perché sono coperte dai versi dei rospi.”
“Sei sicuro che non saranno attirati da questo rumore assordante, invece?”
“Non sono sicuro di nulla. Ma teniamo gli occhi aperti.”
Forrester le mostrò come afferrare gli anfibi in modo che non sfuggissero alla presa. Dopodiché li infilzava nella testa con il coltello da caccia e se li cacciava nelle tasche dei pantaloni.
“Che lavoro facevi prima?” chiese Grace mentre cercava di scrollarsi di dosso del fango dai jeans.
Forrester scrutò per qualche secondo in direzione della casetta prima di rispondere.
I vetri erano scuri, probabilmente coperti da cartone o coperte per non far intendere che ci fosse nessuno all’interno.
“Sono un biologo marino. A febbraio ero in Messico, con una spedizione, studiavamo l’habitat delle balene.”
Grace si grattò il naso, sporcandolo ancora di più. “Wow! Sembra davvero un bel lavoro.”
“Già.”
Un uccello notturno lanciò un richiamo che giunse da lontano, rimbombando tra le sporgenze rocciose.
“Tu invece eri commessa del McDonald. Sembra un lavoro promettente.” Il suo tono era ironico.
“Mi ci pago gli studi.”
“Quanti anni hai?”
Grace sbuffò ridacchiando. “Che giorno è oggi?”
“Il diciannove agosto.”
La ragazza lo guardò meravigliata. “Come accidenti fai a saperlo?”
Forrester alzò il polso per mostrare quello che Grace pensò essere un orologio.
“Allora quanti anni hai?”
“Ancora diciassette. Ne faccio diciotto il venticinque.”
L’uomo si bloccò, scosse la testa e si fece silenzioso.
Grace si mise in ginocchio nel fango, piegando le canne e facendosi strada nel fango per riuscire ad afferrare un enorme rospo che emetteva suoni acuti e isterici.
Con uno scatto cercò di racchiuderlo tra i due palmi, ma riuscì solo a stringergli una zampa all’ultimo secondo, prima che riuscisse a balzare via. Prese il coltello e lo infilzò in dodici punti diversi prima di riuscire a colpirlo in testa. Imprecò tra i denti.
“Mi dispiace. Per te.” sentenziò Forrester ad un tratto.
“Mi dispiace che tu non abbia potuto vivere abbastanza, prima che ti venisse portato tutto via” aggiunse in tono amaro.
Grace non si scompose. Infilò la grossa preda nella tasca della camicia e si incamminò verso l’uomo.
“Sarebbe meglio se tornassimo.”
“Si.”
Si incamminarono seguendo le orme che avevano impresso all’andata.
“Tu quanti anni hai?”
“Trentasei.”
Grace respirò a fondo. “Hai figli?”
“Non più” rispose Forrester semplicemente.
La ragazza attese, immersa nei pensieri, prima di rispondere.
Erano circondati dal buio assoluto, puntellato di stelle frementi.
“Mi dispiace.”
“Grazie.”
Proseguirono in silenzio fino a quando raggiunsero la baita.
Grace si pulì meglio che poté sulla riva del lago, e indossò dei vestiti puliti.
Riuscirono ad accendere un fornello, dato che il gas era fornito da una bombola. I rospi furono puliti e scuoiati, tritati e stufati insieme alle verdure che Manu aveva trovato in dispensa: patate dolci e cipolle.
Il risultato fu una deliziosa cena che consumarono tutti e quattro seduti intorno al tavolino di legno, conversando a bassa voce.
“Perché la gente si uccide così spesso?” chiese Grace ad un tratto “Come l’uomo che viveva in questa casa.”
Manu e Forrester si scambiarono uno sguardo indecifrabile.
Russell inghiottì un boccone e le rispose: “Ci sono tante cose che le persone fanno, Grace. Molti non riescono a superare le difficoltà e prendono la strada più facile.”
“Come può essere più facile uccidersi? Io non ci riuscirei mai.”
Questa volta fu Manu a intervenire: “Per come la vedo io, succede a volte che ci si sente deboli. Magari hai perso la tua famiglia, li hai visti morire. A volte ci sono dei momenti in cui la tristezza supera qualsiasi altro sentimento, e ti senti in trappola.”
Forrester aggiunse: “Se aspettassi, se ci dormissi sopra, magari il mattino dopo penseresti che vale ancora la pena vivere. Ma se la sera prima avevi a disposizione una pistola, probabilmente hai ceduto e ti sei sparato.”
Grace era sempre più confusa. “Non ha nessun senso. Uccidersi è egoista, verso le persone che contano su di te. Cosa può esserci di peggio?”
“Hai visto con i tuoi occhi che esistono cose peggiori della morte” rispose Manu “cose che ti perseguitano per il resto della vita.”
La ragazza annuì. “Capisco quello che dite.”
La conversazione proseguì, ma mentre gli altri parlavano di esperienze passate e orrori vissuti da quando l’epidemia si era diffusa, Grace si perse nei ricordi che le affollavano la mente.
Una stanza piena di persone, uomini, donne e bambini, tutti stesi a terra, con le labbra blu, congelati nell’istante della morte. Lei entrava, correva a scuoterli, urlava per svegliarli, cadeva a terra in preda al pianto. Un bambino era rinchiuso nell’abbraccio della madre, sulle guance fredde si intravedevano ancora le scie delle lacrime.
 Rimasta improvvisamente sola, Grace scappava via da quella stanza di morte e cercava riparo altrove.
La casetta del bird-watching, l’uomo che si era sparato in fronte e aveva lasciato una bottiglia di liquore. Tutte le altre, vuote, testimoniavano i giorni e le ore duranti i quali l’idea finale era stata concepita e decisa.
Le persone nel capanno, che dopo essersi sparate avevano lasciato la bambina bionda a morire di fame. Grace si chiese se fosse stato un gesto d’amore o una dimenticanza. Forse la bambina era stata morsa e non c’era più nulla da fare.
Infine, l’uomo della baita sul lago.
Grace si alzò e si diresse verso la camera da letto, la cui porta era stata chiusa per impedire all’odore di cadavere di appestare il resto della casa.                    
Si accorse con la coda dell’occhio che Forrester la stava osservando.
Abbassò la maniglia ed entrò. Fu subito avvolta dall’oscurità.
La ragazza accese la piccola pila che portava nella tasca dei nuovi jeans da uomo di tre taglie più grandi che si era dovuta stringere in vita con un pezzo di corda.
Illuminò la stanza.
L’odore era nauseante.
Il copriletto e il cuscino presentavano schizzi di sangue rappreso.        
La testata del letto era di un colore indefinibile rosso-marrone, e vi erano mosche e altri insetti sopra.
La parete era imbrattata di residui di sangue e materia cerebrale, sparpagliati secondo i contorni dell’esplosione che aveva terminato la vita di un uomo e si era continuata nelle immediate vicinanze.
Il tutto aveva un’aria vagamente familiare.
Grace rimase a fissare il bizzarro assembramento di resti umani, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
Quando infine riuscì a mettere a fuoco il pensiero che stava cercando, esplose in una breve risatina: le ricordava Convergens, il quadro di Jackson Pollock che aveva visto nel museo d’arte di Denver, in gita con la scuola.
  
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