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Autore: StellaDelMattino    10/01/2016    1 recensioni
Ognuno possiede un po' di oscurità in sé. Semplicemente perché è nella nostra natura: ogni persona, anche la più buona, ha nell'anima una macchia scura che contamina ciò che avrebbe potuto essere perfetto.
Madison Huddle è solo una ragazza dal passato turbolento e con uno sguardo ironico sul mondo, quando arriva nella Città, ma da quando incontra Red, tipo eccentrico e misterioso, capisce che non è e non sarà mai normale.
Eppure, il vero problema non è questo, bensì il fatto che nella Città nessuno è normale.
Basti pensare a Gianduiotto, mutante che ama prendere la forma di un macaco e braccio destro di Red, o a Zwinky e Twinky, bariste del "De Vil", o ancora a Maude Maggots, strega della congrega della Mezzaluna, brillante e combattiva.
Per non parlare di Alexander Morales, l'uomo (se si può definire così) forse più potente e spietato, il capo della Famiglia, l'affascinante giovane che Madison non riuscirà mai a capire.
Dal primo capitolo:
"Che ne dici, tesoro" disse una voce sconosciuta attirando la sua attenzione e facendola fermare "se ti do qualche spiegazione sul perché ti sei svegliata in mezzo a una marea di matti?"
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 9

Helpless and lonely

 

Virgil Ash vagabondava per la Città, senza una meta precisa.
Lo faceva da quando era arrivato, senza mai stabilirsi in un posto. Incredibilmente, non era ancora incappato in nessun pericolo. Ciò si spiegava perché mentre vagava per le vie, gli succedeva di provare una strana sensazione, a volte, una specie di mal di testa che però realmente non causava dolore, più che altro un pizzicore, che sembrava dirgli che in quella zona c'era qualche pericolo. Allora, cambiava direzione.
Questo suo “sesto senso” ancora non se lo spiegava, ma sapeva che probabilmente era dovuto alla creatura che era, qualsiasi essa fosse.
Non che i pericoli non gli piacessero, anzi, lui aveva una vera passione per i casini. Fin da quando era piccolo, tutto quelle situazioni non sicure, nuove e ignote scatenavano in lui l'adrenalina e lo facevano stare bene. Erano quasi una droga per lui.
Non era stupido, però: non conosceva il posto in cui era e a questo punto sapeva di non conoscere neanche se stesso, quindi per un po' avrebbe dovuto evitare azioni avventate.
Certo non era riuscito a contenersi all'incontro con la Famiglia. Durante tutto il viaggio che l'aveva portato fino al palazzo aveva sentito il pizzicore urlare e far male, tanto che credeva che l'avrebbero ucciso.
E c'era mancato poco, soprattutto perché, senza un motivo preciso, non era riuscito a frenare la sua linguaccia e provocare quell'Amon era stato proprio impossibile da evitare. Non si era mai sentito più impulsivo.
Ora, però, aveva problemi più seri.
Tipo i crampi allo stomaco che non sembravano aver fine. O la tosse così violenta che pensava che avrebbe sputato un polmone da un momento all'altro. E, quando non tossiva, vomitava.
In poche parole, si sentiva morire.
L'unica cosa che lo confortava era che all'incontro avevano detto che la morte non necessariamente avrebbe significato, beh, la morte celebrale. Virgil avrebbe solamente desiderato che non fosse così lungo e doloroso, una vera tortura.
Vagava, dunque, immerso nei pensieri, inconsciamente trasportato dalla Città verso il suo centro, verso il palazzo della Famiglia.
Quando arrivò, Felix lo vide e aggrottò un sopracciglio, poi sorrise lievemente nel vedere il terribile aspetto di Virgil. Era davvero messo male.
Brancolava, appoggiandosi più volte al muro, a volte fermandosi a tossire, piegato a metà.
“Vedo che qualcuno sta morendo” disse Felix, vagamente trionfante.
Virgil si ridestò dai suoi pensieri e lo guardò storto.
“Sì, lentamente e dolorosamente. Immagino che tu ne sia molto felice.”
Il demone ridacchiò. “È una giusta punizione per la tua insolenza, la prossima volta impari.”
“Sono giorni che va avanti così, voglio solo che finisca. Ho bisogno di aiuto” disse Virgil, con tono pietoso e le lacrime agli occhi per
la violenza con cui aveva tossito. Si avvicinò al palazzo e Felix gli andò incontro.

“Devi morire da solo, oppure rischi di morire sul serio. Pensa che poi starai bene. In salute per sempre” disse e, nella sua voce, c'era un qualcosa di dolce. Virgil pensò che sapesse esattamente cosa stava passando, doveva averlo provato sulla propria pelle. “O, beh, fino al tuo omicidio” continuò Felix.
Virgil trovò la forza per ridacchiare lievemente. “Stai dicendo che dopo che sarò morto, mi ucciderai nuovamente?” chiese con ironia.
“Intendo che non morirai di malattia o di vecchiaia” rispose l'altro. Virgil non aveva ancora contemplato l'immortalità e, ora, capendo che quello era il suo destino, si sentì oppresso da un peso anche più grande della sua attuale malattia. Immortalità voleva dire molte cose e, fra queste, solo alcune erano positive.
“Hai perso la lingua?” chiese Felix divertito. “Questa tua malattia potrebbe essere molto meglio di quanto pensassi.”
Virgil gli lanciò un'occhiataccia. “Ho davvero bisogno di aiuto. Non solo per quello che sto passando ora, ma per quello che succederà dopo. Io non conosco le creature, non so cosa potrei essere, non so nemmeno cosa significa essere qualcosa.”
“Imparerai” disse il demone, ma a Virgil non bastava.
“Io non ho nessuno. Sono solo, non ce la posso fare ad affrontare tutto questo.” Nel suo tono c'era la disperazione.
Passare quasi un mese senza una casa e senza un'anima con cui parlare, dover temere costantemente di essere ucciso nel sonno, non avere nessun punto di riferimento lo aveva sfiancato e, quasi letteralmente, ucciso. Si sentiva in trappola e allo stesso tempo solo, abbandonato in un mondo che non capiva e, più di quanto mai avesse pensato in vita sua, aveva un disperato bisogno di aiuto.
Non sapeva perché stava chiedendo aiuto al demone che non molto tempo prima aveva minacciato più volte di ucciderlo, né perché lui fosse quasi gentile nei suoi confronti, ma quella era la sua unica possibilità.
Felix capì la sua disperazione e avrebbe accolto la sua richiesta di aiuto, non di rado capitava che un nuovo, che fosse appena morto o morente, chiedesse aiuto alla Famiglia, ma c'era qualcosa nei suoi occhi che lo rendeva diffidente.
Virgil fu scosso da un conato e sputò sangue, quasi sulle scarpe di Felix, che fece una smorfia più di fastidio che di disgusto. Gli porse un fazzoletto, con cui il giovane si pulì la parte inferiore del viso. Seriamente pensò che avrebbe sputato un polmone, presto.
Il demone guardò Virgil, che ancora aspettava una risposta, poi gli prese il mento fra l'indice e il pollice e lo guardò negli occhi, lentamente. Dall'intensità con cui lo guardava, Virgil pensò che gli stesse rubando l'anima. Era anche possibile, pensò, dal momento che era un demone, eppure non gli importava quel granché. Sentì il battito accelerare, preso da una sorta di fremito e come travolto da un vortice. Il pizzicore alla testa che pulsava prepotente.
Felix sgranò gli occhi e si allontanò repentinamente.
“Vattene, ragazzo, e se non vuoi morire davvero non farti più rivedere” disse, come se fosse appena stato scottato dal fuoco.
Virgil cadde a terra. “Ti prego, ho bisogno di aiuto” urlò, quasi piangendo. La voce spezzata dalla disperazione.
Felix sembrò arrabbiarsi. “No. Fidati, dalla Famiglia non potrai avere nessun aiuto. Posso solo darti un consiglio: stai lontano da qui, vivi nell'ombra e aspetta di potere uscire dalla Città, questo è l'unico aiuto che ti posso dare.”
Detto questo, il demone se ne andò, senza girarsi indietro. Anche se lo avrebbe voluto fare.
Virgil appoggiò entrambi i palmi sul duro cemento. Respirò, profondamente, poi cercò di rilassare i muscoli, lasciandosi andare. Si sentì condannato, per un attimo. Immortale e solo.
Si rialzò, dunque, guardando fisso nel vuoto. Doveva calmarsi, lui ce l'aveva sempre fatta da solo. Non era la prima volta, non sarebbe stata l'ultima.
Essere abbandonato quando aveva bisogno di aiuto era la storia della sua vita.
Si alzò e si girò per andare nella direzione da cui era arrivato.
Uno sconosciuto, dall'aspetto terribilmente eccentrico, gli si parò davanti.
Lo guardava con aria quasi derisoria, con un lampo di interesse negli occhi scuri.
“Che ne dici, ragazzo” disse Red con un piccolo sorriso. “Se ti spiego cosa sei e perché Felix non ti vuole aiutare?”

***

Madison non riuscì a ignorare la voce nella sua testa. Scattò il panico, per primo, che la invase rapidamente. Chi era? O meglio, cos'era? Sconosciuto era anche il motivo per cui la sentisse.
“Sei un'assassina” disse la voce femminile, con il solito imperturbabile tono squillante ma profondo. La frase si ripeteva in modo continuo nella sua mente, con instancabile costanza, e a Mad sembrava che quella voce allungasse lunghe mani dalle dita sottili e violacee, per stringerle l'anima. Mad si sentiva impazzire.
Ripensò alle parole di Red, solo qualche giorno prima. “Cerca di non impazzire troppo in questi giorni”, aveva detto. Avrebbe dovuto rivolgersi a lui, l'avrebbe aiutata, le avrebbe detto cos'era quella voce. Ripensando di nuovo alle parole dell'eccentrico Red, però, pensò che nulla impediva che fosse proprio a causa sua che le erano successe quelle cose. Forse così facendo voleva portarla a chiedergli aiuto e farle cambiare idea. Mad non avrebbe ceduto.
“Sei un'assassina.”
Lo so, avrebbe voluto urlare, lo so! Era un'assassina, un mostro, una terribile bestia che aveva ucciso un innocente. Ma no, si disse poi, il lupo non era di certo innocente, in primis dal momento che aveva cercato di ucciderla, senza neanche ascoltarla.
“Sei un'assassina.”
Non era certo una scusa, l'autodifesa, aveva comunque ucciso un uomo con amici, magari una famiglia, un branco ora era in lutto per colpa sua e solo sua. Eppure il branco era in guerra e se non avesse dato per scontato che lei era un gatto, se solo l'avesse ascoltata un momento! Avesse dubitato solo un momento della sua natura, lei non era un gatto!
“Sei un'assassina!”
Aveva ucciso! Aveva spento una vita, cancellato un futuro, negato l'esistenza a ogni ipotetico figlio e generazione, che diritto aveva? Nessuno. Meglio morire che uccidere, meglio di certo vittima che mostro! Oh, se solo non avesse sbagliato via, se solo avesse camminato più velocemente, se solo non lo avesse spinto. Ma era la Città, lo sapeva, l'aveva spinta lì, l'aveva obbligata, non era colpa sua.
“Sei un'assassina!”
Basta.
Era la voce che produceva quegli effetti su di lei, la voce esigeva senso di colpa, lo richiedeva e lo ordinava, ogni volta che Mad trovava un modo per giustificare, o meglio, motivare quella morte, la voce urlava sempre più forte. Man mano che ripeteva quella frase, cresceva una sorta di ronzio, o più che altro sembrava che la voce si sforzasse di dire qualcos'altro, ma non ci riuscisse. Forse stava solo scoprendo informazioni.
Doveva ignorarla. Doveva smetterla di pensarci ed andare avanti, senza lasciare che condizionasse ogni cosa che lei faceva. Sembrava certo impossibile, ma soccombere al senso di colpa non era di certo un'opzione.
Avrebbe dovuto chiedere aiuto, lo sapeva. Da sola, con le conoscenze che aveva a proposito degli esseri soprannaturali e della Città, non sarebbe certo riuscita a risolvere il problema. Ma a chi chiedere? L'unica persona di cui si fidasse anche solo minimamente ne sapeva meno di lei. Connie non poteva aiutarla.
Nella sua vita aveva imparato a non avere bisogno di nessuno, mai. Ora chiedere aiuto sarebbe stato più difficile di quanto pensasse. Si sentì sola, ancora una volta, come se il mondo, al di fuori di lei e del suo pesante fardello, non esistesse. Come se il mondo non fosse altro che una vuota tenebra che la opprimeva, la stringeva in un gelido abbraccio di solitudine.
Sentì Connie che canticchiava allegramente, in cucina.
Mad decise che era il momento di alzarsi: forse rimanendo occupata la voce non l'avrebbe infastidita più di tanto.
Salutò la coinquilina, cercando di sembrare il più normale possibile. Prese un succo di frutta all'arancia e lo bevve, a piccoli sorsi, cercando di vincere quel groppo alla gola.
“Che giorno è oggi?” chiese a Connie, mossa da un dubbio.
“Giovedì” rispose l'altra, alzando un sopracciglio. Era ormai sempre più chiaro che ci fosse qualcosa che non andava.
Madison per poco non si ribaltò dalla sedia. A pranzo doveva andare al De Vil. Ed era terribilmente in ritardo. Stare nel letto a pensare le aveva preso più tempo di quanto pensasse.
Corse nella sua stanza, acciuffando i primi vestiti che le capitavano. Si preparò, più velocemente che poteva, poi uscì di casa di corsa.
Se tutto fosse andato bene, sarebbe arrivata in ritardo di non più di qualche minuto. Alternò la corsa al passo spedito, consapevole di essere ormai già troppo sudata per avere un aspetto decente, ma non le importava granché.
Intanto, la voce urlava nella sua mente prepotentemente.
Quando entrò al De Vil, Twinky le riservò un'occhiata di disprezzo, ma nessuno le disse niente a proposito del ritardo.
Fu un turno piuttosto tranquillo, non molta gente andava a mangiare lì a pranzo, il che le lasciò tempo per dedicarsi al suo dibattito interiore a proposito dell'omicidio.
Ogni volta che ci pensava era sempre peggio. Si sentiva sempre peggio, un mostro, le motivazioni che si dava erano sempre le
stesse, 
ma sembravano essere inconsistenti, futili.
La voce ripeteva la stessa frase con sempre maggiore frequenza e con tono sempre più forte. Ora anche distogliere il pensiero sembrava impossibile. Alla fine del turno non riusciva più a distinguere i propri pensieri dalla vera realtà. La scena dell'omicidio iniziò a riproporsi davanti ai suoi occhi come se la stesse vivendo, ancora e ancora, come se quel momento non finisse mai. Twinky le disse qualcosa, ma lei non capì. La fissò, chiedendosi se non se la stesse solo immaginando e decise che non le importava.
Uscì dal bar, senza dire nulla a nessuno, poi fu travolta dalla brezza del vento. Neanche quello le importava.
Portò le mani alle tempie, cercando invano di tornare alla realtà.
Era un mostro, un'assassina, non si sentiva più degna di vivere.
Senza neanche rendersene conto, scelse di morire.
Le lacrime rigavano le sue guance rosee, mentre lei camminava lentamente. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé, il volto senza alcuna espressione, gli occhi vacui.
Non le importava più di nulla.
Lei era un mostro.
“Sei un'assassina, Madison” disse la voce, poi sembrò ridere.
Sono un'assassina, si ripeté lei.
Senza neanche rendersene conto, giunse nella zona del branco di Connor, dove vari lupi stavano facendo la guardia. Quando la videro, scattarono sull'attenti e concentrarono l'attenzione su di lei.
“Dove credi di andare?” chiese uno, minaccioso, tirando fuori le zanne.
Mad lo guardò per qualche secondo, poi, senza alcuna emozione nella voce, parlò. “Sono un'assassina” disse.
Il lupo spalancò gli occhi e la prese per un braccio, trascinandola senza alcuna delicatezza. Urlò qualcosa ai compagni, che guardavano la scena fra l'attonito e il glorioso. Un po' forse anche invidiosi, dal momento che non erano loro a portare il trofeo al loro capo.
Mentre trascinava Madison, il lupo non le toglieva gli occhi di dosso e non diceva nulla. Lei, da parte sua, si lasciava trascinare, come in trance.
In un certo senso si sentiva anche felice, come se fosse mossa da un senso di giustizia. L'omicidio sarebbe stato vendicato giustamente.
“Alfa!” urlò il lupo quando giunsero davanti a un gruppetto di persone, in una specie di piccola piazza, circondata da alti edifici grigi scuro.
Connor si girò, guardando verso Madison con curiosità e vittoria, non ci mise molto a capire chi fosse. Si girò verso una ragazza, la banshee, e con un cenno del capo le sembrò chiedere conferma.
“Sì, è lei” disse la ragazza. Madison subito riconobbe la voce che da tutto il giorno l'aveva tormentata. Era un potere della banshee, dunque, il trovare il colpevole facendolo impazzire? In quel modo lei era stata dunque incastrata, senza neanche rendersene conto, per quell'unico omicidio che senza vera intenzione aveva commesso.
La voce nella sua testa si zittì. Madison tornò in sé e prese finalmente coscienza di ciò che era successo.
E capì che sarebbe morta, senza ombra di dubbio.
Non che il senso di colpa se ne fosse andato completamente, ma si era affievolito, così come quel consegnarsi ai lupi ora le sembrava la peggior cosa che mai avesse potuto fare.
Connor la guardò, con un cipiglio che le parve cattivo e viscido. Sembrò esser mosso da vera soddisfazione nel sapere che la avrebbe uccisa e Madison provò quasi disgusto. Provò ad indietreggiare, ma fu subito fermata dal lupo che l'aveva portata lì.
Non c'era via di fuga.
L'alfa ululò, chiamando tutto il branco proprio come aveva fatto la prima volta che Mad aveva visto l'omicidio del gatto, quello che le sembrava essere secoli prima. Pensò a Connie, a come si sarebbe preoccupata e a come avrebbe sofferto sapendo che lei era morta.

Poi pensò alla sua vita. E tristemente capì che non c'era nulla di bello che allietasse quegli ultimi momenti.

Maledì la Città, perché, proprio come lo era sempre stata, era dannatamente sola.
Era accerchiata da lupi e davanti a lei Connor stava a braccia incrociate, imperioso.
“Gatto dei Nekomusume, che non sei neanche degna di far sapere il tuo nome” disse l'uomo alla prigioniera “Sei colpevole del brutale assassinio del nostro James Donovan, grande amico e stimato guerriero, e per questo io, Connor Wallace, ti condanno a morte.”
“Non sono un gatto!” gridò lei, nel tentativo di fermarlo, con le lacrime agli occhi. “Non ho nulla a che fare con i gatti!”
L'alfa esitò qualche momento, scrutandola per capire se stesse dicendo la verità. Fu mosso dal dubbio, ma in pochi istanti Madison capì che a lui non importa davvero cosa lei fosse, ma solo ciò che lei aveva compiuto. Il suo tentativo non aveva avuto nessun successo.
Si sentì prendere per le spalle da due lupi, che la tenevano ferma.
Il suo cuore batteva velocemente, le lacrime suo malgrado scorrevano lungo le guance. Non c'era nulla che potesse fare, oramai, e non sapeva neppure quale potesse essere il suo ultimo pensiero. Sentì che la sua esistenza fosse stata sprecata, che dalla vita non avesse avuto altro che sofferenza e il suo combattere non fosse stato nient'altro che un vano tentativo di opporsi a un destino sul quale non aveva alcun potere. Non poteva vincere contro la Città, era diventata un mostro e ora sarebbe morta, senza neanche mai poter vincere quell'odio che le era stato riservato da chiunque, quando ancora era libera nel mondo.
In quei brevi istanti capì che non aveva mai davvero posseduto la libertà e la sua esistenza era stata solamente il capriccio di un mostro diabolico.
Lei sarebbe morta e nulla sarebbe cambiato.
Quello sarebbe stato il suo ultimo pensiero.
Smise di piangere.
Se la sua esistenza non aveva avuto alcuno scopo né alcuna gioia, almeno ora ancora un diritto ce l'aveva. Sarebbe stata forte e coraggiosa in quell'ultimo istante e avrebbe guardato la morte come un combattente che guarda il suo ultimo nemico e non si sarebbe sentita debole, né avrebbe pensato che in quel duello avrebbe perso, perché l'unica cosa che le rimaneva era la dignità di perdere essendo nient'altro che lei stessa, nella sua forza. Aveva uno sguardo fiero ed era più bella di quanto non fosse mai stata, perché non aveva paura.
Non era mai stata più viva.
Connor vide questa grande forza e per un attimo ne fu destabilizzato. Ma in realtà non gli importava davvero. Si iniziò a tramutare in un lupo, lentamente.
“Mi chiamo Madison Huddle” disse lei, con aria di sfida. “Il mio nome è degno di essere conosciuto.”
“Wow! Beh, piano, ragazza” intervenne una voce, per Madison molto famigliare. “E piano, Connor, tutta questa fretta è inappropriata per un capobranco.”
Red se ne stava su una delle terrazze di un edificio, tranquillamente appoggiato alla ringhiera, con le braccia incrociate. Il suo completo a righe verticali bianche e nere faceva risaltare ancora di più il rosso acceso del suo cilindro, come al solito appollaiato sui suoi ricci.
Un brusio si diffuse fra i lupi.
Connor rise, tornando alla forma umana.
“Red Anomalies” disse “ma quanto tempo.”
Madison si sentì sopraffatta dal sollievo. Non era mai stata più contenta di vederlo, nonostante non si fidasse di lui, sperava che avrebbe impedito la sua esecuzione.
Red riprese la parola.
“Hai ragione, Connor, quindi perché rovinare questa gioiosa occasione di ritrovamento con un omicidio?” disse con ironia. Sembrava chiaro che fra i due ci fosse astio, se non addirittura odio.
“Lo sai che è il codice del branco, non lascio una morte invendicata.”
Red salì sulla ringhiera della terrazza, quindi balzò giù con un salto, andando a finire esattamente fra Madison e Connor.
“Sì, ma lei non è una Nekomusume. In più non è stata esattamente colpa sua la morte del tuo amico, non è vero, Mad?” chiese rivolto a lei.
La ragazza capì che quello era il suo momento per dire come stavano le cose. “Sono nuova e non sapevo che questo fosse il tuo territorio, ho sbagliato strada e il tuo amico mi ha aggredito pensando che fossi un gatto, senza lasciarmi parlare” disse Mad, senza riuscire a limitare l'astio nel suo tono.
Connor fece una smorfia, ma non disse nulla. Si limitava a fissare Red.
“Noi ce ne andiamo” disse quest'ultimo. “Nonostante mi piacciano molto i cestini assortiti, ci accontenteremo delle scuse da parte di tutto il branco. Scuse accettate.”
I lupi che tenevano Madison fissarono il proprio Alfa, interrogativi, e lui fece loro un cenno di lasciarla andare, senza ancora dire una parola.
Red affiancò la ragazza come si fa con gli zoppi, tenendola per un fianco e lasciandola appoggiare a lui, con un braccio intorno alle spalle.
Sotto gli occhi di tutto il branco, i due se ne andarono.
Madison aveva moltissime domande, ma per ora si lasciò salvare.

 

*Angolo autrice*
Buonasera a tutti! Quanto tempo!
Capitolo pieno di avvenimenti eh?
Innanzitutto, spero che tutti voi abbiate passato un buon Natale e vi auguro un felice anno nuovo, vi prego di scusarmi per il mio ritardo.
In ogni caso, abbiamo assistito a un ritorno di Red e, ovviamente, un ritorno in grande stile. Abbiamo rivisto anche Virgil e Felix, cosa ne pensate di loro? 
Mad si è cacciata in un bel guaio, ma ora la situazione sembra essersi risolta.
Che dire? Aspetto un vostro commento!
StellaDelMattino


 

   
 
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