Note
dell’autrice:
Quasi dieci pagine di Word per un inno al Romanticismo, e
lavoro a “Jack-o’-lantern” da almeno un
mese. Non ha un genere particolare, in
quanto abbia letto almeno dieci volte la lista dei generi di EFP prima
di
decidere dove pubblicarla: Thriller? Nah, niente assassini psicotici.
Horror?
Oh, no, dovrebbe quantomeno far paura. Noir? Sì, beh, non
era la scelta più
azzeccata ma poteva starci, e alla fine ho optato per la famigerata
categoria
Introspettivo. Del resto, che altro è se non un viaggio
nella mente di Clarissa
– così bionda e deliziosamente inglese –
la bambina del Kent che coglieva la
magia in ogni cosa ... ? Decidete voi se ha sognato, oppure se quello
che l’ha
accompagnata per la fredda notte del 31 ottobre è stato un
lungo e inclemente
delirio; del resto Clarissa è vostra, e potete decidere voi
cosa farne.
Detto
questo, spero che vi piaccia, e che valga la pena di un commento.
Kisses,
Mandorlina.
Jack-o’-lantern
Prologo
- 30 ottobre 2015
L’Inghilterra
è color grigio
fumo. Canticchia l’Irlanda, al di là del mare,
canzonette ubriache di birra.
Mia madre diceva sempre che l’amore va vissuto con costanza.
E non sapete
quanto coraggio ad ammettere di non conoscere altro che una brughiera
desolata,
dove il cielo è livido e la luna, prima ancora di essere la
luna, è la dea
della morte e della speranza.
Amo
la mia terra per quello che
può offrirmi. Un pasto caldo, un guanto di lana e,
chissà, una visione un po’
più poetica del mondo.
Mi
chiamo Clarissa. Per alcuni
–non so se è necessario dirvelo – sono
Clary, per altri (e per altri intendo
tutti gli altri) non sono nessuno.
Il
che potrebbe dispiacermi, se non fosse che degli altri
non m’importa.
Sono
cresciuta immaginando
Londra, sfuggendo alla mia stessa mente sulle Highlands
scozzesi –di cui
ho sentito solo raccontare –, con l’amore
di mia madre e il pettegolezzo
invidioso degli affari d’oltre Manica. In particolare, sono
cresciuta a
leggende.
Sapessi
scrivere, sapessi
quantomeno disegnare, potrei descrivervi ognuno di quei piccoli
particolari che
rendono una storia diversa da un’altra. Di storie ne ho
sentite parecchie, e la
notte, quando il freddo è tale da assopire ogni contatto con
il mondo esterno,
crederci equivale a darsi un’altra possibilità.
Non morire assiderati.
Il
che, se ci pensate, è già
tanto.
Quest’anno
ottobre è sceso un
po’ troppo presto per chi è rimasto affezionato ai
luminosi ricordi
dell’estate, troppo tardi per chi come me non aspettava altro
che il freddo
vento dei cambiamenti, quello che sa di zucchero bruciato e antiche
tradizioni.
Ottobre
è il mio mese
preferito. E’ un’anima inquieta, lo spirito
pazzerello di un folletto popolano,
frizzante e candido di gesso la mattina, ululante e tenebroso nelle
notti senza
fine.
Ma
torniamo indietro di quattro
anni. Anche allora ottobre era il mio mese preferito, anche allora la
brughiera
del Kent era la mia casa.
L’unica
differenza –una sostanziale
differenza – che distingue
una bambina di nove anni da una ragazzina di tredici è che
le notti, quando il
freddo è tale da assopire ogni contatto con il mondo
esterno, a nove anni credi per credere. Prima
del freddo.
31 ottobre 2011
A long grey
street (1,2,3)
1
Ottobre
è color zucca. Stranamente, mi riviene in mente il periodo
in cui mia madre mi
chiamava affettuosamente zucchetta, baciandomi
in un punto indefinito tra i capelli.
Non
so fino a che punto c’entri con la mia storia, ma pazienza.
Quando attingi al
passato, i ricordi fluiscono ininterrottamente, non fanno domande
riguardo la
loro pertinenza col tuo pensiero iniziale. Non sono educati, i ricordi.
Sono
impertinenti. Ti scottano. Zucchetta,
zucchetta!
Ma
certe volte, sono pure piacevoli. Hanno il sapore di glassa.
E
fidatevi, nelle notti fredde di cui prima parlavo, i bei ricordi sono
la
miglior cosa in cui credere.
2
Ricordo
che, prima del supermercato, tra le due windy
hills stava una lunga strada asfaltata che dai negozietti di
periferia portava
fino al camposanto. Ai lati della strada si ergevano due austere file
di
platani, che trasformandosi prima in pioppi e poi in abeti, donavano a
noi contadinotti –il
sospetto che i londinesi
ci chiamassero così era tutt’altro che infondato
– la perfetta ambientazione
per qualche tragedia.
C’era
chi sostenesse che al primo platano si fosse impiccato il figlio del
barbiere,
che per altri era la moglie del fornaio; le amiche di mia madre erano
convinte
d’aver visto le streghe tra le fronde degli abeti, e a quanto
diceva il
pettegolezzo mio cugino Tommy era stato sedotto da una ninfa suicida,
reincarnata in usignolo.
«E’
vero,
Tommy? »
avevo chiesto.
Mio
cugino si era dato una sistemata ai capelli. Aveva le guance rosse, gli
occhi
celesti –identici ai miei – liquidi ma stranamente
freddi. Era stato in chiesa,
e a giudicare dal suo ingiustificato imbarazzo (faccio paura?) doveva
essersi
appena confessato.
«Lo
dicono
tutti, no? »
abbozzò un sorrisetto che aveva qualcosa di nervoso, e
qualcosa di irrisorio.
La sua risposta non mi soddisfaceva affatto, ma finsi di
accontentarmene.
Del
resto, non mi potevo aspettare altro da un damerino ingessato in uno
smoking di
due taglie più piccolo. Da uno che probabilmente aveva detto
al pastore: «Che Dio mi perdoni per essermi lasciato
sedurre da una ninfa suicida. ».
Del
resto, me ne importava ben poco.
3
Ricordo
i 31 ottobre della mia vita con sconcertante precisione.
Le
mattine iniziavano con il rito della candelina, e si concludevano con
un deludente
lunch a base di uova e maionese. Niente a che vedere, dunque, con la
cena della
Vigilia o il pranzo pasquale, gli abiti in carta velina e raso alle
feste
folkloristiche o la devastante gioia alla vigilia dei new
year’s day.
Non
immaginatevi una bella festa. Halloween non lo era per niente.
A rainy
afternoon (4,5)
4
Ma
adesso cominciamo sul serio. Prima mi pare di avervi accennato un
“rito della
candelina”.
Da
noi era tradizione lasciare una candela accesa al limitare della long grey street.
A
quanto mi avevano raccontato, sarebbero servite ad indicare alle anime
dei
morti la strada per il villaggio. Ed era un’idea carina, se
non avessi
immaginato un corteo funebre in versione spettrale.
Mille
fantasmi che chiamano nella notte: «Ti
unisci a noi, piccola? Brindavamo giusto al nostro anniversario. Tu da
quanto
sei morta? Le candele sono gli anni che ci separano
dall’aldilà. »
Lenzuoli, mi
ripetevo, non fantasmi. Ma non
riuscivo assolutamente a convincermene.
Il
cancello del camposanto, avvolto di edere rampicanti, mi ricordava in
qualche
modo l’ingresso d’un grande palazzo nobiliare
caduto in rovina.
Certe
volte mi capitava di vedere un castello al posto delle lapidi,
l’abbozzo di una
timida primavera dove sotto i miei piedi non c’erano altro
che foglie marce.
Mia
madre ed io lasciammo lì la nostra candelina. Per le dieci
di mattino eravamo
di ritorno a casa: il freddo, per quanto meraviglioso, iniziava a
compiere la
sua maledizione. Bruciava tutti. Io lo sentivo nelle ossa, sulle
palpebre. Come
se mi avessero cavato gli occhi. Era un’immagine macabra, ma
sono arrivata a
considerare che non c’è niente di più
macabro del freddo in sé. Un assassino
delicato come un’ala di farfalla.
Chi
come me è cresciuto nel Kent, potrà forse
comprendere il sentimento degli
artisti Romantici: la natura è invincibile. Ma la vita
è la forza più potente.
5
Chiusa
nella mia cameretta (salite le scale, svoltate a sinistra, è
l’ultima porta in
fondo al corridoio) il mondo assumeva la consistenza dei sogni. Era un
foglio
bianco, oltre al vetro, una commedia anni ’20 senza sonoro.
Addormentarsi era
facile quanto chiudere gli occhi e i miei pomeriggi trascorrevano
nell’inerzia
più totale.
«Zucchetta,
vieni giù! Lo vuoi assaggiare un biscotto alle mandorle?
».
In
particolare, i pomeriggi dei 31 ottobre, trascorrevano
nell’inerzia più totale
intervallata a una sana degustazione di dolci fatti in casa. Posso dire
di
ricordare ancora il piano inferiore della mia villetta, con quei grandi
mobili in
ciliegio, il divanetto rosso a due posti, la lampada di cartapesta,
quella
sciocchina della bambola spagnola, nei suoi merletti rossi, in un
eterno plié sulla
mensola della cristalleria. Ad Halloween mia madre disseminava dolcetti
in ogni
angolo.
Capitava
spesso che nei primi di novembre ne trovassi ancora: dietro la
televisione, tra
le riviste, semplicemente sotto i tappeti.
«Buonissimo
» fu il mio
commento a un ragnetto di liquirizia. La pasta nera mi si incastrava
fra i
denti e mi lasciava per ore il retrogusto dolciastro di qualcosa di
appena
assaggiato.
Prima
di essere un colore, Halloween era un sapore. E sapeva di buono, a
quanto
ricordo.
Jack-o’-lantern
(6,7,8)
6
Quando
non mi chiamava “zucchetta” mia madre mi diceva
“la sua piccola poetessa “, e
pensandoci, tutti i poeti vengono presi per sentimentalisti confusi; ma
come
accettare il cambiamento? Il ripiegarsi delle ore notturne fino al
giorno?
Lei
non raccontava di “bellezza”, le sue leggende erano
dure e dolciastre, avevano
il sapore delle candeline, il fresco dell’asfalto bagnato
sulla long grey street, ma
soprattutto avevano
quel fascino allegro e macabro al contempo, il fascino che che illumina
la
notte del 31.
Tra
tutte, la sua preferita era una leggenda irlandese.
«Zitta
e
buona, zucchetta, adesso ti racconto una storia. » Mi aveva
detto. Era verso la metà di
ottobre. Faceva freddo, ma non abbastanza perché portassimo
i cappotti
invernali.
«Che
storia,
mamma? »
L’aria
aveva il sapore caldo delle frittelle, e aveva la consistenza di un
dolcetto di
marzapane. Era da assaggiare, e il quel periodo sono stata come non mai
innamorata della vita nella sua completezza.
«Se
ne stava
in Irlanda, quel birbante di Jack. »
Iniziò, battendosi le mani fredde sulla veste di flanella.
Quando raccontava mi
pareva sempre un po’ più giovane, e sempre un
po’ più bella. I suoi occhi erano
tanto limpidi da poter figurarsi ciò che raccontava
direttamente proiettato
nelle sue pupille nerissime.
«E
che dire,
Clarissa »
-perché non mi chiamava mai, mai per
soprannome
quando raccontava - «nella
vita non faceva altro che bere e giocare d’azzardo. Ma dalle
tasche bucate
l’oro scende, e in campo a pochi anni Jack il contadino si
trovò senza un
soldo. »
Me
lo immaginavo piuttosto bene, un Jack con le guance rosse e tonde, il
nasone
schiacciato, la salopette di velluto marrone sulla camicia cobalto, con
la
pancia da bevitore accanito e l’ira facile di chi conosce il
mazziere meglio
dei suoi figli. Viva L’Irlanda! Due
boccali di scura! Un irlandese fatto e finito, insomma, con
quel pizzico di
allegro patriottismo che li contraddistingue.
Poi
l’avevo visto vagare nel buio, nel freddo limbo che
anch’io avevo conosciuto
nella long grey street, avevo
sentito
il cimitero alle mie spalle; «Bambina,
allora vieni? »
mi dicevano le anime-lenzuoli con i loro visi spenti, «accendi
le
luci: nelle case dei vivi, la morte non entra. »
Ma
la morte camminava schiva sulla long
grey, come una bestiola braccata, le candeline costeggiavano
la sua ultima
passeggiata fino al cimitero. Dalla strada fredda di acquerugiola, un
ragazzino
scoppiò a ridere. «Scherzi,
Tom? La foresta della street è
proibita. Ci sarà Jack con la sua lanterna …
».
Quella
di Jack-o’-lantern era il tipo di storia che torna a far
visita nelle notti
fredde, quando la luce è calda e pungente come la fiammella
di una candela, con
quel suo profumo di umido e di bruciato, di memorie perse nel vuoto.
Avevo
visto quell’irlandese dalla camicia cobalto zoppicare
sofferente con la sua
lanterna in mano, perso in quell’inconsistente grigio dove i rinnegati vagano in cerca di redenzione.
«Che
freddo,
mamma! ».
Mia
madre indossava una veste da camera rossa, in tono con l’oro
dei suoi capelli.
Allora mi era venuto in mente che qualche volta, solo qualche volta,
l’eleganza
sta nella capacità di sembrare bellissimi anche quando non
è possibile esserlo.
«Fa
freddo, zucchetta. Torna a casa presto. »
Poi
mi aveva lasciato un cestino e un lungo mantello.
Ci sarà Jack con la sua lanterna. L’aria
della notte mi aveva stregato.
7
So
che ora starebbe bene un “ricordo quel 31 ottobre come se
fosse ieri” … ma no,
no, io quell’Halloween non lo ricordo affatto. So solo che
l’aria aveva la
consistenza di una di quelle cartine colorate dove si avvolgono le
caramelle
alla frutta, e che un bambino di nome Tom ricorreva una Lucy streghetta
per il
Viale delle Ville.
Io
non ero propriamente mascherata, nonostante abbia un vago ricordo di
una me
stessa-vampira davanti allo specchio del soggiorno.
Immaginate
un buco nero, sul cui fondo appoggia una superficie di metallo.
Immaginate che
la pioggia cada al suo interno, che sia silenziosa, e che
s’infranga contro il
metallo. Sentite quel suono? Potete immaginarlo? Stessa cosa sono le
sensazioni
passate … allora era più novembre che ottobre, le
piogge erano torrenziali, ed
io avevo ancora le labbra dolci di cioccolata.
«Che
bionda carina. » commentò
una zucca all’angolo della strada.
«Ce lo
lasci un dolcetto? » domandò un’altra.
«Piantala,
Bob, non vedi che la
imbarazzi?! » cinguettò una con grandi
occhioni
gialli. Mia madre avrebbe detto che era una finta-innocente. Di quella
fuori
zucchero e dentro sangue (o forse era veleno?).
Poi
immaginai una colata di sangue caldo e scuro sgorgare da un luccicante
cumolo
di zucchero raffinato, e mi vennero i conati. La mia mente era capace
di
terrorizzarmi; molto di più di quanto il mondo esterno
potesse fare.
Sedute
su una scalinata – ginocchia contro ginocchia e mani sulle
mani dell’altra –
due
bambine-bambole
si spartivano i dolci che avevano raccolto.
«Cynthia!
Dai, lo sai che le caramelle alla menta non mi piacciono! »
stava
dicendo quella rossa, quella con le labbra cucite e gli occhioni da
manga.
Cynthia – che presumo fosse quella con la parrucca viola
– era scoppiata a
ridere: «Beh,
non piacciono neanche a me. Ma dovremo sperimentare nuovi sapori, che
dici? ». Provai
una vaga sensazione di dolore, e non di certo per la questione delle
caramelle
alla menta.
Dovevano
essere amiche, quelle due, come lo eravamo state io e Luna –Lunetta- Wilson prima che
partisse.
Ogni
tanto penso a lei, e ai pomeriggi che passavamo insieme, a quei suoi
grandi
occhi scuri e obliqui che d’inglese non avevano niente. Penso
a quelle volte in
cui diceva: «uffa,
Clary, odio il freddo»
e penso a come si stia divertendo nel caldo verde e pulsante della
foresta
messicana.
In
quel momento avevo solo voglia di lasciar perdere tutto e correre da
loro.
Avrei detto: «A
me le caramelle alla menta piacciono»
e saremo diventate amiche.
Una
parte di me però non me lo permise; e io continuai la mia
passeggiata solitaria
verso la long grey.
Ecco
un’altra goccia di pioggia sul metallo: un forte odore di
bruciato mi salì alle
narici, e mi colmò gli occhi di lacrime. Nella soffice luce
di un lampione, la
cenere danzava come neve d’inverno.
Quando
mi voltai, le zucche all’angolo della strada avevano assunto
uno sguardo timido
e sul campo del Viale delle Ville sei ragazzini danzavano feroci
intorno al
fuoco.
Mi
venne in mente una storia che mia madre mi aveva raccontato e i ragazzi
si
trasformarono in diavoli, diavoli con il forcone e con le corna. La superstizione è vecchia quanto la
vita
stessa.
Così,
in quella notte, con il falò che pian piano perdeva contorno
sotto le lacrime
che mi annebbiavano gli occhi, ricordo che rimasi molto colpita da
quell’immagine e dal significato che poteva assumere. Era
quello – quello –
l’istinto animale, quell’essere selvaggi,
in qualche modo prettamente umano, ad affascinarmi.
Come il fascino del fuoco. Attenta che brucia! Mi avrebbe detto la
ragione, ma per una volta – forse la prima nella mia vita
– non l’avrei
ascoltata.
«Ciao,
piccola! »
una ragazza – che nella mia testa poteva avere dodici anni
come venti – mi
lanciò contro qualcosa di indefinito. Era magrissima, ed era
bella, avvolta in
lungo costume grigio attillato, con il viso così pieno di
pezzetti di metallo.
Il fuoco le riverberava addosso rosso e scuro e sanguinante e mi
accorsi con
non poco stupore che il suo volto non era altro che denti, che labbra,
che un
immenso sorriso un po’ folle e un po’ meraviglioso.
Abbassai
lo sguardo sul marciapiede, dove la cosa che mi aveva lanciato era
atterrata.
Per qualche secondo, rimasi stupita: sollevai quella che doveva
inequivocabilmente essere una bustina di caramelle. Era un
po’ incenerita e
sapeva di ferro e fuoco. Me la infilai in tasca.
Nella
mia testa, la ragazza in grigio assomigliò prima a una ninfa
bianca, poi a una
strega. E pensandoci dopo, a mente lucida, forse era solo una ragazza
gentile.
8
Dopo
il falò ci furono le villette a schiera del secondo viale, e
i bambini che
facevano trick-or-treat. Avrei
dovuto
farlo anch’io, avrei dovuto bussare a una porta e aspettare
che mi aprissero.
Poi avrei urlato: «Trick-or-treat ? » e avrei
ricevuto una manciata di dolci. «Thanks » e poi: «You’re welcome»
e sarebbe andato tutto come doveva andare.
Così
fanno i bambini. Così facevano Cynthia-&-Amica, che
dovevano aver risolto
la questione delle caramelle alla menta.
Ma
nel mio cestino c’era solo la bustina di caramelle (quella
che mi aveva
regalato la ragazza in grigio) e non ci fu nient’altro per
tutta la serata. Uno
strano fresco salì dalla terra, dal fondo buio del viale.
Cominciai a correre
senza un apparente motivo.
All’incrocio,
il secondo viale proseguiva per molti metri ancora. Se fossi andata
avanti,
probabilmente sarei arrivata al terzo settore di villette e di
conseguenza ad
altri bambini che reclamavano caramelle. Invece svoltai a destra e
finalmente imboccai
la long grey street, altrimenti
conosciuta come il luogo dell’eterno autunno.
Alla
mia sinistra c’era il bosco, fitto e nero come lo ricordavo,
il bosco degli
impiccati e delle ninfe-usignolo, quel bosco di cui il bambino aveva
parlato: «Scherzi,
Tom? La foresta della street è
proibita. Ci sarà Jack con la sua lanterna … ».
Io
non scherzavo, e non ero Tom. Ma quella frase, udita così
per caso, sembrava
stranamente rivolta a me. Pensai alle zucche, a Bob e a Occhioni
Gialli, ed
ebbi improvvisamente paura.
Paura
di Jack, della sua lanterna, paura delle zucche, della foresta, della long grey street e del cancello del
cimitero che mi scrutava dal fondo della strada.
Alla
mia destra il bosco si diradava, i grandi pioppi si trasformavano in
arbusti,
le piccole radure erbose in squarci di brughiera. Lì la luna
splendeva come una
lanterna. Mi vennero in mente quei
racconti di mia zia, le Highlands scozzesi
dove il cielo era livido e i rintocchi delle campane scandivano ore di
mille
minuti ognuna, le infinite ore della notte.
Su
entrambi i lati le candeline avevano qualcosa di meraviglioso e di
terribile
insieme; imprigionate nella cera, le fiammelle –
così sante, così sacre –
assumevano per una volta all’anno il peccaminoso sapore
dell’uso pagano.
Pregai
il vento che non le spegnesse. Nelle case
dei vivi la morte non entra era la conclusione della storia
di Jack (o
forse era quello che dicevano i morti?) non
spegnere la luce. E io non avevo alcuna intenzione di farlo.
Avanzai
per qualche metro ancora. Il cancello del cimitero era scintillante,
color
argento sotto i raggi della luna. Una piccola radura d’un
verde sorprendente
precedeva le prime lapidi. Immaginai che sotto quella terra smossa e
ghiaiosa
stavano le bare, e dentro le bare le ossa, e la polvere.
Poi
immaginai le persone, e al fatto che erano state in vita, alle persone
che
magari erano nate nell’Ottocento, addirittura due secoli
prima di me. Immaginai
a come avevano vissuto, nei loro costumi d’epoca, a quelle
foto bianche e nere
che sembrano foto di attori, dove la gente non sorride mai e gli uomini
stanno
nei loro vestiti eleganti, col sigaro in bocca, le donne con le lunghe
vesti.
Immaginai una bambina, che invece d’esser nata nel 2002 era
nata nel 1902 e a
come doveva sicuramente indossare quei calzini bianchi fino alle
caviglie, e le
scarpette di vernice, i cerchietti per capelli e i vestitini col
fiocco, che
lasciavano scoperte le ginocchia ossute. Sulla lapide c’era
una sua foto,
magari, con la pelle secca e incartapecorita, i boccoli bianchi e un
po’ unti
che si intrecciano dove posano le stanghette degli occhiali.
E’ morta prima di
vedere il duemila.
Immaginai
che in quelle bare, lì sotto terra, stava quella gente che
era nata e che era
morta, e mi venne una fitta al cuore. Mi avvicinai correndo e potei
scorgere la
foto di un bambino con i capelli tagliati tutti pari; ebbi voglia di
accarezzare quei capelli perché sulla lapide c’era
scritto 1923 – 1928 e quel
bambino era più piccolo di me e tremava di freddo nella sua
bara.
Mi
tornò in mente la Ragazza Sorridente, quella che era come
una strega sul rogo,
e le mie dita cercarono il pacchetto di caramelle nella fodera interna
nel
giubbotto. Doveva arrivarmi alle ginocchia, allora; tremavo dal freddo,
ed ero
lo stelo di un fiore in un sacco di iuta.
Ma
tornando a noi … c’era un uomo,
all’imboccatura della long grey
street. Indossava un paio di pantaloni di velluto beige,
e sopra le bretelle e una camicia cobalto che tendeva sullo stomaco.
Sembrava enorme, con la luna alle
spalle, e ancora
più enorme era la sua ombra, lunga e nera come uno scheletro
nella nebbia fitta
della notte. «Va’
via! Sciò! Questo non è posto per bambine!
»
In
mano, dove avrebbe potuto tenere un coltello come una scatola di
cioccolatini,
teneva una lanterna.
«Mi
hai
sentito?! Su, vai a giocare con gli altri bambini …
»
S’interruppe, e mi accorsi che stava singhiozzando, nella
grottesca imitazione
di una risata. «Capito,
eh? Qui disturbi gli spiriti! »
Non
ricordo precisamente cosa accadde dopo. Ma dalla luna iniziò
a colare sangue,
che toccando terra si trasformava in zucchero, Bob e Occhioni Gialli
saltellarono lontano dal loro angolo nel Viale delle Ville, le
candeline si
spensero e l’ultima luce che rimase fu quella della lanterna
di Jack. Sentivo
come se mi avessero spinta in una vasca d’acqua gelida, e
come il freddo mi
penetrasse a fondo in ogni millimetro del mio corpo. Poi fu il momento
delle
scosse elettriche e delle tempeste di tuoni e fulmini. Il rumore era
così forte
da ferirmi nell’interno, tanto da lasciarmi minuscola e
tremante come un
insetto rannicchiato al suolo e calpestato a morte. Sulle spalle
dell’uomo,
dove dovrebbe normalmente poggiare la testa, c’era una grande
zucca che non
riconobbi né come Bob né come Occhioni Gialli.
Dal taglio obliquo inferiore si
intravedevano i denti, sopra il naso, ancor sopra – dove
sarebbero dovuti
brillare gli occhi – stavano due enormi tizzoni ardenti,
caldi e rossi, il dono
che Jack aveva ricevuto dal Demonio, il fuoco preso
dall’inferno. Era come se
fossi io la strega, il mostro, l’anima rinnegata, era come
affogare in un
incubo e non poterne uscire. Così presi ad annaspare, e
forse urlai e piansi
davvero, di quella lontana notte del 31 ottobre posso forse dire di
ricordare
davvero solo la luna, sfolgorante nel cielo come un nuovo sole freddo.
November
first (9)
9
Mi
svegliai che ero nel mio letto, e il caldo mi avvolgeva come una
carezza
soffice, lo sentivo sul viso e sulle braccia come se la polvere di
Morfeo
posasse ancora sul mio corpo. Come prima cosa avvertii una fitta di
dolore al
ginocchio sinistro; mi voltai nel letto facendo leva sui gomiti. I
capelli mi
si aprivano intorno al viso come una corolla di margherita,
così leggeri,
chiari e profumati sul cuscino: eppure, sentivo ancora la cenere calda
scottarmi il viso.
«Zucchetta!
» Mia madre
entrò in camera portandosi dietro una folata calda di odore
di latte e
brioches, «che
mi combini? Non la smettevi di urlare, sta notte » sorrise,
ed era così diversa vestita
in tailleur e col giro di perle al collo, così diversa da
com’era la sera
prima, con i capelli sciolti e la veste da camera. Vidi quasi Bob farmi
l’occhiolino, e Occhioni Gialli ridere civettuola: la fitta
di dolore passò dal
ginocchio alla testa, e il mio sorriso si trasformò in una
smorfia.
«Che
è
successo? »
domandai, «sono davvero svenuta?
»
Mia
madre mi guardò con qualcosa che avrei quasi definito
compassione e a me venne
da piangere. «Mamma!
»
- cercai il suo corpo con le braccia - «non
voglio più che sia Halloween! Ieri notte ho fatto mille
incubi! »
Nell’intreccio
di braccia, visi e capelli che eravamo, intravidi il sorriso di mia
madre: «Come dici
tu, solo incubi. Non sei affatto svenuta, zucchetta. Ieri sera faceva
freddo, e
tu non devi esserti sentita troppo bene. L’anno prossimo ti
porto in Scozia,
d’accordo? E poi, che ne sai, per il prossimo 31 ottobre
magari Lunetta si sarà
stancata del Messico … »
Lì
per lì pensai che avesse ragione, e che, dopotutto,
Halloween era ancora lontano;
i ricordi della notte precedente finirono tra gli incubi da dimenticare
ed io
tornai a dormire, con mia madre seduta sul bordo del letto. Al di
là della
finestra, il mondo era ancora un foglio bianco senza sonoro, con la
sola
differenza che adesso la mia testa era lontana migliaia di chilometri,
in
particolare nella foresta messicana, e le miei mani stringevano quelle
di Luna;
fuori da qui il cielo era freddo, ma non c’era né
fuoco né ghiaccio – e mai più
ci sarebbe stato – che potesse impedirmi di sognare.
Epilogo - 1
novembre 2015
Così,
mentre la luce è una costante sulla brughiera che cambia e
non cambia mai
troppo, e le mie dita congelano lentamente appoggiate contro il vetro,
i miei
ricordi scivolano indietro e mi colmano gola e cuore, aggiustano quelle
promesse infrante, mi portano in quei luoghi della mia infanzia che
ricordo con
una certa partecipazione emotiva, e una certa malinconia. Mi viene in
mente,
con quella che si dice “ironia amara”, della febbre
orribile che ho avuto
nell’ottobre 2012, quei tre giorni passati ad annaspare nel
letto, immersa nei
deliri, e come di conseguenza non sia andata in Scozia né
abbia rivisto Luna
Wilson tornare dall’altro capo dell’oceano. Dietro
i finestrini del treno, il
mondo scorre veloce e non mi dà possibilità di
osservarlo come in realtà
vorrei: il lago, i fiumi che scivolano attraversando le campagne, il
sole che
lentamente tramonta lasciando posto a una sera fresca come una carezza.
Tempo
due ore e vedrò le Highlands –
e
finalmente potrò dire di non averne solo sentito raccontare
– sarò tra le
braccia di mia zia e sentirò le sue leggende. Mia madre
continua a dire che ho
sognato, in quella notte lontana, che è stato un incubo e
che tale rimarrà per
sempre. Però ogni tanto la vedo sedersi sul bordo del mio
letto, mentre fingo
di dormire, sento le sue mani delicate accarezzarmi i capelli e divento
consapevole che ognuno ha le sue debolezze e
che spesso ciò in cui si dice di credere non
è quello che si crede veramente.
Non
chiedetemi perché, ma io so di non aver solo sognato.
Ogni
Halloween scivola come uno strato di nebbia sempre più
sottile sulla mia anima
– dove non si coglie la magia non si coglie neppure la paura
– e la
disillusione è più dolorosa di un incubo, il
non-credere ferisce più di un
credere sofferto.
Vado
al bar del vagone, ordino un tè e lo porto a mia madre. Sta
dormendo, e una
ciocca di capelli biondi – ma mai quanto i miei –
le ricade davanti alla
fronte. Le appoggio il bicchiere bollente sulla guancia e lei si
sveglia
all’improvviso. Adesso sono io la madre, e lei è
la bambina, è piccola come un
fiore sul sedile del treno.
«Ben
svegliata »
«Cielo,
Clary, un giorno di questi mi farai morire » dice, e penso
con una certa tristezza
che vorrei ricordarla così per sempre, più
giovane di almeno trent’anni, con il
sorriso ribelle di chi scappa lontano, e gli occhi seri di chi promette
che
resterà per sempre.
Poi
sorrido, cerco con le dita il pacchettino di caramelle nella fodera del
giubbotto. Le unghie affondano nella plastica, facendola sfrigolare, le
fragoline zuccherate sono dure dopo tutti questi anni. Penso che un
giorno
vorrò tornare nella casetta che abbiamo venduto, vicino alla
long grey street che è
stata il parco
giochi della mia infanzia, accarezzare ancora i merletti rossi
dell’abito
spagnolo della bambolina (adesso stipata in uno scatolone fra le altre
cose) e
chiudere gli occhi, finalmente, come quando ero bambina e avevo paura
del buio,
pensare alla mia vecchia filastrocca: ora
andrà tutto bene, e così sarà
finchè l’incantesimo dura. Quando
aprirò gli
occhi sarà sorto il sole, e non ci sarà
più alcuna notte di cui avere paura.