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Autore: Stray_Ashes    22/01/2016    1 recensioni
"Hate me
Break me
I'm a criminal"
In città la gente mi indicava col termine di cacciatore di taglie, ma lo diceva con paura, perché nessuno voleva essere la mia prossima tela, su cui avrei appoggiato forse il pennello, forse il coltello. Ma andava bene, come nome, non era tanto male; il termine di cacciatore mi dava un’importanza che non avevo.
Guardai il nome della mia nuova tela, la mia nuova vittima: Frank Anthony Iero.
E il nome non mi comunicò niente.
Avrebbe dovuto..?
"What have I done?"
[Revisionato 04/07/16]
Genere: Avventura, Dark, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Nuovo personaggio | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2. White Scars



Mi inumidii le labbra con la lingua, per poi riappoggiarci sopra la sigaretta, stringerla con una lieve pressione e tirare. Sentii il fumo entrare in corpo, e mi venne un brivido; all'inizio, quando avevo iniziato, forse un paio di anni fa, avevo sentito le scariche di piacere della nicotina attraversarmi il corpo fino al cervello, anestetizzando i miei pensieri, ma ormai non sentivo neanche più quelle: l'unica cosa che, in quel preciso istante, immaginai, fu il fumo macchiarmi l'anima, già eccessivamente macchiata. Avevo tanti vizi, ma quello mi faceva schifo. Mi sporcava, contro la mia volontà, in modo diverso dai peccati che mi sporcavano la coscienza. Il fumo rimaneva nel fisico, dentro, come le cicatrici. 
Perlomeno, le cicatrici mi piacevano. Le vedevo io e basta, e mi ricordavano di avere un passato. Il nero del fumo non potevo vederlo, ma c'era, e non ricordava alcun tipo di particolare esperienza nel mondo, se non una debolezza umana. Non mi toccava, però, l'idea del cancro, di una malattia, da cui non sarei di certo fuggito... non avevo paura di morire, tutta questa questione sul fumare aveva un significato prettamente morale, forse psicologico. 
Buttai fuori il fumo sporgendo le labbra in avanti, e lo osservai creare vortici volubili e allo stesso tempo incorporei, nella notte davanti a me, lasciandosi illuminare dalla luna, che lo trasformava in qualcosa di brillante, etereo, come se avessi appena sputato fuori uno spirito.
Era davvero bello il fumo fuori, bello tanto quando brutto dentro. Immaginai il catrame incastrarsi tra i miei polmoni, come faceva con gli scogli nel mare. 
Voglio dire, amavo il nero, vederlo attorno a me, su di me, dentro di me, nel cuore, nel cervello, ma nei polmoni no, quello no. Avrei davvero dovuto perdere quel vizio, che ormai non mi dava alcuna sorta di piacere... storsi la bocca in una smorfia e gettai la sigaretta mezza consumata a terra, badando di spegnerla per bene, in modo che non bruciasse l'erba e le foglie del suolo. Non volevo un incendio nella foresta, era la casa di tante vite ed era la mia, l’unica che avessi. Forse una città meritava di bruciare, ma la foresta... la foresta no. 
In una città c'erano sostanzialmente solo vite umane, corrotte e viscide vite umane; le case ed i tetti ed i carri non erano vivi, poteva bruciare tutto. I gatti e i cavalli sarebbero scappati, ne ero sicuro; sui cani non sapevo, non mi ero mai avvicinato ad un cane, non mi piacevano, ma ipotizzai che fossero abbastanza intelligenti per farlo. 
Molti degli uomini sarebbero bruciati. 
Nella foresta, invece, viveva tutto, dal fungo all'insetto all'albero ed io. Anche io vivevo, almeno nel senso meccanico del termine. 
Eppure, ultimamente, bruciavano più foreste che città. Avrei invertito i ruoli senza affatto pensarci due volte. Almeno, gli alberi, morendo tenevano dignità; gli uomini e comunque i viventi, urlavano e piangevano e mugolavano e strillavano e ansimavano... non sapevo cosa avrei fatto io morendo, ma sperai nessuna di quelle cose. 
Perso nei miei pensieri, infilai le mani nelle tasche dei pantaloni neri, abbastanza aderenti; saltai un sasso, seguendo il sentiero che mi stava conducendo fuori dal bosco, e presi ridiscendere la collina. 
Alzai il viso sull'orizzonte, verso est, spiando fra i ciuffi di capelli neri, e sospirai, osservando il mio respiro condensarsi e poi svanire nel niente: era quasi più bello del fumo e, nonostante venisse fuori dal disgustoso me, aveva un qualcosa di molto più puro, e mi nacque un sorriso quando vidi il mio respiro diventare un tutt'uno con la notte. Era bello, a modo suo. Era più bello il mio respiro nell'aria fredda che me. Poco male. 
Scrollai le spalle e ripresi a camminare, stringendo la cinghia della sacca a tracolla. Avevo pulito la canna della pistola, fatto scorta di proiettili, avevo riaffilato la lama dei coltelli - e ne avevano bisogno, messo vestiti puliti e rigorosamente neri, per nascondermi nella notte, ed ero partito, con quello che avevo. 
Il cielo, in quella pennellata di orizzonte, aveva preso una tonalità verde acqua, che preannunciava pigramente e senza fretta l'alba. 
Sarei arrivato in città per quando il sole sarebbe stato già abbastanza alto nel cielo. 
 
E in città ci arrivai proprio come un gatto randagio che, scappando dai cani, si trovava erroneamente nel territorio di caccia altrui.
Proprio come un gatto arrivai trasandato, nero, dall'aspetto cupo, solitario e malaticcio. Nessuno si soffermava a guardare troppo a lungo un gatto randagio, come se portasse sfortuna. Io invece li fissavo spesso i gatti solitari, soli contro il mondo eppure ancora vivi. Mi ci riconoscevo bene. 
E poi, che mi sarei aspettato dalla gente? Era perfetto così: lo sguardo che si alzava su di me, si abbassava e fuggiva. A volte non si alzava neanche, passava subito alla fase dell'ignorare. Che avrei voluto..? Mi ripetei. Un sorriso? Niente era più falso di un sorriso. Persino i ghigni erano meglio, perché quelli esprimevano crudeltà, sarcasmo, ironia, verità molto più autentiche in un uomo. E poi, non volevo avere un sorriso da una persona, magari la persona che sarei poi andato a uccidere. 
Non avevo solo a che fare con criminali che la giustizia "legale" non riusciva a sistemare, ma anche con questioni personali e private della gente, venivo pagato magari per far fuori rivali di lavoro o in amore. Avevo ucciso padri di famiglia, e giovani promettenti nel mondo dei grandi, e anche delle donne. Sarei bruciato all'inferno, se solo avessi creduto in qualcosa come l'inferno. 
"L'inferno è in terra..." mormorai a fior di labbra, passando per i vicoli della città, le mani ancora nelle tasche. "...solo che voi non lo sapete ancora". 
Decisi che mi sarei visto passo passo la città, e me la sarei goduta; evitando per bene le persone, si intende. Non mi andava di lavorare già... mi ero veramente arrugginito, in neanche un mese? Sbuffai. Stavo regalando qualche minuto di vita in più alla mia tela, era un atto caritatevole, e decisi di vedere da questa prospettiva la mia pigrizia. 
Si notava subito la lunga storia di quella città, dalle case ai pavimenti lastricati, ai manifesti per i teatri e le mostre d'arte: mi sarebbe piaciuto andarci, giusto per soddisfare l'arte della creatività nascosta in me, e non l'arte della morte, per una volta. 
Mi chiesi come quella città fosse sopravvissuta così a lungo in quello stato di antica, antichissima storia... forse perché era circondata dal bosco, ed era poco accessibile? Forse perché lì la tradizione era forte, e nessuno aveva lasciato che la guerra cambiasse quel posto? Perché la guerra aveva toccato tutto, prima di finire. Sapevo che, oltre queste zone protette dalla natura e dal niente, c'erano state città grigie, con palazzi infiniti: ma la guerra aveva raso al suolo tutto. Avevo sentito che c'erano continenti, aldilà del mare, molto molto diversi. Alcuni erano quasi disabitati e allo stato ormai selvaggio, sia a causa della natura che aveva preso il sopravvento, sia a causa della mente ormai sballata degli uomini. E poi, un continente era stato riorganizzato sotto una società tirannica, ma conoscevo poco altro.
Sapevo anche che una volta tutto il mondo era in contatto... e ora si viveva come in pianeti differenti. Molto, molto meglio così. Da ciò che avevo sentito, la mia realtà andava bene, persino la mia arte della morte, era meglio.
Senza accorgermene sprecai varie ore tra quelle viuzze, senza badare se le persone mi guardassero o meno, con la mente che spaziava, chissà dove, perché molti di quei pensieri finivo col dimenticarli... il mio cervello faceva davvero schifo. 
E così, con il sole tipico del pomeriggio tardo, mi fermai davanti ad un ostello... in genere non mi soffermavo a dormire nella città, di solito arrivavo di notte, finivo il lavoro e all'alba sparivo come un'ombra, lasciandomi alle spalle del sangue, delle lacrime e un uomo soddisfatto con dei soldi in meno. 
Ma decisi che almeno questa volta avrei cambiato piano, non era tanto male prendersela con calma... alla fine, che cosa temevo? Anche se qualcuno con cattive intenzioni mi avesse attaccato, avrei vinto io.
Le guardie avevano detto, nella loro lettera, di non passare per la caserma. Mi avevano dato tutto il necessario per il mio lavoro e probabilmente non volevano neanche vedermi. Di certo, non avevo messo da parte i miei sospetti... niente mi assicurava che, una volta liberatisi della piaga della città - qual era il nome, poi? - non sarebbero venuti a cercare me per sbattermi in carcere e alla fine impiccarmi. Potevo vincere contro tre, quattro uomini, forse anche di più se la fortuna mi sorrideva, ma le guardie sarebbero state un numero enorme. 
E non sarei morto in quel modo. Avrei fatto attenzione.
I patti per la ricompensa sarebbero stati diversi... in genere, esigevo un anticipo, ma quella volta avevo deciso di non pressare, perché tanto con quelle teste calde delle guardie, non si ragionava. Era già tanto se si erano abbassate a chiedere aiuto a uno della mia razza. 
Oh beh, entrai nell'ostello ostentando calma e distacco, cercando di non sembrare troppo minaccioso nel mio abbigliamento nero. Sperai che la pistola non si vedesse troppo, ma di sicuro gli stiletti fissati con delle cinghie alla gamba, non sarebbero passati inosservati. Forse avrei dovuto cominciare a girare con un mantello. 
Abbozzai un sorriso al tizio dietro al bancone, ma probabilmente il mio fu un ghigno, perché il tipo sbiancò appena, diventando nervoso. Non poteva pretendere più di tanto, d'altronde ero abituato a ghignare solamente. Che non rompesse le palle. 
Non so perché mi arrabbiai da solo, semplicemente seguendo una linea di pensieri, ma riuscii a non dire nulla di acido all'uomo, sapendo di giocarmi la camera all'ostello. 
Allargai di un poco il sorrisetto storto. «Potrei avere una stanza..?» azzardai.
Probabilmente i miei denti, bianchi e scoperti, lo inquietarono ancora di più, perché sobbalzò appena... e per Diana, neanche fossi stato un vampiro e fossi in procinto di strappargli la giugulare dal collo, così da poter sguazzare felicemente nel suo sangue. 
 
Sbattei le mani contro le cosce, per scrollarmi via polvere che in realtà non c'era - non ero tanto abituato a cose così pulite e appena comprate - e per sentire la consistenza del lungo cappotto di sottile pelle nera. Mi avrebbe accompagnato a lungo quell'indumento, l'avevo capito subito, là al negozio dove quel vecchietto, inaspettatamente, mi aveva donato un largo sorriso, un sorriso che per la prima volta da parecchio tempo, non mi era sembrato falso. Di sicuro stava solo cercando di vendere, lì in mezzo alla viuzza, con quella bancarella. Sorridere a tutti era d'obbligo. 
Era stata una scena piuttosto curiosa però, ripensai, sistemandomi meglio le spalline sulle spalle, e notando compiaciuto le cuciture, che sembravano quasi puramente decorative. 
Avevo passato il pomeriggio del giorno precedente mangiucchiando e dormendo nella camera all'ostello, e avere un letto vero sotto il peso del mio corpo era stato strano, abituato com'ero al suolo duro di campi e boschi. Dormii bene, comunque.
Poi mi ero alzato, ed ero uscito alla chiara luce del sole, finché ancora non c'era troppa gente. Alla fine, da un lato della strada, avevo scorto la bancarella, e adocchiato il cappotto che, ora, come un'ochetta, mi stavo crogiolando nel vedermi addosso. Ammisi che mi donava, senza alcuna finta modestia. 
L'avevo visto e avevo capito che era molto meglio di un mantello, aveva persino la cintura e un cappuccio largo. Mi ero avvicinato, e quell'uomo mi aveva sorriso, in quel modo così sincero che mi aveva spiazzato e mandato in crisi la mia risolutezza... che avrei dovuto fare? Avevo abbozzato un "salve", con la voce raschiante sulla gola, in quanto prima parola di tutta la giornata. 
Mi ero chiesto perché non si fosse limitato a salutarmi e basta, magari esponendomi la roba e vendendomi in modo veloce ed indolore quel cappotto, in modo che sparissi in fretta... insomma, ero "buio", la mia ombra era quasi più scura del normale, la mia pelle bianchiccia e a tratti cicatrizzata mi dava un aspetto malato, e triste, ed ero solo, minaccioso, cattivo, sbagliato, forse persino brutto, di viso. Non avrebbe dovuto sorridermi, non lo meritavo.
Poi, avevo notato i suoi occhi, di come fossero... bianchi, e vuoti.
La consapevolezza che quell'uomo fosse cieco, mi colpì con uno schiaffo.
Non seppi che provai, esattamente...  forse niente, ma sospesi il respiro.
Il vecchio cieco non smontava il sorriso puro, nonostante i diversi minuti trascorsi. Alla fine mi ero riscosso, e avevo stretto i pugni. 
«Non sorrideresti, se potessi vedermi... » l'avevo detto così, con impulsiva schiettezza. 
«Ma io ti vedo», era stata la risposta.
Dire che ero rimasto spiazzato sarebbe stato sminuire la mia sensazione.  
«I-io pensavo... » avevo quindi balbettato, confuso e paonazzo. Adesso avevo dato del cieco a qualcuno che ci vedeva benissimo, grandioso. Figura di merda, come al solito.  
«Io vedo in modo diverso, ma vedo. Io vedo l'energia che ti gravita attorno, vedo il colore del tuo umore e i graffi nella tua anima. Io vedo; non hai l'anima così nera da non meritare un sorriso, giovanotto. Anzi, a tratti, a graffi, è bianca, la tua anima. C'è qualcosa che non ricordi, vero? Che ti manca»
Avevo aperto la bocca, mentre nella mia testa aveva iniziato a scaturirsi la tempesta. «T-tu come fai a.. a sap... » 
«Quanto offri per il cappotto? » aveva domandato l'uomo invece, dondolandosi con un sorriso e fissandolo coi suoi occhi vitrei. Mi erano morte le parole in gola,infatti tutto ciò che ne uscì fu un rantolo strozzato. 
«Sai non sei il primo che lo adocchia, ragazzo mio» aveva continuato imperterrito l'uomo, poi piano piano io suo sorriso si era affievolito. «Ma i graffi bianchi della tua anima mi mettono tristezza. Facciamo così, lo lascio a te, anche ad un buon prezzo» aveva detto, seguendo un ragionamento che si stava costruendo tutto da solo, mentre io non avevo più avuto la risolutezza di dire nulla. L'anziano si era alzato e aveva afferrato senza una sola esitazione il cappotto nero esposto, come se la cecità non fosse stato affatto un problema.
«I-io... la ringrazio, credo», ero stato in grado di balbettare. Non avevo fatto praticamente altro ogni volta che aprivo bocca, da quando avevamo iniziato quella "conversazione" a senso unico. «Di nulla, giovanotto. Scommetto che ti starà molto bene»
«Non può dirlo». Ecco. La confusa frustrazione mi portava a dire solo cose idiote, come continuare a sottolineare una cosa tanto delicata. Gran bello stronzo sei, Gerard.
Ma il vecchio non era parso affatto darci peso, o anche solo rendersene conto. «Invece credo di sì, da come lei stava guardando l'indumento. A lei piace il cappotto, al cappotto piacerà lei. Farete un bell'effetto insieme»
Ancora una volta, mi ero trovato interdetto dalle stranezze di quell'anziano, e avevo cominciato a spaventarmi sul serio. 
Ma diamine, era un bellissimo cappotto, quindi me l'ero comprato, avevo ringraziato ed ero sgusciato via col cuore in gola, neanche l'avessi rubato anziché pagato, quel coso. 
Oh, e come avevo trovato i soldi per quella debolezza puramente estetica? Anche questa era una storia strana: tastando la federa del mio cuscino da viaggio -  il mio unico cuscino, mi ero rifiutato di usare quello dell'ostello - avevo tirato fuori, con mio grande stupore, una buona somma, e solo poi ricordai di averli messi da parte tempo prima.
Ma no, non era vero, non li avevo messi da parte, la verità era un'altra: il punto, è che li avevo nascosti proprio. A me stesso. Mi ero ubriacato apposta, avevo nascosto i soldi e, consumata la sbronza, avevo dimenticato tutto. Ero un verme persino con me stesso. 
Beh, perlomeno, avevo potuto comprarmi quel cappotto da urlo e pagare l'ostello: nascondermi le cose mi conveniva, a quel punto... mi venne istintivo chiedermi chissà quante altre cifre avevo incastrato chissà dove, senza ricordarmene più. Provai a fare mente locale sulle ultime mie cose che mi ero concesso di buttare, ma alla fine scossi la testa e rinunciai. Non mi avrebbe aiutato.
Sorrisi amaramente e mi avvicinai allo specchio, e anche questa era una cosa strana. Tendevo a non cercare mai il mio riflesso, per paura di vedermi all'improvviso invecchiato, e notare qualche nuova orribile cicatrice a deturparmi il volto.  Ne avevo una, sulla guancia, e mi bastava. Nel senso... ne avevo tantissime, sulla schiena, sul ventre, sulle braccia, sulle gambe, bianche sottili e crudeli, ma non mi importava, quelle restavano sotto i vestiti, lontane da occhi indiscreti. Quelle sul viso si vedevano invece, e mi marchiavano più dei vestiti neri, più degli occhi tristi, più delle armi allacciate alla mia gamba destra. 
Sbuffai e smisi di farmi delle paturnie come una ragazzina, e piegai la schiena facendo frusciare il cappotto lungo, per vedermi il viso nello specchio. 
Sollevai un sopracciglio. Con un sentimento misto tra sollievo e delusione, constatai che la mia faccia era sempre la stessa, che fosse brutta, bella o da schiaffi, era sempre e comunque la stessa. Forse non sarebbe stato poi così male vedersi gli anni scorrermi addosso... almeno, mi comunicava per quanto ancora avrei dovuto sopravvivere così, finché non ero troppo debole per farlo.
Con la punta delle dita sfiorai le occhiaie accennate appena sotto l’occhio, e mi fissai l’iride verdastra. Era un colore sporco, indefinito, che cambiava del tutto a seconda della luce, ma almeno mi ricordava la foresta; quando era fitta, verso sera, il sottobosco prendeva quel colore lì.
«Ma guarda guarda, non odi il colore dei tuoi occhi. Un punto a te, Ger...» quell’inutile frase in terza persona fu bloccata nella mia gola dal rumore fragoroso e dalle urla che arrivarono da sotto la finestra della mia stanza: per lo spavento soffocai un urlo e d’istinto mi sporsi in avanti, sbattendo la fronte contro le specchio e graffiandomi da solo la guancia. Per fortuna questo non andò in frantumi, evitando di tagliuzzarmi artisticamente i capelli e il cervello.
Mi tirai su di botto, ringhiando come una bestia inferocita e diventando un compatto fascio di muscoli tesi. Odiavo essere spaventato, la mia ira ci metteva ore a scemare, dopo.
Corsi alla finestra con quella che era quasi la bava di un lupo furioso, e guardai giù: sotto di me, dove di mattina avevo visto un bancarella di frutta e verdura, era scoppiato il putiferio: le merci verdi e fresche rotolavano da tutte le parti, e il polverone che si era alzato era imponente. Il proprietario sbraitava come un ossesso, la gente lì attorno un po’ si avvicinava, un po’ si scansava, tutti con espressioni tra lo stupore, la sorpresa e la paura. Arricciai le labbra... la gente si lasciava scandalizzare da così poco? Ricordai la testata contro lo specchio e azzittii la mia mente, per non fare l’ipocrita, e mi concentrai meglio sulla scena.
In quel preciso istante, dal polverone si alzò una figura, in piedi su un cassone di banane, facendo una veloce giravolta su sé stesso, ma proprio sotto il mio sguardo perse d’un tratto l’equilibrio e cadde in avanti, sulla schiena, con un tonfo secco. Riuscii a sentire il rumore del suo corpo sulla pietra dura e impolverata, la sua mascella scioccare per l’urto, la bocca dalle labbra sottili schiudersi e sputare gocce di sangue, e negli occhi di quello che doveva essere un ragazzino di - quanti, diciotto, diciannove anni? - passare come una saetta la luce del dolore. Provai pena per lui... il che fu strano, ma quei grandi occhi spalancati verso il cielo, verso la mia finestra, mi trafissero la fronte, andando giù fino a quella zona del cervello in cui risiedeva la mia compassione.
E il mio cuore fece letteralmente una capriola quando capii cosa stava continuando a produrre rumori bassi e arrabbiati: dal polverone emerse un cane enorme, un fascio marrone di muscoli, denti e bava, che fece leva con le zampe contro la cassetta da cui il ragazzo era caduto, e si lanciò in avanti.
Aprii la bocca, come per gridare. Ero metri più su, e guardavo dall’alto come un dio inutile, e tutto il mio campo visivo era occupato solo dal cane. L’avrebbe ucciso, fu il mio pensiero, sarebbe piombato su quella specie di bambino e sarebbe riuscito a fargli sputare persino i reni.
Non mi piacevano i cani.
Poi il ragazzo fece qualcosa di risoluto, che non mi aspettai: dal suo viso sparì la smorfia del dolore, e vidi solo degli occhi calcolatori e pronti; quando il cane volò su di lui, sollevò di scatto le gambe e lo sbalzò via. Nella foga, potei giurare di sentirgli mormorare uno “scusa” disperato.
Vidi il cane cadere più in là, rimettersi in piedi e caricare di nuovo in tempo zero, neanche fosse un cinghiale, e di cinghiali ne avevo visti tanti, e mi spaventavano meno. Vidi il ragazzo afferrare al volo, dal bancone che avevano distrutto, un’asta di legno e usarla a mo’ di mazza, per tentare di proteggersi dalla potenza con cui il cane si stava per avventare su di lui.
Ecco, ora sarebbe morto. A causa di un cane. Era uno dei mille modi in cui non avrei mai voluto morire io. Avrei preferito addirittura essere soffocato da un gatto, ma diamine, i cani no.
Senza neanche sapere come e perché, mi ritrovai con i piedi sulla finestra, i capelli spostati dal vento leggero che tirava di fuori.
E un attimo dopo, stavo cadendo. 




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.:Angolo dell'Autrice:.
Ed ecco il secondo capitolo. In pratica, l'ho scritto tutto nelle note del cellulare in corriera, col terrore pesante che mi crashasse l'app e perdessi tutto. Oh beh, io alla mattina alle sei penso a questo. Nessun rimpianto.
Già che ci siamo, vi presento lo schizzo di Gerard (in realtà nella mia mente era diverso, ma so che le cose non vengono mai come le sei vogliono. E' anche venuto un po' grandino lo scanner, lo schizzo era piccino) fatto durante l'ora di inglese, per darvi un po' un'idea di quello che è.... ho deciso di mescolare l'era di Danger con i capelli neri, siccome rossi, almeno per adesso, non si legavano al personaggio. 
Spero di non avervi annoiati con questo capitolo, e di aver richiamato almeno un minimo l'interesse del malato che sta leggendo queste parole. E se sei lì che stai leggendo queste parole, beh scrivine due anche tu per me, le gradirei, anche se fosse un insulto... ci sono gli insulti e poi ci sono i complimenti. E' l'essere ignorati, che fa più male. 
ora lasciate perdere i ragionamenti filosofici, e spero che sta roba vi sia piaciuta, la storia piano piano si sta costruendo nella mia testa... ho paura di me stessa.
Chiedo venia agli amanti dei cani, in realtà non li odio così tanto, non sempre, ma... qui Gee è troppo un tipo da gatti  u-u sorry


  
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