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Autore: FreienFall    05/02/2016    1 recensioni
Ho fatto una scelta e ora sono come sono.
Ho abbandonato il superfluo, eliminato l'indispensabile, per dedicarmi solo alle cose importanti. Non ho tempo per niente e per nessuno.
"Qualcosa non mi torna, qualcosa mi sfugge, c’è qualcosa di quel ragazzo che mi attira; non riesco a capire, più ci penso e più rimango incatenato al dubbio."
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bill Kaulitz, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutti, ho dovuto interrompere temporaneamente l'altra FF a cui lavoro perché ho sognato una parte di questa nuova storia e ho sentito il bisogno si scriverla immediatamente. Spero vi piaccia e che lasciate delle recensioni. Buona lettura! Chiara. :)

Unspoken
 
«Hey Tom, vieni a vedere! Klaus sta picchiando uno del primo anno!»
Quel coglione di Markus interrompe gli accordi precisi che intono con la mia Gibson per una stupida rissa … come se non ne avessi viste già un centinaio nei cinque anni che ho trascorso in questa scuola. Alzo lo sguardo indifferente e annoiato verso il sorriso ebete del mio amico idiota «Sai che novità Mark! Klaus non fa altro da mesi, che cosa ha combinato il poveraccio di oggi per meritarsi i pugni?» chiedo con voce fredda, guardando un punto nel vuoto alla mia destra, ancora seduto sul gradino del cortile con le spalle poggiate al muro della palestra e la visiera del cappello calata sullo sguardo, assolutamente impassibile al trambusto che sento in lontananza. «Dai Tom alzati, questa non puoi perderla! A quanto pare è stato il novellino a cominciare perché Klaus aveva detto qualcosa su sua madre o sua sorella, ora non ricordo …» si ferma un attimo pensieroso senza togliersi quell’espressione da demente, forse dovuta anche alle sue guance paffute sempre rosse e ai suoi occhi tondi come biglie. Madre natura si era davvero divertita con lui, regalandogli quella bella faccia sempre inebetita. «Ma che importa, sbrigati!» mi fa un cenno e poi si volta correndo verso la folla di curiosi.

Poso la chitarra alla mia destra, tiro su i jeans decisamente fuori misura dalle ginocchia e mi alzo, tanto ormai ho perso la calma per suonare. Cammino lento verso la folla, nessuno mi nota e piano piano mi faccio largo tra gli studenti acclamanti. Arrivato in prima fila, vedo Klaus in tutto il suo metro e novanta centimetri di possenza sovrastare materialmente un ragazzo gracilino, troppo basso anche per essere uno del primo anno e con la prestanza fisica di un lanciatore di coriandoli. Strano che non ho notato prima il novellino, con quella t-shirt oversize che arriva quasi alle ginocchia, i jeans neri attillati e il berretto NY Yankees sembra proprio il mix perfetto tra il mio stile e quello di mio fratello.
La matricola, con le spalle a terra e probabilmente quasi soffocato dalla massa muscolare di Klaus, si dimena cercando di prenderlo a cazzotti in faccia ma è completamente scoordinato: per ogni volta che agita le braccia senza colpirlo si becca un colpo preciso e potente in pancia. «Hey ma da quanto va avanti così?» chiedo con un cenno alla spalla di quello che mi sta a fianco, il quale senza nemmeno voltarsi mi risponde che erano almeno cinque minuti buoni che il piccoletto le prendeva. Mi guardo intorno in quel mucchio esaltato e trovo Johan e Joseph, amici d’infanzia, inseparabili, per la mole di ottanta kili l’uno, che raggiungo con due passi di corsa. «Ragazzi direi che la cosa è durata abbastanza, voi prendete Klaus, io penso al novellino- esordisco imperativo, senza essere in qualche modo partecipe o coinvolto, mosso solo da un distaccato e moderato senso del dovere. Le loro espressioni si susseguono identiche tra loro: prima sorpresa, poi disappunto, poi abnegazione «Che palle Tom, sempre a rovinare la festa!» si lamenta Joseph ma comunque mi segue mentre mi avvicino al centro del cerchio, dove il piccoletto aveva appena preso un sinistro sullo zigomo per essere riuscito a centrare con uno dei suoi il naso di Klaus.

Faccio un gesto ai due bodyguard che si avventano su Klaus, il quale urla e sbraita, dimenando braccia e gambe e imprecando cose irripetibili. Io mi getto sul ragazzo ancora a terra «Hey tutto bene? Alzati forza» lo acchiappo per le ascelle e lo tiro su, avendo conferma del fatto che non poteva pesare più di cinquanta kili. Non oppone resistenza ma il suo sguardo è ancora pieno d’odio mentre lo trascino verso la palestra, dove prendo la chitarra per poi allontanarmi ancora.
Mi fermo alla fontanella dietro la palestra «Sciacquati la faccia che sei tutto pieno di terra- indico l’acqua trasparente che sgorga «Hai scelto di gran lunga la persona sbagliata con cui fare a botte, direi che ti ha conciato per le feste!» lo guardo con occhi di rimprovero, come se fossi suo padre. «Quel coglione ha davvero esagerato, non doveva permettersi! E si può sapere chi ti ha chiesto di intervenire? Guarda che me la cavavo perfettamente, dovevi lasciarmi stare! Gliela avrei fatta pagare anche a costo di svenire!» mi urla due centimetri dalla faccia, gesticolando animatamente con il fiatone per la rabbia. Non mi tocca, può dire ciò che vuole, ho fatto quello che andava fatto e lo sa meglio di me. «Come vuoi ragazzino, ma pensa a dove saresti adesso se io non fossi intervenuto. Ora lavati la faccia e riprendi il controllo» nemmeno alzo la voce, ormai l’indifferenza è la mia carta Jolly per ogni situazione; la sua rabbia, il suo risentimento sono estranei a me, non m’interessa né di lui né dei suoi problemi.

Il ragazzo porta le mani al viso che acquista nuovo rossore con il contatto con l’acqua gelida; si butta a terra con la testa tra le mani in silenzio, mentre io mi accendo una sigaretta con un lungo tiro. Fumo con calma, guardandomi intorno con tranquillità e quello ancora non si muove; che tipo strano: uno che fa a botte con il più grosso della scuola, famoso per le costole incrinate e i sopraccigli rotti, e dopo averle prese non se ne pente ma vorrebbe solo tornare a picchiarlo. Sento il calore della sua rabbia pervaderlo e imporsi come un muro contro tutto quello che gli sta intorno, quella forza vitale, quello slancio passionale si scontra anche con me. Io ho smesso di struggermi, ho smesso di devastarmi con le emozioni. Ognuna di queste è distruttiva, è un tornado che polverizza ogni cosa. Non mi troverò più a terra, non sarò più annientato, io devo essere il pilastro, io sono quello che deve restare in piedi, quello su cui appoggiarsi, su cui fare affidamento, per una sola persona però, per mio fratello. Lui ha bisogno di me interamente concentrato su di lui, attento solo al suo bene; abbiamo sofferto troppo entrambi, siamo stati sconfitti, sbaragliati, annullati, abbiamo scavato nel fondo del burrone nel quale eravamo caduti. Uno dei due ha dovuto tirare su entrambi e sono stato io: il giorno in cui l’ho fatto ho giurato che niente assolutamente niente avrebbe potuto farmi tornare in quello stato di oblio di dolore e di nichilismo della personalità. Nulla mi avrebbe più toccato, nessuno avrebbe più meritato la mia compassione o comprensione se non Bill.

Getto a terra la sigaretta e la spengo con la scarpa, i movimenti nervosi forse un po’ tradiscono i miei pensieri al di fuori del mio sguardo freddo «Ok senti io me ne vado è stato un piacere» la mia voce è calma ma le mie mani strofinano irrequiete i pantaloni. Faccio per andarmene «Senti mi dispiace avrei dovuto ringraziarti per avermi tirato fuori da quel pasticcio» ora il ragazzo è in piedi davanti a me e si tortura le mani senza tuttavia abbassare gli occhi verde scuro come la chioma dei pini, puntati fissamente dentro i miei. «Tranquillo siamo a posto, ora devo andare davvero» una sorta di turbamento mi sale dalle estremità del corpo, sento come una puntura di spillo dietro la nuca. Qualcosa non mi torna, qualcosa mi sfugge, c’è qualcosa di quel ragazzo che mi attira; non riesco a capire, più ci penso e più rimango incatenato al dubbio. Colgo l’avvertimento del mio corpo, qualunque cosa sia non voglio approfondire, non devo approfondire, devo solo andare via.
«No no dai aspetta» mi trattiene un braccio ed io mi gelo ancora mente fisso il suo viso con lineamenti dolci, lo zigomo destro più rosso dell’altro, una piccola ferita al labbro inferiore, gli occhi pieni di vita, impetuosi. «Scusami per prima, ho esagerato ad urlarti contro, tu c’entri nulla. Io non volevo attaccarti in quel modo, la rabbia aveva preso il controllo di me e … davvero mi dispiace, tu sei un ragazzo a posto e non vorrei che per questo magari ti facessi un’idea sbagliata di me» il suo corpo trasuda insicurezza, dalle mani, dalla voce, solo gli occhi sono sicuri, sinceri «Comunque mi chiamo Ari piacere di conoscerti». Quasi mi si gela il sangue nelle vene.

È una ragazza.
 
   
 
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