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Autore: Blablia87    11/01/2016    3 recensioni
DAL TESTO:
"Venti minuti fa, cosa? Concentrati, per l’amor del cielo.
Come sono arrivato fin qui? A osservare uno sconosciuto con… cos’è questa? Paura? No. Invidia? No. Quali altre emozioni sono abituato a riconoscermi senza minare troppo la mia idea - piuttosto artefatta, ma d’altronde ci ho lavorato su per anni! - di me stesso?
Ah, già.
Ira."
E se Sherlock non fosse riuscito a dedurre davvero tutto di John Watson, il giorno in cui si sono incontrati? E se il passato del soldato tornasse a far loro visita?
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Avviso:
Al solito, ho finito con lo scrivere un capitolo immenso. Quindi anche questo verrà tagliato, ma entrambe le parti saranno pubblicate stasera, praticamente in contemporanea. (Scusate le eventuali sviste, ma ho un po' di problemi a scrivere, quando sono molto stanca!)

Case (pt.1)

 
Ho sempre amato la biblioteca universitaria del Bart’s.
Ho passato mesi interi a passeggiare tra le scaffalature, sempre con un libro diverso in mano.
Il mio tavolo preferito era in fondo alla sala principale.
Nessuno lo sceglieva mai: isolato, con una gamba zoppicante e troppo vicino all’enorme vetrata.
Si gelava in inverno e si soffriva il caldo d’estate.
Ma a me piaceva: potevo vedere tutto, senza che nessuno vedesse me (almeno che non volessi).
È sempre aperta, anche di notte.
Spesso, quando condividere una camera ed una scrivania con Harry diventava insopportabile, finivo con l’aspettare l’alba qui.
Vederla salire da dietro il vetro e inondare a poco a poco il pavimento di marmo era indescrivibile.
Ogni tanto Sasha veniva a farmi compagnia. Portava i suoi libri di inglese e sedevamo vicini, con le teste chine a sfiorarsi.
“Spiegami cosa stai studiando” chiedeva a volte, e allora cercavo i modi più divertenti per non rendere noioso ai suoi occhi quello che avevo appena imparato.
Gesticolavo eccessivamente, trasformando processi chimici in incredibili avventure, stadi patologici in disegni e fumetti.
Rideva, con i capelli che cadevano sugli occhi e le mani sul petto, e di quelle risate facevo ornamento per la mia – la nostra – casa.
Ho sempre catalogato così il mondo, fin da bambino. Harry correva da nostro padre, gridando che baravo. Non potevo ricordare tutto, non era possibile.
Papà rideva, le scompigliava i capelli e dava a me un buffetto.
“È solo molto sveglio, non te prendere.” Diceva. E ancora oggi mi chiedo se il mio rapporto con mia sorella non sia frutto anche di quei pomeriggi in cortile.
Ma io ho provato a spiegarglielo. A insegnarglielo. Mille volte.
Erano solo case. Bastava ricordare in quale avevo messo quel particolare ricordo, ed entrare.
Quella per noi, Harry, mamma, papà, me, era identica a casa nostra. Un appartamento in periferia.
I ricordi di mamma erano foto in cucina, quelli di papà libri in salotto. Harry era la sua camera, i suoi giochi, poi diventati diari e poster.
Io avevo le mie scatole sotto il letto per le paure, e gli scaffali per le vittorie.
 
Per gli amici ho avuto parco giochi, poi palestre. Un garage, per Tom e Martin, identico a quello del padre di Tom dove passavamo i pomeriggi. Ogni singolo ricordo uno scatolone chiuso con il nastro adesivo, pronto ad essere aperto in ogni momento.
 
Mi siedo all’ultimo tavolo, e per un attimo sembra che il tempo si sia fermato.
Le luci al neon tremano appena, qualche matricola è ancora china sui libri.
 
Non so perché sia tornato qui, dopo tutto questo tempo.
 
Immagino che sia il mio personale invito a pensare.
 
Sasha è stato l’unico ad avere una casa totalmente sua.
La più grande, in assoluto la più bella.
L’ho costruita nell’arco di un’estate. Ogni sera aggiungevo dettagli, mi sembrava sempre troppo piccola.
La tirai su sulle macerie della mia storia precedente, sulla desolazione e l’umiliazione di un tradimento codardo e protratto nel tempo.
 
Tom lo aveva capito subito, quando mi aveva trovato sdraiato a terra, nel suo garage (avevamo tutti una chiave), con la chitarra addosso.
Aveva preso la telecamera, come sempre (avevamo ancora quella assurda idea della capsula del tempo) e si era sdraiato accanto a me, testa contro testa.
“E questo, amico, sei tu a 17 anni dopo la tua prima storia fallimentare.”
Ci aveva inquadrati entrambi, dall’alto, ed io mi ero limitato a guardare in camera con aria truce.
“Il che, per il resto del genere umano è una vittoria senza pari, considerando che sei tra i ragazzi più popolari del liceo – aveva fatto una pausa drammatica, terribilmente comica – sia tra le ragazze che tra i ragazzi, e che ti sei andato a scegliere proprio il più idiota. Ben ti sta. Detto dal tuo amico che non ha mai uno straccio di appuntamento.”
Avevo provato a non ridere, ma quando era entrato Martin, un paio di minuti dopo, aveva trovato solo due ragazzi piegati in due dalle risate.
 
È stato accanto a quella casa, alla nostra casa, che ho eretto la seconda.
Nata dalla disperazione, dalla necessità. Costruita per essere distrutta.
 
Non ci misi poi molto: l’immagine del viso del soldato Will. Le…quante erano? Gocce di sangue attorno a lui. Le ricordavo tutte. Ognuna con la sua forma, la sua geometria sbagliata.
Ci chiusi le conoscenze matematiche, quelle di calcolo. Cercai di lasciarci la memoria fotografica, riuscendoci in parte. Buttai sul pavimento senza assi la mia mente, per come l’avevo conosciuta. Infine, ci gettai la voglia di guarire.
 
Avevo bisogno di ricordare, ma di annebbiare il ricordo quanto bastava per sopravvivere.
Cancellare tutto sarebbe stato un affronto, un gesto ignobile. Mantenere tutto mi avrebbe portato alla pazzia, e alla morte. E sarebbe stato, semplicemente, troppo facile.
 
La casa di Sasha rimase disabitata, come la mia stanza d’ospedale nell’attesa che tornasse.
Poi la rassegnazione ne sprangò la porta, ed io tornai a Londra.
 
Mi avvicino alla finestra. Fuori è buio, ma la luce dei lampioni mi rende possibile vedere l’altra facciata.
Alzo lo sguardo, lambisco con gli occhi il cornicione.
 
Sherlock…
 
Come avrei potuto dirtelo? In parte, non ho mai voluto, su questo hai ragione.
E questo fa di me un bugiardo, mio malgrado.
 
Ma…
 
Avevo trovato qualcuno come me. Meglio di me. Qualcuno da ascoltare, da seguire, da…proteggere.
Non ho dovuto costruire, con te.
Lo hai fatto da solo, testardo come sempre.
Hai scelto dove stabilirti, che ruolo prendere nella mia mente.
Ha scelto dove addormentarti, e dove lasciare le tue cose.
Ti sei seduto lì, semplicemente, oltre i vetri appannati di ciò che avevo lasciato indietro.
E da lì non ti ho mai spostato, come non ho mai osato sfiorarti nella realtà.
 
Senza un cuore (a detta tua), hai ridato battito al mio, e nemmeno te ne sei accorto.
Talmente indaffarato a condannare i sentimenti, da non saperli leggere.
Ma va bene.
Va bene così, perché non potrei chiederti altro che di rimanere ancora un po’.
Di aprire la porta, e farmi spiegare.
 
Sasha mi ha baciato, lo sai?
E vorrei dirtelo, solo per vedere la tua reazione. Ma la conosco. Tu, capace di distruggere una stanza per l’onta di aver diviso la vita con qualcuno forse al tuo pari (e non lo sarò mai, Sherlock, mai), mi guarderesti come se fossi impazzito.
“Perché diavolo mi stai dicendo questo, John?”
Non lo so Sherlock…vorrei solo…
 
Rivederlo è stato doloroso, ma dolce.
Si è portato dietro la luce dei pomeriggi in spiaggia, le ombre delle notti in missione.
Ha trascinato con sé le lenzuola, e i letti. Le mani, e il viso di un amore con i tratti di un fanciullo.
Non posso dire che il mio cuore sia rimasto indifferente.
Qualcosa si è mosso, dietro le tende di una casa abbandonata, e per un attimo, su quella panchina, ho pensato fosse amore.
 
Ma non può esserlo, se è vero che tu vivi oltre quella casa. Se posso vederti attraverso le sue finestre. Non riesco mai a toccarti, ma quasi sempre mi basta rimanere lì, a guardare da lontano cosa hai deciso di fare quel giorno sull’erba della mia coscienza.
 
Fai sempre così, tu.
Non ti ho invitato, Un giorno, semplicemente, ti ho trovato lì.
Ed è stato allora che ho capito.
Che non me ne sarei potuto più andare.
Schiavo di due occhi azzurri e di un cuore che so battere, anche se non per me.
 
Forse avrei dovuto dirtelo.
Che vederti cadere è stato come lasciare il mio cuore su quel marciapiede.
Che mi sono aggrappato al dolore, al lutto, con ancora più forza che in passato.
 
Che in solo due giorni, dopo mesi di agonia, ti eri preso la mia promessa di sofferenza e l’avevi cancellata, insieme alla zoppia.
E che invece per due anni, credendoti morto, ho rinnovato il mio dolore per te ogni giorno, con cura, cesellando le ferite con i ricordi più acuminati, per non farle chiudere.
 
Avrei dovuto, forse.
Ma ti avrei perso, allontanato da un sentimento che non trovi che inutile e avvilente.
E quindi ok Sherlock, come vuoi.
 
Sempre, come vuoi.
Resta dietro quella porta, e dammi tutta la colpa.
 
Io resterò qui, a passeggiare per i corridoi e gli scaffali, con una mano a sfiorare i libri.
 
Una volta siamo stati insieme in una libreria, ricordi?
Il nostro secondo caso.
 
E io avevo voluto specificare che non eravamo amici, ma colleghi.
Era stato involontario, uno schema di difesa.
 
Ma tu sapevi.
Sapevi già tutto, come sempre.
 
L’unica cosa che ti ostini a non vedere (e ti sono grato, per questo), sono due occhi che ti seguono ovunque.
 
Finché avrò fiato, nessuno arriverà mai tanto vicino a te da poterti sfiorare.
 
Non saprò più schivare le pallottole…ma so che se mai una arriverà a te, sarà solo perché altre mille avranno prima attraversato il mio corpo.
 
Ancora un po’, il tempo di poter rindossare la maschera senza che bruci troppo, e tornerò a casa. Sistemerò il salotto, e mi metterò a cucinare.
Spero solo che riuscirai a capire, prima o poi. A passare oltre.
 
E intanto sei sempre lì, fermo oltre il mio passato, e mi guardi con occhi attenti.
Cosa devo fare, Sherlock?
Cosa?

 
   
 
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