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Autore: Dreamer In Love    24/01/2016    3 recensioni
Un trono esurpato da un crudele tiranno.
Una principessa dal cuore di ghiaccio a cui la vita a riservato solo dolore e falsità
Un ragazzo temerario che sogna la libertà, per se e per il suo popolo.
Ma ne vale davvero la pena di rischiare la propria vita?
La vendetta non porta mai a nulla di buono e Shade lo sa ma come potrà perdonare l'uomo che gli ha reso la vita impossibile?
Genere: Azione, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Fine, Nuovo Personaggio, Shade, Un po' tutti
Note: AU, OOC, Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Rebel'
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28. Anime nere
 
L'ambiente angusto dove il ragazzo si trovava era dominato dall'oscurità e dal tanfo di escrementi. L'umidità s’insinuava sotto la pelle rendendolo ancor più indolenzito e svogliato. Appoggiò la testa alla parete ruvida dietro si sé e tirò un lungo sospiro. Si lasciò andare allo sconforto mentre ripercorreva gli avvenimenti dell'ultimo mese: per salvare la donna che amava, l'aveva imprigionata nella tana del nemico il quale aveva approfittato della situazione per renderlo assoggettato al suo volere e, ora, doveva uccidere una delle poche persone a cui era davvero affezionato. Tirò un pugno all’indietro e la parete gli graffiò le mani callose. Come diavolo aveva fatto a finire in quella situazione?
Estrasse il sottile pugnale che teneva nello stivale e lo rigirò nervoso tra le dita. I polpastrelli seguirono le linee di elaborati ghirigori fino a trovare una piccola incisione sull'elsa; la totale mancanza di luce non gli permetteva di scorgerla ma sapeva bene di cosa si trattava: era una "c" malamente disegnata.
Una smorfia gli contrasse le labbra sottili. La sua vita era sempre stata un susseguirsi di eventi traumatici, incontri devianti e scelte sbagliate, ma Black sapeva fin troppo bene quale - chi - era la fonte delle sue disgrazie, e come tutto era cominciato: il giorno in cui aveva incontrato lei.
 
Mani sporche di fango e tremolanti si stendevano verso il cielo. Raggrinzite, cercavano di afferrare il mantello o la casacca di qualche passante che, al richiamo flebile e supplichevole del piccolo mendicante, si scansavano disgustati. Piccole gocce di pioggia solcavano le gote del viso pallido e scarnito. Il bambino tossì violentemente stringendosi nella maglia bucherellata che indossava. Un fulmine lo fece sussultare e, scorgendo i cirri neri oltre i tetti delle case, decise di mettersi al riparo. Individuò alcune casse in un angolo della via, posate sotto una sottile tettoia e si raggomitolò tra il legno. Un’altra giornata era finita e il bottino che aveva racimolato consisteva in un tozzo di pane e una moneta di rame. Addentò avido il cibo mentre un grosso ratto sfilava davanti a lui. L’animale si fermò, osservando l’estraneo, e, attirato dal profumo di cereali, si avvicinò.
- Via! Sciò! -, tentò il ragazzino agitando le braccia.
Le sue deboli dita, però, si lasciarono sfuggire il pane che cadde nel fango. Il topo si fiondò sulla preda e sgattaiolò via. Il bambino sospirò affranto, togliendosi dal viso i corvini capelli bagnati. Gli sfuggì una lacrima di sconforto e un forte singhiozzo. Si asciugò velocemente le guance. Doveva essere forte, sopravvivere, anche se non ne aveva un vero motivo. Non aveva un nome, un’identità, non si ricordava il suo passato e, probabilmente, sarebbe morto proprio tra quei legni, quella notte. Eppure, le menti dei bambini viaggiano veloci, fantasticando su mondi e vite possibili, e nel suo cuore sperava che le cose sarebbero cambiate, che avrebbe avuto una famiglia, una madre, come aveva visto spiando nelle finestre delle abitazioni. Era bravo a non farsi vedere, silenzioso come un ratto, anche se odiava quei sudici animali. Alzò lo sguardo sulla via principale, per analizzare la situazione e vedere se riusciva a trovare un riparo migliore, magari un po' più caldo e asciutto. La sua attenzione fu attratta da una figura in un angolo. Era avvolta in un mantello nero come la pece e il cappuccio era calato sul viso. Non era la prima volta che la vedeva e aveva la strana e inquietante sensazione che lo osservasse. L'ombra iniziò ad avvicinarsi. Il piccolo tentò di nascondersi tra le casse. Gli era più volte capitato di essere aggredito da alcune guardie reali, reduci di una sbornia; nonostante lo sconosciuto non indossasse ferraglia era sicuro di non voler ripetere l'esperienza. La figura era sempre più vicina. Brandì il pugnale dagli stivali bucati che portava ai piedi. Quello era l’unico oggetto che gli era rimasto della sua vita passata e lo tenne convulsamente davanti a sè, in un tentativo di difesa probabilmente inutile. Chiuse gli occhi, sperando di non essere visto, che quello fosse solo un orribile incubo dato dall’insonnia, mentre il cuore batteva all’impazzata.
Le braccia che lo afferrarono per le spalle, però, erano fin troppo reali. Cominciò a dimenarsi e a far roteare la lama tra sè e il suo avventore.
- Ehi! Fermo… -, lo invitò una voce calda e gentile.
Quel suono spinse il piccolo a puntare le sue iridi verdi sull’estraneo. Una giovane donna lo guardava apprensiva, accucciata alla sua altezza. Gli occhi blu erano dolci, magnetici, e le labbra incurvate in un tenero sorriso. Una cascata di lisci capelli castani contornava un viso bello ed elegante. Questa accarezzò lievemente le guance del bambino.
- Che ci fai qui, piccolino? Quanti anni hai? Sette?-
Il bambino corrugò la fronte, diffidente a quelle attenzioni. Quella donna era gentile con lui, si sentiva bene al suo tocco leggero, ma poteva davvero fidarsi? Era così che ci si sentiva ad avere una madre? Qualcuno che si prenda cura di te? Perché a nessuno era mai fregato niente di lui. Era stato abbandonato ed era completamente solo e perso.
- Come ti chiami? -, ritentò la donna sperando di riuscire a convincerlo delle sue buone intenzioni.
- Io sono Snow e voglio solo aiutarti, se me lo permetterai. Conosco un posto sicuro e asciutto che potrà diventare la tua casa. Se non ti piacerà, non sarai obbligato a restare. –
- Non voglio andare in un orfanotrofio. -, borbottò infine il piccolo persuaso da quelle dolci attenzioni.
La giovane rise calorosamente.
- Oh puoi star tranquillo! La Compagnia è di tutto tranne che un orfanotrofio. Ti daremo cibo, vestiti puliti, t’insegneremo a combattere e a vivere degnamente. L’unica cosa che ti chiediamo in cambio è di svolgere qualche compito particolare. –
- Perché io?-
Il morettino sapeva che non era solo un atto di carità. Il sospetto era confermato: quella donna lo stava tenendo d'occhio da qualche tempo. Voleva qualcosa da lui e prima di cedere ai propri bisogni - cibo, acqua, affetto - doveva sapere cosa avrebbe dato in cambio.
La castana sorrise, divertita.
- Sei sveglio, come immaginavo. L’amore e i legami affettivi ti rendono solo debole, vulnerabile, e tu non ne hai. Abbiamo bisogno di una persona come te. Potresti diventare il migliore. –
Snow stese le gambe, ergendosi nella sua altezza. La ragazza doveva avere circa quindici anni. Porse la mano al bambino con un caldo sorriso per invitarlo ad accettare la sua proposta. Il moro esitò.
- Io non ho un nome. -, volle puntualizzare.
Era la prima volta che qualcuno gli dava importanza, che lo faceva sentire necessario; una necessità pericolosa, però, e gli faceva paura perdere il suo anonimato.
La donna alzò le spalle, disinteressata.
- Sai, sono pochi quelli che hanno il privilegio di scegliere il proprio nome, il proprio destino. Io ti sto dando quest’opportunità. -
Poi, avvolse in una dolce occhiata il bambino.
- Quindi, come ti chiami "straniero"? -
Questo si ritrovò a sorridere per la prima volta dopo tanto tempo. Doveva scegliere il suo nome accuratamente.
- Black. -, sentenziò, infine, per poi afferrare le calde dita della ragazza ancora stese verso di lui.
 
La Compagnia lo aveva curato, aveva soddisfatto i suoi bisogni, ma con il senno di poi, forse, sarebbe stato meglio morire quel giorno, in mezzo a delle casse, con i topi che gli rosicchiavano le dita; perché il prezzo che aveva pagato, che stava pagando, era troppo altro.
All’epoca, la nobiltà, stanca degli scandali e desiderosa di assumere il potere sul regno, si stava organizzando per conquistare la capitale e spodestare Grace. Spie e assassini erano particolarmente richiesti e la Compagnia offriva i migliori. Aveva adepti in ogni angolo del regno e, con l’aumentare della richiesta, in molti, come Snow, cercavano piccoli aiutanti, ragazzini senza volto e senza famiglia che avrebbero fatto il lavoro sporco al posto dei loro padroni. Così, Black era diventato il suo schiavo, il suo fedele servo, e un assassino. Il moro ne era stato inizialmente entusiasta; le sue abilità e il suo valore erano finalmente riconosciuti. Sotto lo sguardo attento della sua insegnante, non aveva esitato a compiere il suo primo furto o colpire a morte un mercante ubriaco nel suo letto. All’epoca non sapeva che quello sarebbe stato il primo di tanti, tantissimi omicidi; non conosceva nulla del suo destino, come non sapeva niente del passato; aveva solo il presente e una donna bellissima e terribile al suo fianco. Snow era intelligente e affettuosa. In quegli anni era stata una mamma, una confidente e, poi, anche un’amante. Se Black si era dimenticato presto di aver a che fare con un membro della Compagnia, la donna, al contrario, non aveva scordato che il ragazzo era un suo sottoposto. L’aveva circuito, lo aveva fatto innamorare – se di amore si poteva parlare - e lo aveva reso totalmente dipendente da lei. Così, il moro si era sporcato le mani di sangue al posto della sua padrona, tanto  che queste erano diventate grondanti e la sua anima nera.
Poi, Snow era morta lasciando un profondo vuoto nella sua vita.
Quei ricordi sembravano così lontani nell’oscurità che lo avvolgeva. Black si passò una mano sul volto, sospirando silenziosamente. 
Per anni aveva vagato in lungo e in largo nel regno, cercando di ricostruirsi una vita. E proprio nel momento in cui non aveva più speranza, aveva incontrato Lione.
Un sorriso si fece largo sulle labbra del giovane. Un sorriso che si trasformò presto in una smorfia disgustata; era disgustato da se stesso. Le immagini dell’ultimo incontro che aveva avuto con l’arancio e le sue parole velenose gli vorticavano ancora davanti agli occhi.
Si strinse la testa tra le braccia. Aveva sbagliato tutto con lei. Anche se fosse riuscito a salvarla dalle grinfie di quel bastardo di Aaron, riconquistarla non sarebbe stato facile. Aveva cancellato, in un solo istante, tutto ciò che avevano costruito. Avrebbe dovuto riguadagnare la sua fiducia ma non ne aveva la forza. Black si morse un labbro e trattenne il singhiozzo che, crudele, voleva risalire la sua gola. Non aveva la forza e la sfacciataggine sufficiente per tornare a scorgere quegli occhi nocciola, che in un battito di ciglia lo avevano fatto innamorare; non dopo avervi letto la totale delusione e il risentimento della ragazza. Pensava di averlo fatto per il bene di lei ma, sì, il suo era stato puro egoismo. Quelle iridi calde non l’avrebbero mai più guardato con dolcezza e affetto, o con la passione che solo lei, con uno sguardo, riusciva a suscitare. Lione aveva sostituito l’opprimente presenza di Snow nel suo cuore come un vento leggero, primaverile, che porta il profumo dei fiori; si era insidiata nella sua anima che era tornata a respirare, dopo aver soffocato per anni nell’oscurità; ma, ora, tutto era perduto.
Black si chiese se ne valesse davvero la pena di lottare ancora. Se non fosse più saggio andarsene, lasciare tutto com’era e sperare che con il tempo Lione lo perdonasse. Era piuttosto sicuro che i ribelli avrebbero vinto ma se l’arancio fosse morta durante la battaglia? Davvero era pronto a lasciarsi indietro la vita con lei, l’unico futuro che Black era riuscito a scorgere all’orizzonte? E salvarla, se mai Aaron avesse mantenuto la sua parola, ripagava la perdita della morte di Camelot?
L’attenzione del moro venne, finalmente, allontanata dai propri pensieri e focalizzata su una fiaccola che percorreva il corridoio adiacente. Si alzò dal suo rifugio, analizzando la situazione.
La fioca luce illuminava un viso segnato dagli anni ma sorridente e fiero. Black sorrise tristemente tra sé. Per la seconda volta in pochi giorni sarebbe stato a faccia a faccia con Camelot ma, ora, non poteva più sbagliare. Avrebbe potuto lanciare, velocemente, la piccola lama che teneva fra le dita. Avrebbe colpito la donna all’altezza della scapola sinistra, passando tra le costole e trafiggendo il cuore. La vecchia non si sarebbe nemmeno accorta di quello che stava succedendo e lui, avrebbe portato la sua testa ad Aaron.
Eppure, i piedi camminarono per conto proprio, silenziosi come sempre, seguendo la sua preda. In pochi minuti arrivò nell’alloggio di Camelot, dove la donna si era seduta a un traballante tavolino, al lume di una candela.
- Ti stavo aspettando. -, la sentì dire con voce roca, scrutando nell’oscurità.
L’uomo fece qualche passo avanti, permettendo che la debole luce della stanza lo illuminasse. Si calò il cappuccio e si sedette di fronte all’anziana.
- Cosa ti è successo ieri? -, continuò la donna alludendo allo scontro che c’era stato tra guardie reali e ribelli nella caserma di Lilian.
Lei e alcuni uomini avevano fatto irruzione dello stabile per sequestrare le armi e si erano scontrati con i soldati, guidati da Black.
- Ho sentito che il Re ti considera come un figlioccio. Sei riuscito a conquistarlo, quindi. Ciò ci tornerà utile. –
- Mi ha dato il compito di ucciderti, Camelot. E se non lo faccio, perderò la donna della mia vita. –
A quelle parole la donna strabuzzò gli occhi per poi assottigliarli, sospettosa.
- Sbaglio o sei stato tu a imprigionare Lione? –
- Pensavo di potermi fidare di Aaron ma, nonostante l’affetto che dice di provare per me, non si è lasciato ingannare. Mi ha portato via Lione e, in cambio della sua liberazione, vuole che gli porti la tua testa. –
- Ha solo usato a suo favore la tua debolezza. Tipico di lui. -, commentò sovrappensiero la vecchia governante.
Dopotutto, Aaron era cresciuto con lei e in quegli anni di scontri e ripicche, poteva dire di conoscerlo profondamente.
- Ormai, non ne vale più la pena di lottare. Lione non mi perdonerà mai per ciò che ho fatto. Per quello che farò. –, sussurrò il ragazzo, quasi stesse parlando tra sé.
Nella piccola stanza calò il silenzio. L’unico rumore erano i passi dei ribelli che camminavano tra il lerciume delle fogne per sorvegliare la base sotterranea. Gli occhi verdi di Black si posarono vigili sul viso di Camelot. La donna osservava, assorta, le incanalature del legno. Poi, con un sospiro, si sciolse lo chignon che legava i suoi lunghi capelli brizzolati. La luce della candela rivelava un viso scavato dagli anni, in contrasto con il vigore dei suoi muscoli e la determinazione degli occhi scuri.
- Perché non chiudiamo subito questa storia, Black? Uccidimi, forza, non mi opporrò, se è questo ciò che vuoi. -, assentì la vecchia con un ghigno indifferente stampato sulle labbra.
- Non posso Camelot. –
Ecco che un sorriso triste cominciò a spuntare sul volto della donna.
- Allora, comincio a capire perché Aaron ti ha dato questo compito. –
Black si sporse sul tavolo, con le sopracciglia aggrottate, confuso.
- Cioè? –
- Lione non è il tuo unico punto debole, o sbaglio? –
Anche il moro sorrise, un sorriso timido che spinse l’anziana  a continuare.
- Sinceramente, per quanto anch’io mi sia affezionata a te in questi anni, non ho mai compreso fino in fondo la tua fedeltà. Quando sei entrato da quel corridoio, per la prima volta, in compagnia di Lione, ho subito pensato che tu fossi un’anima in pena. Un’anima che cominciava a guarire, certo, - ho subito notato gli sguardi che ti scambiavi con quella ragazza-, ma eri alla ricerca di qualcosa. Un qualcosa che probabilmente hai trovato tra queste sudicie mura. Toglimi questa curiosità. –
La richiesta di Camelot non era diretta e lasciava comunque a Black l’opportunità di non dire nulla, ma, il ragazzo, estrasse il suo amato pugnale dallo stivale.
Lo appoggiò accuratamente sul tavolo che si trovava tra loro e con una leggera spinta delle dita, lo avvicinò alla ribelle.
Gli occhi di Camelot si concentrarono per qualche secondo sull’oggetto. L’espressione divertita che la donna aveva, si trasformò velocemente in duro ghiaccio.
- Dove l’hai preso? -, domandò acida e con una mossa, riportò la lama più vicina al suo proprietario.
Black rizzò le spalle, stupito.
- Non vuoi vederlo meglio? –
All’arricciare delle labbra della donna, il moro decise di rispondere alla sua domanda.
- Immagino tu sappia di cosa si tratti. Bene. -, cominciò il ragazzo muovendosi agitato sulla sedia.
- Quest’oggetto è l’unica cosa che mi rimane della mia infanzia. Un’infanzia di cui io non ho ricordi. Black non è il mio vero nome, non so da dove vengo e che fine hanno fatto i miei genitori. Da che posso rimembrare, quel pugnale è sempre stato con me e non me ne sono mai separato. –
- Quanti anni hai? -, la voce di Camelot era flebile e gli occhi umidi.
- Circa ventisette. Quando venni trovato avevo sette anni e vivevo in strada. –
- Non è possibile… -
Lo sguardo della ribelle era perso nel vuoto, nel ricordare una vita lontana e immagini dolorose. Poi, si alzò di scatto, sbattendo il palmo della mano sul tavolo.
- Perché me lo stai dicendo solo ora? Dopo tutto questo tempo… -
Gli occhi dell’anziana erano ormai grondanti di lacrime.
- Cosa ti dovevo dire? “Ciao nonna! Credo di essere tuo nipote?”. -, rispose con un acuto il giovane. - Non è da me Camelot, non dopo aver sofferto per anni il desiderio e il terrore di essere amato. In più, con ciò che faccio, ti avrei messo in pericolo. –
Anche Black si era ormai alzato in piedi e l’anziana donna lo raggiunse in pochi passi. Dal basso della sua vecchiaia, prese il viso del giovane tra le mani. Per quanto la rabbia cercasse di prevalere negli occhi di Camelot, il moro poteva scorgere una luce di calore che gli fece contorcere lo stomaco.
- Hai gli stessi occhi di mio figlio. -, sussurrò la donna, come se fosse in trance.
Black si era chiesto tante volte come sarebbe stato rivelare a sua nonna – com’era strano solo pensare quell’aggettivo – la verità ma, nonostante le supposizioni, nulla avrebbe potuto prepararlo a quel momento, alla conferma di avere un parente, sangue del proprio sangue, che lo amasse incondizionatamente anche se non lo meritava, anche se era strano e, anche, se era un assassino senza morale, un codardo. La vista del ragazzo divenne appannata ma, prima di lasciarsi andare a quel piacere, alla felicità di tenere tra le braccia sua nonna, doveva sapere.
- Perché sono stato abbandonato? -, sussurrò flebilmente.
La donna che reggeva tra le braccia si lasciò andare a un singulto e appoggiò le sue mani ruvide sul petto di Black.
- Durante l’epidemia, tu avevi due anni, mio figlio morì. -, un altro singhiozzo scosse le spalle di Camelot.
- Tua madre era troppo sconfortata all’idea di vivere senza di lui e se ne andò, sparì, con la paura che anche a te potesse capitare la stessa sorte. Io, all’epoca, non avevo i mezzi per cercarvi e fu solo quando entrai al castello che riuscii a rintracciarvi. Vi trovai sul ciglio della strada, infreddoliti e sporchi, ma tu sembravi sano. Cercai di convincere Elly a tornare a vivere insieme, spiegandogli che l’epidemia era passata e che avevo trovato la cura. Mi accusò di aver ucciso mio figlio, di non essermi impegnata abbastanza per salvarlo. Era come impazzita e non potei far niente se non lasciargli il pugnale che ora tu porti con te e che mi era stato donato da Grace come pegno della nostra amicizia, forgiato dal miglior fabbro del regno. Lasciarvi in quello stato, andarmene senza provare ancora a convincere tua madre a seguirmi, è stato l’errore più grande della mia vita. Dopo qualche anno, mi giunse notizia che Elly era morta e di te, nessuno sapeva nulla. Ho perso ogni speranza. Fino ad oggi. Sia benedetto questo giorno, ragazzo mio, piccolo Phoenix, sei tornato da me. –
- Phoenix?-, ripeté, stranito, il moro.
Vide l’anziana sorridere tra le lacrime.
- E’ il tuo vero nome, figliolo. E ora che ci siamo ritrovati, combatteremo insieme per la ribellione, contro Aaron. -, continuò Camelot entusiasta dalla scoperta di avere con sé suo nipote.
Lo abbracciò convulsamente mentre le lacrime bagnavano grondanti il mantello pece dell’uomo.
In un istante, la serenità del suo viso fu contorta in una smorfia di dolore. Camelot si lasciò sfuggire un respiro smorzato, si allontanò dal nipote e, con occhi grondanti di lacrime, abbassò lo sguardo al suo stomaco. Il pugnale, che la sua amata regina gli aveva regalato anni prima, era, ora, dolorosamente conficcato nelle sue carni mentre il sangue macchiava avido la tunica lercia che indossava. Tornò ad alzare lo sguardo, per posare gli occhi scuri sul viso di Black.
L’uomo la teneva stretta per le spalle, per impedirle di cadere, e le iridi chiare erano impastate dalle lacrime salate che grondavano sulle gote del moro.
- Mi dispiace… -, sussurrò appena Black, facendo calare la vecchia ribelle sulla sedia.
S’inginocchiò ai suoi piedi e tenne strette le mani della donna tra le sue.
- Mi dispiace, Camelot. Ho dovuto farlo, devo salvare Lione e questo è l’unico modo. Mi dispiace… mi dispiace… -, e i singhiozzi si fecero più acuti.
L’anziana allontanò una mano da quella del nipote e con le dita tremanti gli accarezzò lieve una gota. Gli regalò un dolce sorriso.
- Phoenix. -, sibilò per poi accasciarsi sulla sedia nell’ultimo spiro.
 
 
La maniglia della porta fu abbassata dall’esterno e nella stanza, ormai disabitata, riecheggiò il rumore della serratura. L’ambiente era buio e con pochi passi l’uomo si avviò verso la finestra per aprire le tende: al debole chiarore della luna, i pulviscoli vorticavano nell’aria stagnante. Finalmente, potè scorgere i profili dei pregiati mobili, del letto a baldacchino, e, sovrappensiero, si avvicinò al grande specchio che si trovava in un angolo. Su una mensola erano posati la spazzola e i lacci per i capelli, come se tutto fosse in sospeso, come se quegli oggetti aspettassero pazienti di essere riutilizzati dalla loro proprietaria. L’uomo si spostò ancora e accarezzò lievemente la cornice della grande superficie riflettente. Sui polpastrelli rimasero dei residui di polvere ma la sua attenzione, ormai, era catturata dalla propria immagine riflessa. Indossava abiti regali, pelli di volpe e stivali di cuoio duro, finemente elaborato. Il viso era segnato da diverse rughe che contornavano le labbra e, soprattutto, gli occhi. Le iridi scure vagarono su ogni particolare fino ad arrivare alla corona che l’uomo portava fieramente sulla testa.
Sospirò rumorosamente e una mano afferrò quel prezioso oggetto, togliendolo. Si rigirò la corona tra le dita, esaminando ogni particolare e ogni pietra incastonata. Poi, riportò lo sguardo su se stesso. Il metallo aveva scavato tra i suoi capelli, creando un’aureola glabra tra i crini castani. Senza quello stupido oggetto era un uomo qualunque, un uomo vulnerabile e solo, abbandonato dal suo stesso figlio. Bright era stato la sua delusione più grande: dopo aver infangato il nome della famiglia, aver ucciso centinaia di perone e aver ottenuto tutto il potere solo per il bene e il futuro di suo figlio, questo se ne era andato. Aaron si lasciò andare a una risata acuta. Con Bright aveva fallito ma una soddisfazione se l’era presa.
La nostalgia che provava per sua nipote l’aveva condotto in quella stanza ma capì che non si trattava solo d quello. Fine era stato il suo cruccio, l’inconveniente di un piano che prevedeva la morte di tutti i legittimi eredi. Eppure, davanti alla sua innocenza di bambina e alla soddisfazione di vedere ogni giorno sul suo tenero viso il dolore dovuto alla morte dei genitori, l’aveva risparmiata. Dopotutto che male avrebbe potuto fare: Aaron aveva costruito un intero mondo di bugie intorno a lei. Negli anni si era affezionato, l’aveva amata come non aveva mai amato nemmeno suo figlio, nonostante man mano che la principessa cresceva scorgeva nei suoi lineamenti il volto di Elsa e in quelle iridi di fuoco lo sguardo della sorella che lo giudicava e lo accusava. Eppure, era stato proprio in quello sguardo duro e glaciale che aveva scorto la donna, la regina, che si celava dietro le fattezze di una ragazzina. Fine l’aveva reso fiero, orgoglioso, l’aveva reso il padre che non era mai stato. Anche il giorno della sua fuga, oltre che alla rabbia, si era fatto spazio del suo cuore anche il timore e la soddisfazione di aver finalmente trovato una rivale degna di lui.
Aaron posò malamente la corona su un mobile e afferrò la spazzola che apparteneva alla principessa. Con un sorriso distratto si sedette sul letto e cominciò ad accarezzare il legno dell’impugnatura dell’oggetto.
Non vedeva l’ora di poter scorgere di nuovo quegli occhi rubini.


Buongiorno!
Se siete sopravvissute a questo capitolo e siete arrivate a leggere l'angolo dell'autrice vi faccio infinitamente i miei complimenti. Questo capitolo è lunghissimo, complesso, pieno di infomrazioni e di fatti da assimilare. Probabilmente ciò non va a giustificare la mia assenza ma, in compenso, per farmi personare, ho creato una cosina che sono sicura che vi piacerà. Se non avete avuto ancora modo di leggerlo vi inserisco il link:
http://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3368501&i=1
Antipodi è la sotira di Lione e Black che per una questione di logistica e lunghezza non sono riuscita ad inserire in questo capitolo. Così mi è venuta la malsana idea di creare una nuova ff con questi due personaggi come protagonisti. Vi invito caldamente a leggerla e magari a farmi qualche commentino.
Tornando al capitolo, ero molto combattuta sulla morte di Camelot ma alla fine ho deciso che era l'ideale, soprattutto per le dinamiche della storia. Ora, le lettrici attente sapranno che in realtà Lione è stata liberata ma ciò farà nascere tutta una serie di meccanismi decismaente interessanti. In più scopriamo che Camelot è la nonnina di Black. Fatemi sapere cosa ne pensate di questo colpo di scena, forse un po' forzato... ma, insomma, ditemi voi.
In oltre, per chiarire meglio, la Compagnia è una sorta di setta degli assassini, un gruppo di mercenari che uccide gente per soldi. Nel capitolo ho spiegato brevemente la dinamica, come della morte di Snow ma saranno tutti temi che invece nello spin-off saranno trattati in maniera ampia.
Poi, nella seconda parte ritroviamo Aaron. Mi era mancato scrivere di lui e vorrei proprio sapere che idea vi siete fatte dopo aver letto questo piccolo estratto.
La fine, seppur in maniera lenta, si sta avvicinando.
Ora, spero davvero di essermi fatta perdonare. Il mio ritardo di 3 mesi è imbarazzante e so per certo che vorreste picchiarmi con forconi e mazze. Come ho spiegato ad alcune di voi, sono stata davvero presa da molte cose, prima fra tutte l'università che non mi da pace. Il prossimo capitolo (dove torneranno Shade e Fine) é in fase di stesura. Non vi prometto la puntualità, non vi prometto che tra due settimane ci sarà un aggiornamento; però, vi prometto che mi impegnerò per far si che un aggiornamento ci sia il prima possibile, anche in base ai miei tempi.
Grazie per il sostegno che mi avete dato, grazie per aver messo la mia storia tra i preferiti e i seguiti e le ricordate. Grazie di aver recensito e di avermi, con le vostre parole, dato una spinta in più per portare a compimento questo progetto.
Grazie, grazie e ancora grazie.
Inoltre, se volete lasciarmi una recensione anche questo giro ve ne sarò eternamente grata
un bacio e buona domenica
Ele
  
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