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Autore: Persej Combe    20/01/2016    3 recensioni
Ho passato intere giornate a chiedermi che cosa fossi, nascosto nel mio angolo buio e incapace di vedermi. Anche se non potevo guardarmi, me lo sentivo addosso che non ero più io, che mi ero trasformato in qualcos’altro: un’accozzaglia di pezzi incastrati tra loro che formavano un nulla, di ricordi frammentati nel mio cervello che neanche riuscivo a percepire con chiarezza. Il mio corpo... Il mio corpo non esisteva e lo rivolevo indietro a tutti i costi pensando che avrebbe determinato una volta per tutte la mia vera natura! Ma forse, che sciocco, un corpo non significa nulla... Eppure ancora non ho trovato una risposta. Guardami: che cosa vedi? Un uomo? Un mostro? O forse l’opera prediletta plasmata da un dio folle?
~~~
E se Elisio fosse riuscito a utilizzare l'arma suprema?
Aggiornamenti estremamente irregolari
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Calem, Elisio, N, Nuovo personaggio, Serena
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Videogioco
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- Questa storia fa parte della serie 'Fragmenta'
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IV
(Es)senza 

  Non appena varcò la porta dei laboratori, Xante, seduto alla postazione di controllo più elevata della stanza, sollevò lo sguardo su di lui. Lo attese in silenzio, scrutandolo mentre il ragazzo camminava a passo svelto in mezzo alle file di banchi e di computer a cui gli altri compagni stavano lavorando.
  René giunse di fronte alla robusta colonna di metallo sulla cima della quale lo scienziato dagli occhiali rossi continuava a fissarlo. Piegò il busto in avanti, salutò il superiore con riguardo.
  Nel laboratorio informatico non vi era altro rumore che quello delle dita degli impiegati che battevano sulle tastiere senza sosta, imperterriti, come automi senz’anima programmati per svolgere unicamente quella funzione. Dagli schermi luminosi proveniva una luce fredda, artificiosa.
  Il ragazzo si tirò in piedi, guardò Xante e attese che gli venisse dato il permesso di rivolgergli la parola.
  «Come posso aiutarti, giovanotto?» chiese allora l’uomo, parlandogli dall’alto. Sembrava non avesse intenzione di scendere da lassù per comunicare con lui faccia a faccia, come si fa tra uomini comuni, quasi provasse fastidio nell’abbassarsi al suo livello.
  «Ho bisogno di riferire ad Elisio gli ultimi sviluppi del progetto. Ho riscontrato un problema e vorrei discuterne con lui», rispose il giovane.
  «Capisco. Quindi eri venuto qui per cercarlo, immagino?» a questo punto René udì come una risata sarcastica «Mi spiace che ti sia dovuto fare tutta questa strada, ma Elisio non c’è. Sai... è quell’ora».
  Solo a quel punto Xante mosse i propri passi verso la scalinata che avvolgeva la postazione per discenderne. Tuttavia lo fece con lentezza, come per beffarsi del tempo che quello sprecava a stare impalato là davanti. Giunse di fronte al ragazzo e lo osservò.
  La tinta rossastra sui capelli aveva cominciato a schiarirsi e René aveva abbandonato ormai da tempo la caratteristica capigliatura del gruppo. In qualche punto si potevano scorgere dei ciuffi risplendere del loro colore naturale, biondi, limpidi: essi si avvolgevano in boccoli scomposti e ricadevano leggeri sulle spalle.
  «Posso vedere il progetto?» domandò l’uomo.
  Il giovane annuì e porse la pen drive senza porre troppa resistenza. Xante la collegò ai suoi occhiali e studiò sulle lenti il lavoro che il ragazzo aveva organizzato.
  «Notevole», ammise dopo qualche minuto «Davvero notevole».
  Gli restituì la chiavetta e si informò riguardo al problema che diceva di aver riscontrato. Su quel punto René fu più restio, ribadì diverse volte che preferiva parlarne con il capo in persona.
  «È difficile che ti riceva in colloquio in questo momento» tentò quindi di convincerlo Xante.
  «Allora aspetterò che ritorni dalla sua ora di raccoglimento».
  «Finiresti soltanto per sprecare del tempo prezioso: Elisio ha molti impegni, come potrai immaginare, non può permettersi di venir meno ad uno qualsiasi di essi. Coraggio. Di’ pure a me».
  René resistette ancora per un paio di minuti, ma poi si vide costretto a cedere: contro Xante le probabilità di averla vinta erano sempre decisamente scarse.
  «Il portale d’accesso della Zona Est risulta gravemente danneggiato», disse «Se i quattro portali dei Settori Nord, Sud, Est e Ovest non dovessero essere correttamente funzionanti non sarei in grado di sincronizzarli e la barriera potrebbe risultare inefficace a qualsiasi tipo di attacco. Ho bisogno che venga riparato al più presto».
  «D’accordo. Farò in modo che venga sistemato il prima possibile».
  «Intendo comunque parlarne con Elisio».
  Le labbra di Xante si incurvarono in un sorrisetto affettato. Guardò René in quei grandi occhi color ambra, in quei grandi occhi fanciulleschi ma del tutto disincantati: dalla determinazione impressa in essi Xante capì come mai Elisio stesse facendo così tanto affidamento su di lui. Annuì, riconoscendo la sua intelligenza e il suo valore.
  Questo tuttavia non implicava che dovesse provare simpatia nei suoi confronti. Al contrario, René cominciava a identificarsi come un pericolo concreto per la sua posizione: se si fosse avvicinato troppo ad Elisio, sarebbe stato un rischio piuttosto alto. Sapeva che il capo aveva iniziato a nutrire certi sospetti nei suoi confronti e che probabilmente prima o poi avrebbe deciso di rimpiazzarlo. Ma Xante teneva troppo al suo posto e ai suoi agi e non avrebbe mai permesso un tale avvicinamento tra i due: nessuno sarebbe mai stato in grado di scavalcarlo.
  «Bene, allora, fa’ come vuoi!» fece l’uomo quasi in tono di scherno «Sappi comunque che non è una saggia decisione, soprattutto con quella addosso» e dicendo questo indicò con un dito la vecchia uniforme rossa che René ancora portava: Elisio da qualche settimana aveva categoricamente ordinato che venisse eliminata, sebbene il motivo di questa sua decisione non fosse chiaro a nessuno «Certo è inutile che ti dia dei consigli: se vorrai andare avanti, scoprirai tu stesso ciò che ti aspetta».
  Poi Xante si ritirò, e René si ritrovò solo lungo la via per raggiungere le stanze del suo superiore.
 
  Gli appartamenti di Elisio si trovavano in una zona isolata rispetto al resto del quartier generale. Il capo si era assicurato che attraverso la loro posizione gli fosse garantita la massima riservatezza. Il ragazzo percorse un lungo corridoio le cui pareti laterali erano occupate da delle grandi finestre. Oltre di esse, fuori vide un gruppo di compagni intenti a lavorare la terra bruna e polverosa per piantare alcuni degli esemplari che erano stati conservati nella serra. Eppure, si chiese, ciò che sarebbe nato dal suolo attorno a loro sarebbe mai stato all’altezza della grandiosità della serra di Elisio? Salì una scala i cui gradini parevano non finire mai. Ed ecco, dopo molta fatica era finalmente giunto di fronte al portone delle stanze del capo. I petali sul simbolo del giglio che campeggiava sulla sua cima parevano districarsi come un’edera che avvolge e copre tutto.
  Suonò il campanello. Dopo poco una possente voce proveniente da un altoparlante parlò: «René».
  «Le chiedo scusa per la mia irruzione improvvisa, Elisio. So che al momento è occupato, ma c’è qualcosa di cui dovrei informarla riguardo al progetto».
  «C’è qualche problema?».
  «Sì. È piuttosto urgente».
  Ci fu un lungo silenzio. René si domandò se il capo lo avesse abbandonato lì, declinando in questo modo la sua richiesta.
  «Ho capito». un attimo prima che il ragazzo stesse per indietreggiare e andarsene, Elisio riprese a parlare, il portone si stava aprendo «Entra. Al momento ho un affare da sistemare, aspettami nell’atrio. Ti raggiungerò tra qualche minuto».
  René annuì, fece un leggero inchino: sapeva che l’uomo lo stava osservando attraverso qualche telecamera nascosta. Entrò e subito dopo il portone si richiuse dietro di lui.
  La cosa che più lo sorprese fin da subito fu la vastezza dell’atrio. Era una bella sala ampia, illuminata da diverse luminarie che ne facevano risaltare i colori caldi e accesi. In essa c’erano diverse sculture dalle forme più varie e dipinti. Al centro della stanza, in una teca di vetro, era custodito un antico vaso i cui disegni suggerirono a René che provenisse da qualche lontana regione di Kanto.
  Per un attimo sentì un dolore nel petto ricordando le origini dell’amico che gli era stato tanto caro.
  Julien era nato a Kalos, ma i suoi genitori erano originari di Kanto. Diverse volte si era divertito a raccontare a René qualche storia sulle sue tradizioni. Nonostante si trovasse lontano, era sempre stato molto legato alla cultura di quella regione. Durante il periodo della loro adolescenza in cui si erano persi di vista, Julien vi si era trasferito con l’intenzione di conoscerne più approfonditamente le usanze, per sapere come erano il mondo e la vita. Aveva fatto amicizia con Bill l’inventore, il quale era stato molto contento di poter osservare l’esemplare di Sylveon che il ragazzo aveva in squadra, all’epoca da poco scoperto dal Professor Platan. I due ragazzi avevano stretto un forte legame e avevano studiato assieme per qualche tempo.
  «Hai perso il tuo Julien, eppure continui a lavorare per me su quel progetto», aveva detto una sera Elisio a René, mentre erano affacciati ad uno dei balconi della colossale struttura del quartier generale ad osservare i resti della vecchia civiltà «Avresti anche potuto rifiutare la mia offerta, ma non lo hai fatto. Immagino quanto tu possa provare rabbia per tutto ciò che è derivato dal mio piano, per il mondo che sto tentando di creare. Eppure, non riesco a capire. Perché se lo odi ti stai ostinando ad accrescerlo tu stesso?».
  «Perché non voglio che anche gli altri facciano la stessa fine di Julien. Non voglio che anche gli altri muoiano per l’odio e il dolore che tu hai generato in noi e nei ribelli. Loro non lo meritano – nessuno lo merita. Io sto solo tentando di proteggere ciò che posso».
  Delle volte accadeva che, preso dalla rabbia o da qualche sentimento del genere, René scordasse di rivolgersi ad Elisio con un registro formale e usasse un tono più confidenziale, per quanto aspro potesse tuttavia suonare.
  I fiori di ciliegio dalle sfumature rosee dipinti sulla superficie di porcellana gli fecero venire in mente la tanto vociferata sala delle opere d’arte che Elisio custodiva con cura. Venne preso dalla curiosità: le opere che vi erano conservate all’interno erano davvero così belle come si diceva in giro?
  Si guardò attorno.
  Il capo pareva non essere nei paraggi e, dal modo in cui gli aveva parlato poco prima, sembrava che non sarebbe giunto molto presto.
  Sapeva di star commettendo un grave errore, eppure non riusciva a sottrarsi a quel desiderio.
  Si trattenne per qualche secondo, quando ancora la coscienza aveva potere sulle sue azioni, poi si avviò verso il corridoio che portava al resto delle stanze. Attraversò velocemente una sorta di cortile interno e sentì addosso il vento freddo d’autunno che spirava dalle larghe finestre. Quando giunse dal lato opposto il calore lo accolse di nuovo e si ritrovò di fronte ad una sfilza interminabile di porte.
  In quel luogo ogni cosa pareva immensa e senza fine.
  Affrettò di poco il passo, sbirciando quando poteva l’interno delle stanze, con il cuore in gola al pensiero di poter essere scoperto dal capo. Ogni volta che apriva leggermente una porta, un brivido gli percorreva la schiena nel timore di poter incontrare lo sguardo gelido di Elisio oltre di essa. Erano passati diversi minuti e René stava perdendo le speranze, mordendosi le labbra e maledicendosi in continuazione per essersi fatto trascinare laggiù da un sentimento così sciocco, ma ecco che all’improvviso trovò la sala che stava cercando. Essa si trovava tra le ultime del corridoio, posizione strana, si disse il ragazzo, come se Elisio avesse voluto tenerla lontana da tutto e da tutti, nel timore che forse, in qualche modo, si sarebbe potuta contaminare con la vicinanza a quella realtà terrificante che aveva creato.
  I muri della stanza erano dipinti di un leggero color pesca, molto delicato e gradevole per l’occhio.
  A destra, in una delle pareti, vi era una lunga porta finestra che dava su un piccolo balcone. Il paesaggio che si poteva vedere da lì era incredibile: gli appartamenti di Elisio erano talmente in periferia da arrivare oltre i confini di Cromleburgo e si innalzavano sopra un ampio promontorio che si stendeva verso il Mare del Nord. René aprì timidamente la finestra e si sporse di fuori per qualche istante.
  Il forte vento scuoteva le acque facendo crescere le onde che si abbattevano le une sulle altre scrosciando e schiumando. Il mormorio che producevano era meraviglioso, intriso di potenza, forza e amarezza. Il cielo tinto di un lieve grigio si rifletteva sul mare, accendendolo di tonalità tiepide e fredde. Nell’aria si mischiavano i profumi della salsedine e della sabbia, l’odore di bruciato tipico del quartier generale era appena percettibile, quasi inesistente. Non c’era alcuna traccia di mano umana ed ogni cosa nell’insieme era governata con impeto dalla vitalità costante della natura. Sull’orizzonte si era posata una leggera foschia, e in lontananza, avvolti in essa, si potevano scorgere degli isolotti disabitati e spogli.
  Era un’immagine molto suggestiva e a René sarebbe bastata quell’unica visione per accontentarsi dell’incredibile bellezza di quella stanza. Rientrò e richiuse con cura la finestra stando attento a non lasciare alcuna traccia che suggerisse il suo passaggio. Era già deciso a tornare sui propri passi quando all’improvviso lo colse una sottile angoscia.
  Ad avergli provocato quella sensazione era stata la visione del tutto involontaria e accidentale della parete opposta. Vi era infatti su di essa qualcosa di strano e di insolito, che dava come l’impressione di non appartenere affatto a quel luogo: un armadio. Sulla sua superficie si riversavano in modo inquietante le ombre delle inferriate della finestra, che distorte dalla luce si disponevano a formare una croce.
  René si portò una mano al petto per acquietare i battiti del suo cuore e rassicurarsi di quello spavento improvviso. Cominciò a percorrere lentamente la stanza per avvicinarsi a quel mobile e osservarlo meglio.
  Perché mai mettere un armadio in una sala adibita esclusivamente all’esposizione di oggetti?, si chiese. A meno che non fosse stato il mobile stesso un’opera d’arte, cosa assai poco probabile, gli sembrava decisamente strano. Un armadio è fatto per riporvi degli oggetti all’interno, rifletteva. Se si ha intenzione di mostrarli, le ante dovrebbero rimanere aperte. Se le si lascia chiuse, invece, è perché ciò che è dentro lo si vuole nascondere o privare alla vista di qualcuno.
  René tremò.
  Lentamente cominciava a intuire di che cosa potesse trattarsi e aveva paura. Sarebbe dovuto tornare indietro, lo ammonivano mille voci nella sua testa in tono perentorio: via, presto, scappa! Scappa, prima che il leone ti scovi e ti divori! Scappa, o le tele e i tappeti si macchieranno del tuo sangue!
  Ma, santo cielo, come poteva ritirarsi proprio in quel momento? Come poteva voltare le spalle di fronte ad una così straordinaria occasione? Il tesoro di Elisio, il suo segreto, la sua verità più intima e indicibile! Venisse pure la bestia, lo squartasse con le unghie e con i denti, lui aveva ormai trovato l’arma, il suo veleno, l’avrebbe ricattata e vinta una volta per tutte!
  Un brivido lo scosse a quel pensiero di superiorità nei suoi confronti, la testa gli girava. Come si sentiva forte, adesso, come si sentiva invincibile!
  Mano a mano che si avvicinava, vedeva più distintamente i particolari del mobile: la struttura sembrava assai antica, tuttavia le condizioni del legno e dello smalto che lo ricoprivano suggerivano che fosse stato restaurato di recente. La sua superficie era intagliata con precisione e finemente ed anch’essa sembrava che fosse stata lavorata da poco, forse qualche settimana. Visto da vicino, in effetti, per quanto ricco di dettagli, quell’armadio poteva davvero assomigliare ad un’opera d’arte. Sembrava come se Elisio avesse versato una cura affettuosa e tenera nella sua realizzazione: ciò che conteneva doveva essergli molto caro.
  René tremava ancora. Esisteva davvero un quadro o una statua dalle forme perfette capace di celare l’immortalità? Era un pensiero così assurdo, eppure in quel momento si ritrovò quasi convinto che una cosa del genere potesse essere reale, mentre aveva sempre accolto con scetticismo le voci e i bisbigli dei compagni. Che se ne faceva Elisio della vita eterna? Esisteva davvero? O forse era qualcos’altro parimenti importante? C’è qualcosa di più vitale della vita stessa? Di qualsiasi cosa si fosse trattata, comunque, gliel’avrebbe sottratta senza pietà.
  Ad un tratto si fermò. Immobile di fronte all’armadio aveva percepito una presenza silenziosa. Osservò intensamente le ante di legno, lo sguardo fisso e le membra tese. Non era solo.
  Indietreggiò di un passo, intimorito. Elisio era lontano, non era sua la presenza che aveva sentito al proprio fianco.
  Doveva essere solo, ma non poteva essere solo.
  Si accorse di un rumore che riempiva la sala. C’era sempre stato, eppure lo udiva soltanto ora.
  Era un ronzio sommesso, come di un macchinario. No, anzi! Pareva più... un respiro? Un respiro! Un lungo e interminabile sospiro! Un soffio carico di tristezza e dolore, di rabbia incontenibile.
  Li riconobbe come i sentimenti di Elisio e i propri, e in un certo senso come quelli di tutti gli altri. Era come se si trovasse di fronte all’umanità intera, impaurita e confusa dall’apocalisse, da un presente senza più un passato e un futuro, senza più un’identità. Era­ un’umanità talmente umana da apparire quasi disumana per ciò in cui si era tramutata l’umanità in quel momento.
  E questo, invece, cos’era? Coglieva adesso un’altra sfumatura in quel sospiro senza colpa. Speranza? Gioia? Tenerezza?
  Amore?
  Oh, come aveva potuto dimenticare simili sentimenti? Gli sembrava di non averne mai provati, eppure eccoli che rifiorivano tutti insieme dentro di lui! Ma cos’era, cos’era ciò che Elisio nascondeva dentro quell’armadio, talmente forte da avergli suscitato una così grande commozione? Vide un fioco bagliore provenire dalla fessura centrale del mobile e fremendo si spinse in avanti per spalancare le ante, ma l’imponente mole di Elisio, appena giunto nella stanza, si frappose all’improvviso fra lui e l’oggetto, bloccandogli la strada. Il rosso lo scrutava dall’alto con sguardo severo e iracondo, e René lo osservava con sconcerto, sentendosi minuscolo e insignificante, del tutto incapace di opporsi alla violenza dei suoi occhi. Il suo corpo possente era un muro invalicabile, una barriera inattaccabile. Scappa, René, corri! Veloce o la bestia ti ucciderà!
  L’uomo fece un passo in avanti, alzò il mento con fare ostile.
  «Perché sei venuto qui?» disse, la voce grave e cavernosa.
  «Io...» tentò di giustificarsi, ma l’altro lo bloccò prima che potesse dire altro.
  «Non avevi il permesso di venire qui. Non ne avevi il diritto». lo aggredì freddamente «Che cosa pensavi di fare?».
  L’uomo attese che il ragazzo gli desse una risposta, benché già sapesse quale fosse. Poggiò le dita di una mano sull’armadio e osservò la fessura per qualche attimo, come per assicurarsi che ogni cosa fosse al suo posto.
  René, nonostante fosse allarmato per il fatto che Elisio lo avesse colto con le mani nel sacco, sentiva ancora forte il desiderio di sapere che cosa fosse nascosto oltre quelle ante.
  Guardava l’uomo e nel suo gesto vi scorgeva una nota protettiva. Il suo sguardo gli dava una strana impressione. Esso era intenso e rassicurante; tuttavia, non appena Elisio si voltò verso di lui, mutò, si fece rabbioso, violento. Eppure - oh, era così strano! - sembrava che quella ferocia non servisse ad altro che a far da scudo ad una paura.
  L’uomo fissò il ragazzo dritto negli occhi, in silenzio, quasi digrignando i denti.
  «Perché indossi ancora la vecchia uniforme?» sibilò «Ti ho ordinato più volte di distruggerla, di farla sparire, non sono stato abbastanza chiaro, forse? René, rispondimi!».
  Elisio avanzava, come a volerlo allontanare da lì, e il giovane era costretto a indietreggiare. Avevano percorso metà della stanza e René ancora non aveva dato una risposta. Avrebbe voluto dire che un cambiamento del genere gli sembrava inutile e superfluo, che un’altra uniforme non avrebbe certamente reso il suo operato migliore, o che non avrebbe affatto sanato l’orrore di quel luogo, che non serviva a nulla, che si trattava solamente di un suo sciocco capriccio estetico. Ma era ben conscio del fatto che in questo modo non avrebbe fatto altro che accrescere la sua rabbia, così tacque.
  Elisio alzò il braccio, tese il dito indicando la porta.
  «Vattene. Vattene!».
  Il ragazzo corse via, oltrepassò il corridoio e il cortile senza guardarsi indietro, sentendo ancora nelle orecchie le grida dell’uomo e addosso il suo sguardo freddo e penetrante. Il portone si aprì, lui uscì senza fermarsi. Scendeva le scale velocemente, con il cuore in gola, ancora turbato, desiderando di allontanarsi da lì il più presto possibile. Di una cosa tuttavia era orgoglioso: aveva scovato il punto debole di Elisio.
 
  Si rigirava tra le mani la spilla che Xante le aveva donato la notte prima. Di tanto in tanto ci passava un lembo dell’abito sopra in modo da lucidarla, poiché quell’oggetto era talmente prezioso che non lo si poteva rovinare. Si era rintanata in un angolo appartato della grotta, solitaria, e osservava con attenzione i superstiti che si erano affaccendati dall’altra parte della caverna.
  Chi aveva scritto quel messaggio? Elisio era davvero in pericolo?
  Guardando quella gente non era assolutamente in grado di individuare qualcuno con le caratteristiche che Xante le aveva descritto. Apparivano tutti fin troppo provati da quella situazione, devastati dal ricordo di ciò che avevano perduto. Per quanto un sentimento di odio e di vendetta fosse più che plausibile nei loro animi, da una parte Malva sapeva che in essi vi era anche una grande paura: se Elisio era stato in grado di scatenare una simile violenza in passato, altrettanto avrebbe potuto fare in futuro. Per questo motivo essi erano deboli. Nessuno avrebbe mai osato scrivere un messaggio come quello sapendo che avrebbe potuto provocare un’altra volta la sua ira funesta.
  Dunque, chi?
  Qualcuno si avvicinò. Ella ripose la spilla tra le vesti, alzò lo sguardo per vedere chi fosse. In piedi di fronte a lei c’era Serena, con i lunghi capelli biondi che le incorniciavano il viso.
  «Che bell’oggetto» disse la ragazza, avendo visto la spilla.
  Malva tremò per un attimo. La distrazione l’aveva già tratta in inganno. Tuttavia sorrise, senza farsi scoraggiare.
  «Ti ringrazio. È un ricordo di persone che amo», disse.
  La ragazza annuì. Passò distrattamente un mano lungo la superficie del Megabracciale. Malva parve capire, le sue labbra si distesero in un sorriso intenerito, commosso dall’innocenza di quel gesto.
  «Molti lo amavano. Era una brava persona».
  «Lo era».
  Calò un leggero silenzio. La giovane si era improvvisamente fatta pensosa. Ad un tratto tese la mano verso la donna: Malva la osservò sorpresa.
  «Se non fosse stato per te, avrei abbandonato ogni cosa in cui credo. Stavo per lasciare tutto quanto, ma poi ho sentito la tua voce, ho visto i tuoi occhi. Ti ringrazio».
  Malva le strinse le dita, titubante. Non sapeva cosa dire. Non avrebbe voluto dire niente. Serena accolse con calore la sua stretta, per quanto incerta potesse sembrare. Si sedette al suo fianco.
  «Di che fiore si tratta? Quello sulla spilla, intendo».
  «È un giglio».
  «Se non sbaglio, era il fiore preferito da Elisio. Ho ragione?».
  Diantha si era inserita nel discorso. Stava camminando nella loro direzione stringendosi addosso una mantella bianca. Anche lei aveva i capelli bruni lasciati sciolti, ma essi apparivano molto più scombinati e caotici rispetto a quelli di Serena - rispetto a come lei li aveva sempre tenuti.
  Si fermò accanto alle due. Malva annuì.
  «Lo conoscevi?» chiese la ragazza alla Superquattro.
  Prima che però Malva potesse rispondere, Diantha mandò via la giovane con una richiesta: bisognava organizzare la prossima partenza, c’era da informare tutti gli altri. Serena allora si congedò, le due donne rimasero da sole.
  «Dormito bene?» chiese Diantha.
  «Ho avuto freddo, ma ho dormito bene», rispose l’altra.
  «Quello scialle mi sembra leggero» osservò «Ho altri abiti con me, posso darti qualcosa di più pesante. Vieni».
  Le prese la mano e l’aiutò ad alzarsi, la condusse fino a dove erano state lasciate le borse di tutto il gruppo. Rovistò per un po’ tra i bagagli finché non trovò il proprio. Lo aprì e cercò qualcosa da far indossare alla compagna. Di tanto in tanto tirava fuori una maglia e tenendola in mano rifletteva se sarebbe potuta andar bene.
  «Questi sono tutti tuoi vestiti» disse ad un tratto Malva, ricordando di averglieli visti addosso in diverse occasioni, in passato «Come mai ne hai così tanti con te?»
  Il fatto che avesse una borsa così grande e che dentro vi fossero tutti quegli indumenti, di differente tipo a seconda delle necessità, non le sembrava casuale. Era come se Diantha avesse progettato di portarsi dietro quella roba. Ma come era possibile? Se era vero che il suo viaggio assieme agli altri era cominciato ad Altoripoli, era del tutto impossibile che nel tempo che era trascorso fosse riuscita ad andare a Luminopoli per prendere quelle cose e tornare indietro col bagaglio pieno. A meno che...
  «Augustine* aveva deciso di andare a Cromleburgo. Voleva tentare di dissuadere Elisio dall’attivare l’arma suprema. Ho cercato di convincerlo a non partire, gli ho ripetuto più e più volte che ormai Elisio aveva perso la ragione e che non c’erano più speranze di farlo rinsavire, ma non ha voluto ascoltarmi. È salito in groppa al suo Dragonite** e se n’è andato. Così ho preso tutto ciò di cui pensavo di aver bisogno, ho acceso la macchina e l’ho seguito. Io dovevo...».
  Si bloccò all’improvviso. Nella borsa aveva intravisto il tessuto nero di un maglione. Si morse le labbra. Prese un cappotto di lana e lo posò con cura sulle spalle gracili della compagna, cercando di farle calore.
  «È così che ho incontrato AZ. Si è messo davanti a me, mi ha bloccato la strada: non c’era più tempo. Era troppo tardi, ormai. Mi ha presa con sé, mi ha portata in un luogo sicuro. E poi...».
  Malva abbassò la testa. Posò lo sguardo sulle mani di quella che richiudevano i bottoni del cappotto. I suoi riguardi le facevano venire il vomito, adesso, erano insopportabili. Sentiva che l’altra voleva guardarla negli occhi, per poter trovare anche lei un po’ di calore, un po’ di conforto, ma Malva non riusciva a trovare la forza di volgersi verso di lei. Non voleva farlo. Si scostò piano, sempre col viso basso.
  «Grazie, Diantha» sussurrò con un filo di voce quando invece avrebbe voluto mettersi a gridare.
  A quel punto si scambiarono uno sguardo. Malva si ritrasse ancora, solo di un poco.
  «Vado ad aiutare quella ragazzina. Non mi sento di lasciarla da sola».
  «Certo».
  Non appena la donna si fu allontanata, Diantha tornò ad osservare l’interno della sua borsa. Trasse fuori il maglione nero che aveva intravisto e lo strinse al petto. Era assurdo, ma ancora riusciva a sentire il suo profumo. Riusciva persino a riportare alla memoria la sensazione sulle sue dita di quando scorreva le mani sul suo corpo, definendo le forme nascoste sotto il tessuto.
  Il suo corpo, che adesso giaceva inerme in mezzo alla terra e alla polvere, squartato e massacrato.
  Lo vedeva ancora. Il corpo minuscolo, adesso, senza braccia, senza gambe. Gli arti erano stati strappati con violenza dalla potenza dell’arma. Il sangue si era rinsecchito a grandi chiazze sulle sue vesti, emanava tanfo di morte e di marcio. Il viso era stato stravolto e sfigurato, metà di esso era ricoperto da pustole e vesciche lucide, gonfie, la pelle deforme.
  Diantha si lasciò cadere a terra, non riuscendo a scacciare quell’immagine ripugnante dalla mente. Si coprì gli occhi con il maglione, pianse con le dita che stringevano brutalmente il tessuto scuro, sfilacciandolo, affondando le unghie spezzate e sporche di terra in mezzo ai fori. Oh, Augustine! Perché sei scappato da me? Come hai potuto fidarti ancora di quello, come hai potuto permettere che ti riducesse così? Gli credevi veramente? Guarda che cosa ti ha reso! Che ne è delle tue labbra? Che ne è del tuo sguardo, delle tue carezze? Che ne hai fatto della tua voce? Dove sono le tue spalle, le tue braccia sottili e amorevoli? I tuoi piedi lunghi e magri, le tue dita?
  «Io dovevo... Io avrei dovuto proteggerti, ma non l’ho fatto».
  Ad un tratto alzò lo sguardo. Vide AZ che si era appena fermato a qualche metro di distanza di fronte a lei. La donna si voltò dall’altra parte, come per nascondersi.
  «Non avresti potuto» le disse, cercando di confortarla «Non saresti riuscita a smuoverlo dalla sua decisione. Ormai aveva scelto. Tu non hai colpa. È inutile farsi prendere dal rimpianto».
  Diantha si passò un braccio sul viso per asciugare gli occhi gonfi di lacrime: «Ma io ti giuro che era ancora vivo! Respirava, respirava ancora quando l’ho visto! E non ho fatto nulla. Sono stata lì come una stupida ad osservarlo senza muovermi, presa dal terrore. Avrei dovuto avvicinarmi, prenderlo e portarlo via con me. Era ancora vivo, ti dico! Avrei potuto salvarlo... Invece l’ho abbandonato senza ritegno. Adesso sarà certo che morto. Ma sono io ad averlo ucciso».
  Diantha piangeva e si stringeva su se stessa. I suoi capelli ricadevano sul suo corpo sgraziatamente, in disordine. AZ le si avvicinò, provò a posare una mano sulla sua spalla, ma lei lo scansò malamente.
  «Lasciami stare».
  «Diantha, smettila di farti contagiare da queste idee. Il Professor Platan è morto. Probabilmente desideravi vederlo ancora vivo e i tuoi desideri devono averti indotto a credere che stesse respirando ancora. Ma è del tutto impossibile che un uomo in quelle condizioni possa essere sopravvissuto per due settimane intere, non può accadere».
  La donna rimase in silenzio senza ribattere. Sì, certo. Ciò che diceva era sensato. Non era possibile che fosse ancora vivo, era assurdo, eppure aveva quest’angoscia nell’animo che non le dava pace. AZ si sedette di fronte a lei con le gambe incrociate. Chinò la testa e sussurrò, serio: «Ascoltami, Diantha. So che non è il momento giusto. Ma devo parlarti».
  Sembrava fosse qualcosa d’importante, così lo ascoltò.
  «Sei proprio certa di conoscere quella donna?».
  «Ti riferisci a Malva?».
  «L’ho osservata a lungo e il suo comportamento non mi convince».
  Lei lo guardò incerta e dubbiosa, leggermente contrariata.
  «Non ti sto prendendo in giro» continuò l’altro «Non ti sei accorta del fatto che ieri, quando si è unita a noi, gli elicotteri del Team Flare hanno cominciato a sbagliare i colpi di proposito per evitarci? Che avessero voluto evitare proprio lei? Credi che potrebbe essere legata a loro? È possibile?».
  La donna si alzò da terra, distese il maglione nero e dopo essersi tolta la mantella lo infilò addosso.
  «AZ, non voglio litigare. Mi fido pienamente di te e dei tuoi consigli. So che me ne dai perché ti preoccupi per me e per tutti noi. Ma in questa battaglia ho già perso molto più di ciò che avevo. Malva, insieme a Timeus, è tutto ciò che mi è rimasto. Non posso dubitare di lei. Perciò perdonami se questa volta davvero non sono in grado di accontentare la tua richiesta. Ti chiedo scusa».
  E lo lasciò.
 
 
  Era stato sul set di uno dei suoi primi film. Lei doveva interpretare il ruolo di una principessa, ultima discendente di una stirpe ormai estinta. Ad accompagnarla nel suo viaggio alla ricerca di un posto nel mondo era stato scelto di porre un Lapras. Non un Lapras qualsiasi, ma un esemplare cromatico, dalla pelle violacea e preziosa. Si era pensato che l’unicità di quel Pokémon potesse ben accostarsi all’unicità stessa della principessa.
  Lapras era stato trasportato dalla Grotta di Mezzo nella regione di Johto fino alle spiagge di Kalos con la massima attenzione. Data l’estrema rarità della sua specie e in particolar modo per le caratteristiche assai singolari di quell’esemplare, si era sentito il bisogno di ingaggiare un esperto che se ne prendesse cura e lo sorvegliasse. La scelta era ricaduta sul Professor Platan, ancora giovane e per questo motivo senza una vasta esperienza, ma animato da una gran voglia di fare.
  Così era spesso accaduto che i due si fossero ritrovati a scambiare qualche parola di tanto in tanto. Diantha imparava il copione e nel mentre Augustine le spiegava come approcciarsi al Pokémon.
  «I Lapras sono dei Pokémon estremamente intelligenti. Lo sa? Sembra che siano in grado di leggere la mente umana e di comprendere i nostri sentimenti. Inoltre sono anche di animo buono, non amano lottare. È per questo motivo, purtroppo, che sono stati decimati nel corso dei secoli, catturati come prede da noi uomini. Se l’è mai chiesto, lei, perché l’animo umano possa diventare tanto crudele? Eppure, come si può esser malvagi nei confronti di creature così belle? Venga, guardi».
  Le aveva preso una mano con delicatezza e l’aveva posata sulla pelle liscia e umida del Pokémon, senza lasciarla. Lapras aveva cominciato ad emettere un mormorio dolce e melodioso.
  «Riesce a sentirlo?».
  «Sì, lo sento».
  Era come se potesse accarezzare l’affetto e la tenerezza di quel Pokémon. Riusciva a toccare con le dita il suo animo gentile, a sentire il suo desiderio di volersi legare a lei. Poteva scorgere il suo dolore d’esser rimasto solo assieme ai suoi compagni ancora in vita. Era una sensazione incredibile ed emozionante. Per quanto avesse sempre lavorato al fianco di numerosi Pokémon e ne possedesse lei stessa in una squadra, non aveva mai percepito così chiaramente la forza del loro spirito. Sentiva di esser sempre stata cieca e che solo adesso riusciva a comprendere il vero pregio di quelle creature.
  Si era voltata verso il ragazzo e l’aveva guardato con gratitudine poiché le aveva finalmente aperto gli occhi, la mano ancora stretta nella sua. Nel momento cui i loro sguardi si erano incontrati, avevano provato entrambi una sensazione nuova e sconosciuta. Solo col passare del tempo capirono di essersi innamorati.
  Tuttavia, nessuno dei due si era mai fatto avanti. Molteplici erano le occasioni, ma c’era sempre qualcosa o qualcuno che s’intrometteva e alla fine non se ne faceva mai nulla. Così, tutto ciò che condividevano erano soltanto sguardi e sorrisi muti, fugaci. Poi si separavano.

  Spesso, nei minuti di pausa in cui venivano interrotte le riprese, Diantha si ritirava nelle zone più inospitali della spiaggia e rimaneva a scrutare con sguardo assorto l’orizzonte al di là delle acque, con indosso ancora gli abiti bianchi da principessa. Augustine l’aveva seguita diverse volte, in segreto, e nascondendosi in mezzo agli scogli la osservava in religioso silenzio finché la ragazza non voltava il viso e tornava indietro.
  Quanto era bella! Diantha allora portava i capelli corti, ma al giovane piaceva lo stesso studiare il modo in cui quei ciuffi sottili si muovevano nel vento e come la frangia bruna si scompigliasse graziosamente tra le dita della corrente. I drappi candidi del vestito si avvolgevano fra loro e si gonfiavano, sospesi nell’aria.
  Ma ciò che lo colpiva e affascinava più di tutto il resto era la fierezza nei suoi occhi.
  Essa non era arrogante, tutt’altro. Era un orgoglio leggero, deciso eppure modesto.
  Tanto dolce era l’azzurro del suo sguardo.
  Un giorno Diantha si era accorta di lui. Aveva sentito un rumorio provenire dagli scogli e s’era voltata, l’aveva visto.
  «E lei che ci fa qui?» aveva detto in tono un po’ risentito, offesa dal fatto che qualcuno si fosse introdotto in quel luogo che riteneva suo intimo. E tuttavia, invece, esso non apparteneva a nessuno, pensò con leggera malinconia mentre vedeva l’altro uscire dal suo nascondiglio per avvicinarsi a lei e porgere le sue scuse.
  «Potrei farle anch’io la stessa domanda, Diantha. Dopotutto questo non è il luogo adatto ad una principessa» il Professore si era fermato al suo fianco, osservandola, un po’ in imbarazzo per esser stato scoperto «Ma in fondo io so che lei non è una principessa qualunque. Fosse per lei, vivrebbe ogni giorno nelle foreste più selvagge e nei deserti più aridi, pur di poter star lontana dal finto sfarzo di corte, di poter esser libera di mostrarsi per ciò che è realmente. I castelli e i palazzi incantati lasciamoli alle altre».
  La ragazza aveva abbassato la testa in cenno di assenso.
  «Vengo spesso qui a riflettere» aveva detto poi «Il mio ruolo di attrice mi porta ad immedesimarmi nei personaggi che interpreto. Tuttavia io non sono né una principessa, né la figlia di un’autista di una famiglia prestigiosa. Io sono Diantha. Ma chi è Diantha? Ci sono tante persone dentro di me e non so riconoscerla».
  Il cielo era coperto di grigio. Scendeva un pioggerella leggera. Augustine invitò la ragazza a ripararsi con lui in un piccolo antro poco lontano: presto il tempo si sarebbe fatto meno mite. Si sedettero a terra l’uno accanto all’altra, Diantha cercava di far attenzione affinché il vestito non si rovinasse. Il vento si era alzato e lei ogni tanto tremava, scossa da un brivido di freddo. Platan quel giorno indossava un maglione nero. Vedendo rabbrividire la ragazza in quel modo se lo tolse e glielo porse. Rimasto con una misera maglietta a mezze maniche addosso, si stringeva nelle braccia per riscaldarsi: l’importante era che Diantha non si prendesse un malanno, e comunque un po’ di fresco poteva patirlo senza fastidio.
  «Ma è proprio sicuro di non avere freddo?».
  «Freddo? Ah, fa così caldo come fosse primavera, sto benissimo! Non si deve preoccupare».
  «La prego, venga più vicino».
  Diantha si era avvicinata, si era stretta ad un suo braccio. Augustine si lasciava pervadere dal suo profumo e dal suo calore, in silenzio. Entrambi erano in imbarazzo ed emozionati. Però era tanto bello, pensavano.
  «Con questi capelli corti e il suo maglione, devo sembrare davvero un maschiaccio, non è così?».
  «Forse un poco. Ma io la trovo comunque molto graziosa».
  Si erano scambiati un lieve sorriso. Poi erano di nuovo rimasti in silenzio per qualche minuto.
  E finalmente Platan parlò: «Lei non sarà una principessa, Diantha, ma... potrei chiederle di diventare la mia?».
  La ragazza lo osservò, le guance le si erano un poco arrossate. Poi le sue labbra s’erano incurvate dolcemente.
  «Lei è così caro, Professore».
  Si erano abbracciati un po’ più stretti, si erano guardati. Le loro bocche si erano unite lentamente, timide e tremanti, ma piene d’affetto e morbide. Intorno a loro era il silenzio, l’eternità di quell’istante.

  Da quel momento era stato amore.
  Era stato amore quando si erano guardati negli occhi e si erano stretti le mani.
  Era stato amore quando avevano corso senza ombrello sotto la pioggia.

  Un giorno Diantha era tornata a casa stringendo tra le dita un ciondolo dorato. Era andata da Platan per farglielo vedere e chiedergli che l’aiutasse ad annodarlo al collo.
  «Era rimasto in una delle scatole del trasloco. Oh, sono così sollevata di averlo visto appena prima di sbarazzarmi di quei cartoni! Mi sarebbe tanto dispiaciuto se l’avessi perso. Sai, era un dono di mia nonna. Le ero molto affezionata. Allora, che ne dici? Ti piace?».
  Augustine aveva guardato il gioiello per qualche secondo, stringendo la ragazza tra le braccia, poi aveva sorriso enormemente.
  «Credo proprio che tua nonna ti abbia fatto un dono davvero speciale! Mon ange, questo non è un semplice ciondolo».
  E dicendolo aveva passato piano la mano sulla pietra incastonata nel pendente. Essa riluceva dei colori dell’arcobaleno.
  «No...? Di che cosa si tratta, allora?».
  Platan aveva rivolto lo sguardo alla Gardevoir della compagna, che li osservava seduta accanto alla finestra. Poi si era chinato su Diantha e le aveva accarezzato una guancia, l’aveva condotta con sé a sedersi sul lungo divano della sala da pranzo e le aveva spiegato ogni cosa pazientemente e con precisione. Quando cominciava a parlare di Megaevoluzione, il Professore non si fermava più. Quella sera avevano finito per attardarsi fino a notte fonda. Benché Diantha non sempre riuscisse a comprendere i concetti più complessi che le esponeva, trovava comunque gradevole rimanere ad ascoltarlo.

  Era stato amore quando la mattina s’erano svegliati assieme e si erano abbracciati, impigriti, per poter riposare ancora qualche minuto prima che suonasse la sveglia.
  Era stato amore quando, seduti in un bar, avevano bevuto tè osservando i passanti fuori dalla vetrina.
  Era stato amore quando durante qualche passeggiata alla sera non si erano scambiati parola, troppo stanchi per poter aprire ancora bocca e parlare.
  Era stato amore quando Augustine le era venuto vicino e le aveva sussurrato all’orecchio che i suoi occhi erano come il mare e che in essi vi erano le onde.

  Ma era anche stato un amore giovane, e con il passare degli anni aveva via via finito per sfiorire. I tempi erano cambiati e con loro essi stessi. Tuttavia si erano amati, si erano amati tanto e non c’era ricordo dei momenti trascorsi assieme che non venisse custodito con tenerezza nel cuore. Non c’erano stati litigi, né scenate: semplicemente ad un tratto s’erano accorti che quella passione e quell’ardore dei primi tempi erano svaniti. Le decisioni importanti avevano cominciato ad essere sospese e rimandate, e poi discusse, interrotte all’improvviso e rimandate un’altra volta. Il legame tra loro si era ormai indebolito e non c’era modo di ripararlo. E così, per il bene di entrambi, si erano separati. Era stato doloroso all’inizio, ma con il tempo ci si era resi conto che era stata la decisione migliore: era nata una salda amicizia che entrambi rispettavano con affetto.
 
  Diantha si era tenuta il suo maglione nero. Lo stesso Platan aveva insistito affinché lo conservasse.
 
  Di quelle stagioni non era rimasto nient’altro che la debole essenza impregnata in esso.
 
 
  Si era fatta sera tarda. I preparativi per la partenza successiva erano stati terminati. Diantha stava di guardia fuori dalla caverna e rifletteva sugli spostamenti che avrebbero dovuto compiere l’indomani. Teneva le braccia incrociate sul petto e con le dita di una mano accarezzava il tessuto nero della maglia.
  «Diantha».
  La donna si era voltata e aveva intravisto il grigio viso di AZ nella penombra dell’ingresso della grotta. L’uomo era uscito e si era fermato dietro di lei, la osservava silenziosamente.
  «Hai controllato che sia tutto pronto per domani?» chiese.
  «Sì. Ho solo un paio di dubbi sul tragitto, sto cercando di capire come potremmo fare nel caso in cui dovessimo trovare qualche Percorso impossibile da attraversare» rispose.
  «Se vuoi posso darti una mano».
  «Ne avrei bisogno. Ti ringrazio».
  Il bosco nei dintorni era muto e quieto, salvo di tanto in tanto un lieve fruscio di foglie.
  «Volevo chiederti scusa per come mi sono comportato questa mattina» disse ad un tratto AZ «So come ci si sente quando si perde qualcuno che si ama per propria colpa. Credimi, lo so fin troppo bene. Ma il mio è un dolore che patisco da secoli e millenni, ormai è dentro la mia anima da così tanto tempo che non ci faccio più caso. Non che non soffra, ma ho imparato a conviverci. È difficile, tuttavia credo che con il tempo ci riuscirai anche tu. Vorrei dirti soltanto una cosa: ciò che è smarrito per sempre non lo si può più riavere. Tienilo a mente, Diantha, e cerca di accettarlo. Ho visto fin troppe persone nel corso della mia vita perdere la testa poiché non erano state in grado di capirlo. Non voglio che anche tu finisca come loro. Rendi omaggio alla tua vita e continua a percorrere il cammino che hai di fronte. Sii te stessa e vedrai che un po’ di quel dolore lentamente si lenirà. Trova la forza che è dentro di te per arricchire questo mondo che è diventato povero. Solo così potrai sopravvivere».
  La donna annuì. Gli rivolse uno sguardo e disse: «Ho capito quello che intendi. Proverò. Devo riuscirci per lui, per portare alla vita il mondo che desideravamo insieme».
  AZ la guardò come a volerla incoraggiare. Confidava in lei, ce l'avrebbe fatta. Prese una ciocca dei suoi capelli bruni e cominciò a pettinarle la chioma con le dita, intrecciandogliela sulla nuca: affinché potesse vedere chiaramente davanti a sé e seguire il suo cammino, neanche un ciuffo doveva coprirle la vista.

 
~~
. Dizionario di francese .
Mon ange = Angelo mio
~~
* Credo di essermi dimenticata di scriverlo nel capitolo precedente, comunque Augustine è il nome del Professor Platan nella versione inglese del gioco. Di solito nelle altre storie mi sono sempre riferita a lui solamente con "Platan" per attenermi alla versione nostrana, ma stavolta volevo porre una distinzione tra "Augustine" e "(Professor) Platan". Poi capirete.
** Nella demo del gioco il Professore ha un Golbat, uno Chandelure e un Dragonite in squadra. Questa volta mi sarebbe piaciuto usare questi Pokémon, perché mi sembrano più particolari rispetto a Charizard, Venusaur e Blastoise che sono i "tipici" Pokémon da laboratorio.
~ ~ ~
Ciao a tutti ragazzi! Come avevo detto da ora in poi metterò l'angolo autrice qui in fondo.
Intanto ringrazio tantissimo Afaneia per aver recensito il capitolo precedente e tutti voi che siete arrivati quaggiù nella lettura, per me conta davvero molto! Grazie di cuore ♥
Ci ho messo un sacco di tempo a completare questo capitolo, ma devo dire che sono contenta di come è venuto alla fine. Forse è un po' più sentimentale rispetto agli altri, comunque spero che vi sia piaciuto! Con questa storia sto provando a mischiare insieme alcuni generi, anche diversi e a cui non sono abituata, quindi nel caso in cui in certi punti dovesse stonare è per questo motivo xD Piano piano cercherò di appianare tutto.
Un saluto a tutti e (è quasi febbraio, ma non importa) buon 2016! Spero che abbiate cominciato l'anno nel migliore dei modi!
A presto,
la vostra Pers 
  
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