Correvo, correvo
da troppo tempo, i
polmoni sembravano stessero per esplodere così come il cuore
il cui battito era
al massimo. Non dovevo farmi prendere, la vista si oscurava e poi
tornava
nitida, sentivo la testa pulsare dolorosamente.
Il mio cervello
continuava ad urlare
di fermarmi, di farmi prendere, i pugni sarebbero comunque arrivati, ma
quella
volta era diversa. Il gruppo di bulletti capeggiato da Miles Bullstroke
voleva
vedermi morto, ne ero certo. Misi
male
un piede e ruzzolai a terra cacciando un urlo, i loro passi erano
sempre più
vicini. Mi rialzai e ripresi la corsa, le pareti grigie si stringevano
sempre
più, non avevo la minima idea di dove fossi.
Spalancai gli
occhi quando vidi la
grata davanti a me. No, non era possibile, dovevo scavalcarla, provai
ad
arrampicarmi, ma quello che ottenni fu solo un’altra caduta
questa volta di
schiena che mi procurò un forte dolore al petto. Annaspai in
cerca d’aria che
non trovai e sputai la poca saliva che avevo ancora in bocca a terra.
Mi
avrebbero preso, era finita. Chiusi gli occhi pensando a mamma e a
papà che
erano partiti quella mattina per Santa Monica dove ci saremmo
trasferiti da lì
a qualche settimana e poi li riaprii. Le scarpe sporche di fango di
Miles e la
sua banda erano intorno a me, un sorriso sadico su ognuno dei loro visi
mi fece
accapponare la pelle.
I calci
arrivarono, ma non mi
ribellai, ormai convinto che quella era la mia fine. Il dolore andava
oltre ad
ogni pugno arrivato in quegli anni. Cercarono di togliermi la felpa e
fu da lì
che una spaventosa presa di coscienza mi colpì e ricominciai
a lottare mentre
le loro mani mi toccavano poi un rumore assordante li fece smettere e
io caddi
a terra come un burattino inerme poi il buio.
Aprii gli
occhi di colpo ansimando pesantemente, quasi mi misi a gridare. Ci misi
qualche
secondo per mettere a fuoco il tettuccio grigio della macchina e a
tranquillizzarmi poi sentii come se il mio corpo scivolasse in avanti e
sentii
la frenata improvvisa seguita da voci e suoni metallici. La musica alla
radio
prese a riempire di nuovo le mie orecchie e non solo quello, anche la
voce
squillante di mia madre che ripeteva al suo compagno che quella era la
strada
sbagliata.
Sospirai e
mi tirai a sedere strofinandomi gli occhi con le mani.
-Oh! Andy
caro ti sei svegliato- mugugnai qualcosa di sconnesso e appoggiai la
testa al
finestrino.
Era passato
un mese, trenta giorni di ospedale e puzza di medicinale . Diagnosi:
tre
costole fratturate e una incrinata, trauma cranico e un altro mucchio
di
stronzate che mi ero rifiutato di ascoltare quando mi ero svegliato con
una
benda stretta in fronte in un lettino di ospedale.
A sentire il medico mi aveva trovato un
poliziotto che ispezionava il quartiere, l’uomo aveva anche
detto che ero stato
fortunato. Non era nemmeno partita la denuncia.
La macchina
continuò a viaggiare fino a fermarsi davanti a una villetta
color crema, senza
staccionata , un giardino ampio e due vialetti di ghiaia che portavano
alla
veranda e al garage. Dietro di noi si fermarono due camion della ditta
di
traslochi che aveva scelto mia madre. Infatti la donna era scesa a
dirigere i
poveri operai che dovevano subirsi la sua voce acuta e stridula a
volte. Il mio
patrigno aprì la portiera corrispondente al mio posto e mi
strattonò per farmi
scendere, io presi il mio eastpack a tracolla nero e scesi guardandomi
in giro.
Intorno a me
sfilavano due file di case esattamente identiche, il colore mi faceva
venire la
nausea. Si sentivano li schiamazzi dei bambini nelle piscine di fronte
o nel
retro delle case.
-Caro
perché
non entri in casa a dare un’occhiata?- seguì la
richiesta di mia madre ed
entrai.
Aveva
un’aria spaziosa, c’erano molte finestre fu
l’unica cosa che riuscii a notare
perché Chris, il compagno di mia madre, mi aveva messo due
scatoloni in mano.
-Questa
è un
po’ della tua roba e se non vuoi dormire in macchina
sistemati per sta
sera.- Gentile come
al solito.
Salii le
scale fino al primo piano, ma c’era solo una camera
matrimoniale, un bagno e
un’altra scala. Salii ancora di un piano e trovai la mia
camera.
Una
mansarda, se si poteva chiamare così, visto che aveva il
letto a soppalco che
dava direttamente su un piccolo spioncino le pareti erano in legno
scuro e il
soffitto era spiovente. C’era
un grosso
spioncino proprio sopra di me da cui sarei potuto tranquillamente
uscire sul
tetto. La moquette era anche in quella stanza, non solo nel corridoio
sottostante e nelle camere che avevo visto, tranne la cucina, appoggiai
i due
scatoloni in terra e mi alzai sulle punte per aprire la finestra sul
soffitto.
“Al lavoro”
Una ventina
di scatole vennero portate su dagli addetti al trasloco e io iniziai a
mettere
in ordine. Mi fermai solo quando mia madre annunciò che la
cena era
pronta. Scesi le
due rampe di scale
frettolosamente e andai in soggiorno, lo osservai e mi chiesi come
avevano
fatto mamma e Chris a sistemare quello, la cucina e la camera in un
pomeriggio
dove io non avevo nemmeno finito di appendere le luci a intermittenza
sul
letto. Dopo
mangiato aiutai mia madre a sparecchiare
e poi ritornai a sistemare la camera.
Misi le
lenzuola di Batman e finii di sistemare le lucine poi decisi che per
quel
giorno era abbastanza e mi preparai per dormire. Prima di salire nel
letto
guardai lo specchio, non mi ricordavo l’ultima volta che mi
ero guardato
attentamente. Indossavo solo i boxer quindi il torace fasciato era in
bella
vista così come le braccia ricoperte di lividi, avevo dovuto
tagliare i capelli
che ora arrivavano alle spalle ed erano rasati da un lato. I miei
piercing
erano ancora al loro posto anche se avevo rischiato che quei bastardi
mi strappassero
quello al labbro tirandolo.
Sospirai e
presi una canottiera dall’appendiabiti. Finalmente mi stesi
nel letto
guardai fuori dalla
finestrella, il
cielo era oscurato dalle nuvole e sospettai che l’indomani
sarebbe piovuto
copiosamente infatti chiusi il vetro e dopo qualche minuto sprofondai
tra le
braccia di Morfeo.
La sveglia
partì e chissà come mi era venuto in mente di
mettere gli Slipknot come
tono. Rischiai di cadere dal letto per
spegnere quel dannato cellulare che urlava, finalmente silenzio, mi
rimisi a
letto, ma la calma non durò a lungo perché
arrivò Chris a gridarmi di scendere.
Scesi dal
letto e infilai dei calzoncini da calcio verdi, insieme a una t-shirt
smessa
poi scesi. Mia madre, Amy, rimbalzava freneticamente in cucina tirando
fuori:
padelle, piatti, bicchieri e oggetti vari dagli scatoloni per poi
metterli
sugli scaffali.
-Andy tesoro
mio perché non vai a fare un giretto per il quartiere,
magari incontri qualcuno
della tua età!- disse
fermandosi davanti
a me. Negli ultimi tempi mia madre era smagrita. La colpa era solo mia,
diceva Chris,
se non mi fossi fatto picchiare a sangue mia madre non sarebbe stata
costantemente in pensiero per me. Sorrisi leggermente e uscii sulla
veranda.
-Peccato che
io non voglio averne di amici…-
dissi
appoggiandomi alla ringhiera che dava sul giardino. Il
tempo faceva schifo, pioveva, una di quelle
pioggerelline che ti facevano inzuppare subito. Mi ravviai i capelli
passandoci
una mano in mezzo e mi misi a canticchiare una canzone che neanche
conoscevo,
ma avevo sentito alla radio il giorno prima.
Sentii un
vociferare proveniente dalla casa affianco e poi il rumore di una porta
che
veniva sbattuta, mi girai verso la fonte del rumore e vidi una donna
che camminava
velocemente e prendeva per il polso un ragazzo. Ascoltai la loro
conversazione
che non poteva essere ignorata dati i toni non propriamente nella norma.
-Lasciami!-
disse
il ragazzo dai capelli castani che era alla fine del vialetto.
-Ashley
Purdy torna qui!- il ragazzo si era voltato di scatto.
–Non
torno
in quella casa di merda! Se il tuo principe mi alza ancora le mani tu
non mi
rivedi più!- poi si girò verso di me e
assottigliò lo sguardo io tornai in casa.
Quel ragazzo sembrava avere più o meno la mia
età, un altro che la settimana
successiva mi avrebbe preso di mira, fantastico.
Feci come
aveva chiesto mia madre, dopo pranzo uscii di casa e mi misi a
gironzolare per
l’isolato. C’erano molte case dove si affacciavano
ragazzetti che avrebbero
potuto avere dai dodici anni alla mia età, compreso il
ragazzo che avevo visto
qualche ora prima.
Mi trovai in
un parco, non era grande, ma aveva qualche panchina coperta dagli
alberi e
quindi asciutte. Mi sedetti e osservai le persone che passavano,
sembravano girare
lo sguardo verso di me e poi allontanarsi, non si vede tutti i giorni
un
ragazzo vestito totalmente di nero con la matita sugli occhi.
Passò una mezzora
circa e me ne ritornai a casa. Prima di entrare notai il ragazzo di
prima
seduto sui gradini davanti a casa con la testa
bassa e gli auricolari nelle orecchie, alzai le spalle ed
entrai
ricevendo subito un bacio appiccicoso da mia madre.
-Allora hai
visto qualcuno?- mi
chiese entusiasta.
–No.- risposi secco salendo le
scale.
Mi chiusi in
camera e sospirai, finalmente a casa. Presi le sigarette e
l’accendino da un
cassetto e salii sul letto. Aprii la finestra e uscii con qualche
difficoltà.
Il tetto era marroncino e spazioso, non potevo essere visto dai piani
sottostanti. Presi il telo che avevo appoggiato sul letto e lo stesi,
era
leggermente bagnato visto la pioggia di sta mattina. Mi accesi una
sigaretta
aspirando famelico il sapore di tabacco, piano aspettai che la nicotina
andasse
in circolo saziandomi e distendendo i nervi che sembravano essere tesi
al
massimo.
Stetti sul
letto a fumare finchè non sentii una goccia posarsi sul mio
naso.
-Maledetta
pioggia…Vieni in California, dicevano, ti aiuterà
a risollevarti,
dicevano…Quante stronzate.- borbottai ritornando nella
stanza. Chiusi
frettolosamente la finestra e rimisi le sigarette nel loro nascondiglio
poi
scesi.
Mi feci un
lungo bagno caldo cercando di non urlare quando per sbaglio feci
scivolare il
bagnoschiuma sul torace pieno di lividi, il liquido mi scivolava
addosso come
se non ci fosse, ma sembrava mi volesse bruciare la pelle. Mi sottrassi
alla
morsa calda della vasca da bagno per fasciarmi di nuovo il petto e il
braccio
messo peggio. Tamponai i capelli con un asciugamano e presi
l’antidolorifico
che il medico mi aveva prescritto poi, tornai in camera chiuso nel mio
bozzolo
di coperte. Aprii leggermente lo spioncino lasciando entrare un
po’ di aria
fresca e forse sentii qualche parola di troppo dalla casa affianco.
La donna
diceva di nuovo di non andare, ma i passi veloci che sentii mi fecero
intuire
che quel ragazzo era corso via. Non sarei stato lì a sentire
altro quindi
chiusi la finestra e la tenda che copriva il mio letto. Presi un libro,
ma poco
dopo aver iniziato a sfogliare le pagine mi addormentai.
Ÿ ¡¢¡ Ÿ
Le loro mani sui
miei fianchi, mi
stavano toccando ed io dovevo scappare, ma non riuscivo. Avevo la vista
sfocata
e riuscii solo a distinguere gli occhi color caramello di Miles che mi
urlavano
la sua voglia di farmi del male e urlai.
Mi ero
svegliato di botto, gridando, come un bambino mi strinsi la coperta al
petto. Sentivo le
goccioline di sudore scendermi
dalla fronte, cercai di regolarizzare il respiro facendo lunghi
sospiri. Quando
finalmente mi calmai, guardai la finestra, era già chiaro
fuori e solo in quel
momento mi ricordai che giorno era.
Mugugnai
qualcosa
d’insensato e controllai l’ora: le sette e due
minuti, dovevo solo vestirmi e
cercare di rendermi presentabile. Misi
un paio di skinny jeans neri strappati sulle ginocchia, una t-shirt
stampata
anch’essa nera e la converse. Ero monocromatico. Cercai di
fare meno rumore
possibile per non svegliare Chris che avrebbe sicuramente dormito fino
a tardi.
Entrai in bagno e misi un leggero strato di matita nera sugli occhi poi
presi
l’eastpack e uscii di casa.
L’aria
fredda del mattino mi colpì come uno schiaffo in pieno viso,
mi diressi verso
la fermata del bus e solo quando arrivai sotto la pensilina, notai un
gran
numero di ragazzi che venivano verso di me, strinsi la tracolla della
borsa e
la aprii, cercando frettolosamente gli auricolari.
Non avevo
avuto nessun contatto con dei ragazzi per più di un mese, mi
sembrava
inverosimile tornare a scuola a cercare di confondermi per non essere
lo
sfigato di turno ed essere preso di mira. Trovai le cuffiette, ma mi
scivolarono di mano e caddero a terra. Mentre mi abbassavo a
raccoglierle i
miei occhi incrociarono quelli di un altro ragazzo.
Aveva degli
occhi particolari sembravano caramello, erano famigliari, spalancai gli
occhi e
raccolsi velocemente le cuffie cercando di nuovo il ragazzo con gli
occhi.Non
era Miles, ma aveva i suoi occhi, era totalmente diverso dal bullo. I
capelli
castano scuro gli arrivavano alle spalle, muscoloso, le spalle larghe.
Riconobbi il ragazzo che identificai come Ashley, il mio vicino di
casa. sperai
non si fosse accorto dei miei sguardi.
Quando posai
le mani sul maniglione antipanico che apriva la porta di ingresso della
scuola
centinaia di occhi si posarono su di me, il mio cuore si
fermò, potevo sentirne
i battiti veloci, cercai una scappatoia e la trovai in un cartello che
diceva
“Segreteria” infatti mi incamminai velocemente
verso la stanza indicata dal
pezzo di carta colorato.
Aprii le
porte di una spessa porta di legno chiaro ed entrai in una stanza dove
diverse
signore stavano sedute dietro agli sportelli.
Mi trovai
davanti una donna che masticava lentamente una gomma e dopo poco la sua
voce
stridente mi raggiunse.
-Desidera?- i capelli biondo cenere le
ricadevano sul
viso e i suoi occhi erano coperti da un paio di lenti spesse.
-Salve..sono
Andy Biersack, vorrei il mio orario delle lezioni.-
–
Andy?- mi
guardò alzando il sopracciglio.
–Andrew
Biersack, mi scusi.- Diede invio a un
file dalla tastiera del pc e andò verso la stampante, prese
il foglio tra le
mani nodose e me lo porse.
-Ecco qui,
le lezioni sono cominciate, si sbrighi se non vuole ricevere un
richiamo
disciplinare il primo giorno.- disse e mi sembrò di sentire
parlare Chris. Come
di routine le persone erano sempre gentilissime con me.
Sospirai e
andai a posare i libri nell’armadietto numero 345 come
c’era scritto sul foglio
che guardai un secondo dopo, scoprendo di avere Storia in quel momento.
Presi
il libro e mi diressi verso la classe.
Respirai
profondamente prima di bussare, alla fine la mia mano si
posò sul legno
azzurrognolo della porta e un uomo venne ad aprire.
-Ah
signor…-
disse in un’evidente richiesta di dirgli il mio nome
-Biersack..-
il signore dai capelli grigi fece un mezzo sorriso.
–Beh,
signor Biersack lei è nuovo giusto? si
presenti…forza.-
Presi un
altro respiro, sarei morto prima della fine di quella giornata e notai
che
anche Ashley era in quella classe, seduto di fianco a un ragazzone con
una
felpa da football, ridacchiavano additando una ragazza in fondo alla
classe.
-Io sono Andrew
Biersack, mi sono trasferito da Cincinnati, in Ohio, una settimana
fa…spero di
trovarmi bene qui.-
Alcune
ragazze mi guardarono incuriosite poi il professore mi
indicò un banco di
fianco a una ragazzina dai capelli rosa che stava guardando fuori dalla
finestra, era lei che stavano prendendo in giro prima quei due.
-Ciao..- mi
disse e io mi chiesi se davvero ce l’avesse con me.
–Ciao.-
risposi con un tono freddo, mi scusai
mentalmente con la ragazza per quel tono.
-Io sono
Molly Parkinson – disse passandosi una mano tra i capelli
color confetto
-Andrew,
ma chiamami Andy…- mi sorrise e io
ricambiai il sorrisetto.
-Ti
piacciono gli Slipknot?- annuii –L’ho notato quando
hai staccato le cuffie- le
sorrisi, non parlammo fino alla fine delle due ore in cui Mr.White
spiegò il
medioevo.
Mangiai in
mensa con Molly, parlammo delle nostre band preferite poi le chiesi se
sapeva
qualcosa di Ashley Purdy, lei spalancò gli occhi.
-Sei
fortunato a non conoscerlo, quello è uno di quelli che odia
i tipi come noi. Fa
coppia con Radke e un certo Ferguson, hanno preso a botte un ragazzetto
che non
voleva dare i soldi per la mensa l’anno scorso.- rabbrividii
toccandomi il
polso fasciato. –Non sono sicura fosse così prima,
dicono che si è trasformato in
terza ovvero l’anno scorso. È un playboy, a quanto
so ha dato una ripassata al
sedere di tutta la squadra di cheerleeding.- feci un sorrisetto tirato
e
continuai a mangiare.
Non
durò
molto il resto della mattinata e alla una ero fuori dai cancelli della
scuola.
-Io abito
vicino alla spiaggia.- disse Molly.
– Io
abito
in un quartiere di cui non ho ancora imparato il nome, ci si vede
domani- la
salutai con un sorriso e salii sull’autobus. Notai Ashley che
si faceva largo
tra la folla di ragazzette che gli stavano intorno e saliva a sua
volta, mi
passò di fianco e io cercai di non guardarlo. Arrivammo nel
nostro quartiere,
ma scendemmo solo noi due. Facemmo la strada uno dietro
all’altro, mi sentii in
imbarazzo. Ripensare alla litigata che avevo origliato il giorno prima
mi
metteva a disagio.
-Hai
intenzione di seguirmi ancora?-
Stava
parlando a me? Aveva una voce melodiosa e leggera, non dura e profonda
come
avevo immaginato.
-Abito di
fianco a te..-spiegai affiancandolo.
-Quindi
avete preso voi la vecchia casa degli
Hopinsk…bene, ci si vede.-
Si
girò e
camminò verso il vialetto di casa sua, subito sentii una
voce profonda e
maschile che lo richiamava, ma io m’infilai in casa, pronto
alla serie di
domande da parte di mia madre. Come inizio non era stato
così male, non mi
sarei mai aspettato di trovare un ragazzo con gli occhi della tua
nemesi. Volevo
saperne di più su quell’ Ashley, non mi spaventava
quando Miles che dopotutto
aveva gli occhi iniettati di sangue e una carriera da delinquente
prescritta.
Avevo visto i suoi occhi prima che si girasse, erano spenti, non di
quel colore
che assomiglia al caramello fuso. Mi resi conto di quanti particolari
avevo
notato. Non andava bene così, dovevi dimenticarti
dell’esistenza di Ashley
Purdy prima di rimanere scottato dal suo carattere.