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Autore: Adeia Di Elferas    05/02/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Il sole non era ancora alto e Milano già pulsava di vita. Caterina Sforza si aggirava con passo lento e cadenzato per le vie del centro, il viso coperto dal cappuccio del mantello.
 In realtà non aveva paura di essere riconosciuta da qualcuno. L'ultima volta che era stata in città era una ragazzina, era improbabile ch qualcuno capisse che era proprio lei. Le piaceva solo l'idea di potersene andare dove voleva senza dare troppo nell'occhio.
 Senza rendersene conto, il suo errare la portò proprio in una strada che spesso rivedeva nei suoi incubi.
 La chiesa di Santo Stefano si mostrava in tutto il suo splendore davanti a lei, illuminata dal pallido sole che cominciava ad affacciarsi tra le frastagliate nuvole che macchiavano il cielo.
 Si avvicinò al portale della chiesa chiuso. A ogni metro le sembrava di sentire ancora le acclamazioni della folla, il fracasso provocato da centinaia e centinaia di voci che chiamavano il suo nome e quello della sua famiglia. Solo pochi, lo ricordava bene, facevano il nome di suo padre.
 Risentì sulla pelle la stretta delle mani che la sfioravano e rivedeva i sorrisi e gli occhi pieni di aspettativa e poi...
 Il suo cuore cominciò a battere più rapido. Nella sua mente rivide il luccicare del pugnale e poi sentì la voce degli assassini e poi le grida di confusa paura dei presenti.
 Risentì nel petto il dolore e l'incertezza, la paura e l'incredulità provate nel vedere il sangue di suo padre bagnare l'ingresso della chiesa e poi la folla che si agitava come un fiume in piena...
 Prima di rendersene conto, si trovò appoggiata di peso proprio al portale della chiesa, nello stesso punto in cui era stato ucciso suo padre.
 “Oh, Signur! La sta bèn?” chiese una donna, alta e massiccia, che, passando di lì, aveva notato la giovane accasciarsi contro il pesante legno della porta della chiesa.
 Caterina non capì subito che stavano parlando proprio con lei. Si tolse il cappuccio e cercò di    respirare normalmente, mentre la visione da offuscata tornava nitida.
 La donna che era arrivata in suo soccorso era vestita in modo modesto e sorreggeva Caterina con mani rovinate dal lavoro.
 “La sta bèn?” ripeté, accorata.
 Caterina annuì e la ringraziò: “Non preoccupatevi, sto bene, vi ringrazio molto, siete davvero gentile a preoccuparvi per me.”
 “Per così poco...” fece la donna, quasi imbarazzata, tenendo sempre Caterina per le braccia, come a impedirle di perdere di nuovo l'equilibrio.
 “Siete stata l'unica a preoccuparsi per me. Non dimentico chi mi sta accanto nei momenti di difficoltà.” rispose Caterina, veramente grata a quella sconosciuta che le aveva impedito di svenire come una insulsa ragazzetta davanti a tutti i passanti.
 La donna la osservò con più attenzione, poi scosse il capo, come a togliersi di dosso un'idea. Caterina capì che le aveva ricordato qualcuno, ma forse le era parsa un'idea assurda.
 Le due si osservarono ancora a lungo, poi l'anziana lasciò andare Caterina e fece un cenno di saluto col capo, andandosene in fretta.
 Quando sparì dietro un angolo della strada, Caterina si rese conto che quel volto ricordava anche a lei qualcosa.
 “Petra...” sussurrò Caterina, mettendosi subito a guardare con urgenza tra la folla. Dell'infermiera della Ca' Granda, però, non c'era più traccia.
 Caterina mise un attimo la mano contro lo stipide del portone. Era freddo. Attese un momento, come a volerlo scaldare con la propria mano, ma poi si convinse a tornare a palazzo Landriani.
 Per quel giorno Milano le aveva suscitato anche troppi ricordi.

 “Sono stata alla chiesa di Santo Stefano, questa mattina.” disse Caterina, andando a sedersi accanto alla madre nel salottino del ricamo.
 Lucrezia smise imediatamente di sferruzzare e la guardò preoccupata.
 “Ci sono finita quasi per caso...” spiegò Caterina, con un sospiro: “Ma in fondo avevo bisogno di tornarci.”
 Ci fu un lungo momento di silenzio. Caterina avrebbe voluto dire a sua madre che aveva incontrato l'infermiera della Ca' Granda che le era stata vicina dopo il matrimonio con Girolamo, ma non era certa di essere in grado di sopportare un altro discorso su quel periodo della sua vita.
 Avrebbe anche voluto rintracciare quella Petra e sdebitarsi, ora che poteva, dandole del denaro o portandola con sé a Forlì, quando e sé vi avesse fatto ritorno.
 Tuttavia, era arrivata alla conclusione che sarebbe stato meno doloroso per entrambe non rivedersi mai più e dimenticare quei terribili momenti che avevano condiviso.
 “Mio padre è ancora sepolto il quella chiesa?” chiese poi la giovane.
 Caterina ricordava bene come dopo il suo assassinio, Galeazzo Maria Sforza fosse stato tumulato temporaneamente tra due colonne di quella chiesa, ma Caterina sapeva che sia Bona sia Lucrezia  volevano spostarlo, per evitargli il riposo eterno nel luogo in cui era stato strappato alla vita.
 La prima sepoltura era stata affrettata, ma necessaria, perchè il rischio che qualche rivoltoso scappato alla giustizia avrebbe potuto trafugugare il cadavere e farne scempio per ripicca.
 Così era stato pagato il prete, per il suo silenzio, e la tomba improvvisata era stata completata nell'arco di una notte.
 “No. Bona lo aveva fatto spostare qualche mese dopo...” disse Lucrezia, con un sorriso tirato: “Però non so dirti dove l'abbia fatto seppellire. Doveva comunicarmelo di persona, in gran segreto, ma alla fine non ha fatto in tempo, l'hanno rinchiusa prima che potesse svelarmi il luogo che aveva scelto.”
 Caterina sospirò: “Non importa.”
 Bona le prese le mani nelle sue e annuì: “Lui è in tutta Milano, figlia mia. Non ci serve una tomba da visitare. Il suo ricordo permea ogni angolo.” tirò su col naso: “Almeno per me.”
 Caterina non aggiunse altro e così Lucrezia cambiò argomento: “A volte mi sembra impossibile pensare che hai dei figli...” disse piano la donna, con un sorriso dolce dipinto in volto: “Parlami un po' di loro.”
 Caterina non aveva voglia di parlare dei suoi figli, men che meno con sua madre, perchè temeva che l'avrebbe giudicata male, se avesse sentito nelle sue parole qualche nota stonata.
 Amava i suoi bambini, ma ognuno di loro portava con sé anche ricordi orribili e fantasmi del passato che Caterina avrebbe voluto lasciarsi alle spalle. Ovviamente non avrebbe mai potuto farlo.
 Quindi non era una cosa facile, quella che Lucrezia le stava chiedendo di fare.
 Tuttavia non poteva rifiutare a colei che le aveva dato la vita di avere notizie sui nipoti, che non aveva mai incontrato. Così, facendosi forza, deglutì e si raddrizzò sulla sedia, liberando le mani da quelle di sua madre e cercò di parlare con la maggior franchezza possibile, ma senza eccedere.
 “Il più piccolo – cominciò Caterina, abbastanza sostenuta – si chiama Galeazzo Maria ed è nato il diciotto dicembre dell'85. Non ha nemmeno un anno e mezzo.”
 Lucrezia si sentiva emozionata a sentire finalmente dalla voce della figlia quelle cose. Leggere una lettera era una cosa diversa. La commuoveva il fatto che Caterina avesse voluto chiamare uno dei suoi figli come il padre, ma preferì non interromperla, perchè lei era come un uccellino selvatico, bisognava aspettare che si avvicinasse e, una volta vicina, bisognava evitare movimenti bruschi per non farla scappare.
 “Lui è un bambino forte e robusto, e secondo me assomiglia abbastanza a mio padre, anche se è presto per dirlo.” continuò Caterina: “Mio marito ha faticato parecchio a digerire il nome che ho scelto.”
 Lucrezia si accigliò. Aveva intuito che sua figlia avesse scelto la maggior parte dei nomi dei suoi figli, ma non pensava che l'avesse fatto andando anche contro il volere del marito.
 “Il trenta ottobre dell'anno prima è nato Livio. Giovanni Livio, in realtà, ma io lo chiamo Livio. Anche lui è forte e robusto e per il momento è vivace, ma sa obbedire.” Caterina si ricordò improvvisamente della nascita di Livio, di come lei aveva cacciato Girolamo dalla sua stanza, della rabbia che aveva provato per tutto il tempo e del dolore...
 Scuotendo un po' la testa, riprese: “Poi c'è Bianca, nata anche lei il trenta ottobre, ma dell'81.” sorrise: “Ti assomiglia moltissimo. Adesso che ha passato i cinque anni comincia anche ad avvicinarsi con un discreto successo agli studi e le piacciono le storie sui miei nonni.”
 Anche Lucrezia sorrise, felice di vedere finalmente una punta di sincero orgoglio nelle parole della figlia.
 “Poi c'è Cesare, nato il ventiquattro agosto dell'80.” Caterina stava ancora sorridendo: “Lui è stato il primo per cui ho scelto da sola il nome. Assomigliava così tanto agli Sforza che non potevo sopportare che fosse Girolamo a scegliere come chiamarlo.”
 Il viso di Lucrezia si indurì appena, ma dalle sue labbra non uscì nemmeno mezza parola.
 “Cesare è un ometto, ormai... Ha quasi sette anni ed è sveglio. E infine c'è Ottaviano.” concluse in fretta Caterina, chiudendosi poi nel silenzio.
 “E di Ottaviano cosa mi dici?” chiese Lucrezia che su quel primo nipote, negli anni, aveva fantasticato molto, chiedendosi come fosse, che aspetto avesse...
 Caterina si grattò un momento la fronte e poi rispose, con una certa freddezza: “Assomiglia molto a mio marito. Ha il suo profilo e... A volte ha i suoi stessi atteggiamenti. Quando penso a lui non posso non preoccuparmi. Nel venire qui a Milano forse avrei dovuto pensare di più a come lui avrebbe preso la mia partenza.” constatò, colpita da un pensiero repentino: “Ha sofferto più degli altri la mia lontananza, quando ero in guerra al seguito degli Orsini e forse anche questa volta non la prenderà bene...”
 “Capirà.” la consolò Lucrezia, bonaria: “Gli spiegherai tutto e capirà. Ormai ha... Quanti anni?”
 “Ne ha compiuti otto due giorni prima della mia partenza.” si ricordò improvvisamente Caterina.
 'Mentre io ero chiusa nel mio laboratorio cercando un modo per perdere il mio sesto figlio...' pensò, ma non osò rivelare questa circostanza a sua madre.
 “Ecco, è abbastanza grande per capire che a volte gli adulti devono allontanarsi da casa.” concluse Lucrezia, con semplicità.
 Caterina annuì, ma preferì non dire altro e congedarsi, dicendo di voler riposare un po', perchè la stanchezza del viaggio non l'aveva ancora abbandonata.
 Parlare dei suoi figli l'aveva fatta ricadere nello sconforto, risvegliando i fantasmi che aveva sperato di sconfiggere nell'andare a Milano da sua madre.
 Una volta sola nella sua stanza, si massaggiò l'addome, chiedendosi come sarebbe stato il suo sesto figlio. Un maschio? Una femmina? A chi sarebbe stato più simile? Agli Sforza o ai Riario?
 Mentre si coricava sulle coperte perfettamente sistemate dalle serve del palazzo Landriani, stanca e abbattuta, una sola cosa le era chiara: quello sarebbe stato il suo ultimo figlio. Questa volta per davvero.

 

   
 
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