Storie originali > Thriller
Segui la storia  |       
Autore: theuncommonreader    11/02/2016    3 recensioni
Richmond, 1879. Madeline Moon è una giovane di buona famiglia priva grandi mezzi, penosamente consapevole delle sue misere prospettive future. Per il compleanno, riceve uno splendido dono: un meraviglioso specchio intarsiato di rose, recuperato chissà da dove da quella volpe di sua zia. La superficie di vetro macchiata dal tempo finisce per mostrarle più di quanto abbia mai desiderato vedere. A lei e a chi le è caro.
---
Ti mostro non quello che sei, ma quello che vuoi.
---
Storia partecipante al contest "Malia" indetto da YUKO CHAN sul forum di EFP e betato dalla splendida Flora.
Genere: Horror, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

 

II:

The lass through the looking-glass

 

 

Ricordava il ticchettio gentile della pioggia sulle imposte chiuse, il calore delle coperte avvolte attorno al corpo come un bozzolo, e la stanchezza appesa alle ciglia che le appesantiva le palpebre mentre il sonno la inghiottiva lentamente.

Rammentava tutto questo, eppure la sua stanza era piena di luce: un candore ultraterreno più brillante di quello della neve che in inverno cadeva copiosa, stendendo su Vine Cottage la sua mano pallida.

Un attimo le pareva di essere ancora sdraiata sul materasso, nella sua camicia da notte accollata; un attimo dopo era in piedi, scalza sul legno del pavimento che le gelava la pelle accaldata.

Madeline era sola, al sicuro sotto la vecchia trapunta patchwork odorosa di canfora e lavanda; era anche in compagnia, e una figura solitaria le si ergeva di fronte, minuta e familiare, mentre un intenso profumo di rosa le solleticava il naso, delicato come la carezza di una morbida piuma – e parimenti insopportabile.

Fu solo quando si svegliò che ebbe la certezza di aver sognato.

Tra le dita, la stoffa della trapunta si increspava sotto la sua stretta convulsa e sudata; il respiro le sfuggiva lento dalle labbra, mentre le membra tremolavano tutte come la fiamma di una candela smossa da un lieve soffio di fiato.

Madeline si sedette a fatica, tentando di scuotersi via quella sensazione di formicolio che affondava fin dentro la carne. Sedendosi sul materasso affossato al centro, tirò le gambe al petto nell’oscurità totale, incrociandole di fronte a sé come a farne uno scudo.

Ogni traccia di sonno sembrava sparita.

Non aveva idea di che ora fosse ma il mattino doveva essere ancora un sogno lontano.

Respirava con cautela, attenta a non emettere rumore alcuno – fuori, la pioggia si era placata, lasciando posto all’ululare straziato del vento che si insinuava nelle fessure delle imposte producendo un suono simile a un basso gemito di gola.

Nel camino, il focolare era spento – bastano le coperte a scaldarti, Madeline cara, sprecar legna la notte non è follia da gente di senno come noi – ma le sarebbe bastato allungare la destra e cercare la candela che, ricordava bene, era ancora accesa prima che la stanchezza la vincesse; invece, teneva le mani l’una nell’altra, le dita intrecciate – così immobile sul letto da farsi dolere schiena e giunture sotto la lana della camicia.

In una vana attesa.

I primi raggi di sole si insinuarono timidamente dalla finestra, gettando nella stanza uno scialbo cono di luce. La possente ombra di una zampa della specchiera prese ad allungarsi.

Il profilo delle rose che si inerpicavano sulla cornice fiorì sul pavimento. Madeline teneva lo sguardo fisso sul vetro opaco, la sua faccia smunta che ricambiava l’occhiata.

 

 

 

 

Un giorno cattivo, due giorni, cattivi, tre. 

Le notti di attesa la logoravano – in attesa di cosa, non avrebbe saputo dire.

Forse, di quei dolci brividi di timore e anticipazione, della sensazione di venire osservata da occhi bramosi e benevoli. Solo il riflesso nello specchio ricambiava il suo sguardo che percorreva la stanza – come se la presenza che, ne aveva la totale certezza, si celava da qualche parte negli anfratti bui, nelle ombre spigolose gettate dalla cassettiera e dal letto sfatto, potesse sgusciar fuori da un momento all’altro.

Al mattino era tanto esausta da non trovare energia sufficiente neppure per scendere dabbasso – mantenersi in esercizio al piano, terminare la lettura di Dietro lo specchio [1], perfezionare i suoi schizzi sulla figura umana.

La strisciante sensazione di essere una pupilla profondamente ingrata non frenava Madeline dal dare poco conto ai commenti di zia Martha sulle occhiaie violacee sul viso troppo pallido; al furtivo segnarsi di Kate mentre, varcata la soglia della sua camera col vassoio tra le braccia forti e floride, strette nella lana scura dell’uniforme, passava davanti alla enorme specchiera intarsiata con un frusciare di crinolina. 

Madeline se ne rimaneva raggomitolata nella trapunta, senza neppure la forza o la voglia di assaggiare l’arrosto di vitello che spandeva il suo profumo succulento nell’aria pesante di chiuso.

“Guardate che vi ho portato, Miss Madeline,” cinguettava la cameriera, tirando le labbra sui denti troppo grandi – il vano tentativo di incoraggiarla a buttar giù un boccone. Madeline era profondamente consapevole di quanto fosse costato, alla zia, affondare le mani nelle tasche per procurarle qualcosa di buono al posto del solito piatto di pesce del venerdì [2], affinché le rinvigorisse l’appetito.

Ne era consapevole, ma voltava la schiena dall’altra parte, sperando che Kate sbocconcellasse un tozzo di pane e qualche pezzo di carne tenera al suo posto.

I giorni erano lunghi: il sole non calava mai abbastanza in fretta.

 

 

 

 

Di nuovo, la sera.

Con le dita, Madeline tormentava la stoffa floreale della coperta. La vivacità del disegno suscitava in lei un’ira sottile e senza nome, che intrecciava le sue spire a quel formicolare vago di timore e anticipazione che serpeggiava sotto la pelle.

Vibrava come le corde del pianoforte; aveva caldo, aveva freddo. Sudava, ma brividi creavano una trama di pelle d’oca sulla sua carne; ogni pelo del corpo era ritto sulle braccia, sulle cosce; i sottili capelli pallidi sulla nuca fremevano di anticipazione.

Provava l’acuto desiderio di alzarsi in piedi, di percorrere a grandi passi la stanza che, sentiva, le andava stretta, la soffocava; sul vassoio di porcellana candida, il brodo di pollo si era ormai freddato senza che lei ne avesse messa in corpo una goccia. Non aveva le energie di muovere un passo, ma lo stomaco se ne restava stretto in una morsa, la lingua riarsa che passava sulle labbra secche e incartapecorite.

L’agitazione la tirava allo spasimo. Gli occhi chiusi, la testa assente e lontana, il pensiero sopito; quando una mano fredda, dalle lunghe dita affusolate, si allungò a posarsi sulla sua fronte, le parve che i polpastrelli arrivassero a carezzarla nel cranio.

Levare un braccio, tendere la destra per afferrarla, le tolse quelle poche forze che non aveva idea di possedere ancora; quando la strinse tra le dita, sotto lo strato sottile di pelle gelata avvertì ossa fragili come vetro.

Madeline sollevò le palpebre incollate a fatica, percependo il fiato freddo solleticarle le guance. Il viso che incombeva su di lei era come una luna sorridente.

 

 

 

 

Ritta in piedi, Madeline la osservava incantata – intimidita da una bellezza che pari aveva visto risplendere solo da lontano mentre, nelle scintillanti sale da ballo illuminate da lampadari di cristallo di rocca, le altre Vecchie Regine [2] danzavano tra le braccia di cavalieri impomatati verso un futuro radioso.

Il profumo di rosa nell’aria era pungente, opprimente: si insinuava nelle narici di Madeline, tese a coglierne ogni sfumatura. Su di loro, il cielo era bianco come prima della pioggia, ma una luce senza fonte si irradiava tutta attorno.

Il legno del pavimento era sparito, coperto da tralci sottili di un roseto i cui fiori allargavano i petali impudicamente, inerpicandosi sulle gambe in ferro battuto del letto, sbocciando sulla trapunta patchwork, sopra la sua modesta cassettiera.

La sua spoglia camera si era fatta giardino – e la giovane di fronte a lei non era anche lei che una rosa rovesciata: lo stelo del busto avvolto strettamente nel satin nero dell’abito, le mani intrecciate alle sue come delicate foglioline pallide che spuntavano dai pizzi arricciati delle maniche; la gonna era un’ampia corolla setosa sulla crinolina.

Guardarla, le serrava il cuore in una morsa dolorosa. 

Le stava sorridendo, e il volto era, per Madeline, la parte più sconvolgente di tutte.

Era il suo.

Il suo, se un pittore le avesse affinato i tratti e dato lucentezza alle guance spente e agli occhi troppo infossati, conferito una sfumatura più profonda alla sua chioma scialba; il suo, se uno scultore le avesse levigato la pelle, addolcito la curva della bocca fino a farne un bocciolo, se le avesse lisciato i ricci della criniera.

Davvero non vedi che donna potresti essere?

Riusciva a scorgerlo, rispose Madeline muta all’eco della voce della zia.

A vederlo e a toccarlo.

“Vieni, Madeline?”

La sua voce era dolce e bassa come il mormorare della pioggia di marzo. Madeline deglutì il groppo che le serrava la gola, lasciandosi tirare dalla spinta gentile fino a terra. Le rose la inghiottivano, la annegavano nella loro fragranza dolcissima.

“Come conosci il mio nome?” bisbigliò strozzata, tremante come un uccellino.

La ragazza le sorrise con calore.

“Come potrei non conoscerlo?” Staccò una mano dalla sua, indicando la specchiera con un ampio movimento del braccio. “Da tanto tempo ti osservo, oltre lo specchio, da prima che tu avessi memoria di me. Mi chiamo Alice.”

Le fece una graziosa riverenza, posandole le labbra fredde sulle guance roventi.

Si chiamava Alice, e viveva dietro lo specchio.

 

 

 

 

A Vine Cottage, il sollievo aleggiava nell’aria ancora pesante di pioggia e si insinuava in ogni stanza dalle finestre spalancate. Era giorno di pulizie – dal piano terra, Madeline riusciva a sentire la canzonetta sconcia che Kate cantava a pieni polmoni, mentre batteva la biancheria sporca prima di gettarla nella stufa per il bucato.

Era un giorno buono. Madeline, seduta su uno sgabello, il viso rivolto al sole che splendeva oltre la collina – per quanto possibile in Inghilterra – approfittava della luce mattutina per mettere mano al foglio da disegno.

Il viso accostato alla carta ruvida, strizzava gli occhi e teneva saldamente il carboncino tra il pollice e l’indice; la mano si muoveva da sé, senza sforzo alcuno, schizzando linee precise e delicate sul volto della figura.

Aveva lasciato per ultimi i lineamenti del viso, concentrandosi sugli infiniti dettagli della giovane ritratta di profilo: gli impalpabili merletti e i pizzi che si arricciavano, sbocciando dai polsini stretti delle maniche; la coccarda di satin appollaiata sulla bassa schiena, lì dove le gale di stoffa liscia e grigia sfioravano i lunghi capelli lisci, liberi se non per poche ciocche tirate da nastri setosi, intrecciati di fiori; e poi, le rose in boccio o del tutto aperte, i minuti rami spinosi, i tralci da cui la giovane donna ritratta sembrava sbocciare anch’essa, che si inerpicavano sul parasole che ella teneva tra le dita sottili, l’asta graziosamente posata su una spalla esile.

Madeline strizzava gli occhi, riandando con la mente all’attimo che stava portando su carta – l’ultimo istante prima che Alice raccogliesse la gonna dell’abito con la mano libera, tuffandosi oltre superficie impietosa dello specchio.

“Ci rivedremo?” aveva chiesto Madeline con urgenza, la gola secca per l’anticipazione.

Alice le aveva indirizzato un sorriso dolce e triste, incurvando le labbra sui piccoli denti regolari. “Domani notte…”

La destra danzava sul foglio al ritmo di una melodia senza suono.

“Chi è?”

La voce di zia Martha arrestò improvvisamente il movimento sicuro del polso, facendo sussultare Madeline sull’imbottitura dello sgabello.  

“Una tua amica?”

Madeline si voltò infastidita, trovandosi di fronte la zia con ancora la mantella sulle spalle, che si stava sfilando i guanti. Le guance vizze erano arrossate per il medesimo vento che scompigliava il giardino.

“Ah… si può dire così, zia,” mormorò in risposta, appena esitante.

Non avrebbe saputo dare una migliore definizione di Alice. In realtà non era neppure certa che la ragazza non fosse un frammento della sua immaginazione.

Io sono te, le aveva riposto, quando le aveva domandato spiegazioni – per metà inorridita, per metà ammaliata da quella presenza che le teneva la mano così fermamente.

“Uhm…”

La zia Martha si chinò per osservare il disegno, e Madeline provò l’ardente desiderio di strapparlo violentemente via al suo scrutinio.

“Non ricordo di averla conosciuta, mia cara. Ma guarda…”

Da vicino, la pelle rugosa della zia, macchiata d’età sotto lo strato di cipria che vi applicava in barba alle convenzioni, sembrava ancora più raggrinzita attorno agli occhi – non era poi così vecchia, ma Madeline si ritrovò a fare il paragone con l’incarnato liscio di Alice.

“Potreste essere gemelle.”

 

 

 

 

Il buio oltre la finestra non riusciva a penetrare nella stanza, avvolta nella luminosità ultraterrena che calava quando Alice sollevava le pesanti gonne e scavalcava la cornice della specchiera, raggiungendo una Madeline già in attesa.

Sedevano sulla trapunta stesa a terra – come in uno strano picnic entro le mura della villa.

La sua gemella l’aveva fatta sdraiare, la testa posata sulle ginocchia piegate avvolte in liscio satin. Le mani immerse nella chioma di Madeline, con le unghie grattava leggera lo scalpo in un massaggio gentile e districava le ciocche con delicatezza.

“Raccontami ancora di te, vuoi?”

Madeline aggrottò lievemente un sopracciglio, increspando la fronte in onde di carne. “Non sai forse tutto quello che c’è da sapere?”

“Voglio sentirlo ancora dalla tua voce…”

Più ci si rompeva la testa, più tutto quello che accadeva in camera sua, quando la notte calava su Vine Cottage e Kate e la zia Martha se ne andavano a dormire, mancava di senso logico – più Madeline l’attendeva con ansia.

Aveva avuto delle amiche, i primi anni di collegio – ragazze di buona famiglia che l’avevano invitata a trascorrere con loro il Natale, la Pasqua e le vacanze estive in eleganti dimore nei quartieri alti della capitale, reggie in cui finiva per perdersi, tanto erano grandi in confronto alla sua villetta – dove servitori in livrea e cameriere in uniformi inamidate, una per ogni momento della giornata, esaudivano qualunque desiderio.

Ricordava splendide serate in camere ampie due volte la sua, a bere cioccolata calda in tazze bianche come la neve; le gite con le loro chaperon fino a Mayfair, Privy Gardens, Spring Gardens [3]; con cui era sgattaiolata dal collegio in Harley Street fino a Baker Street, Grosvenor Square – persino a Piccadilly [4], quando si sentivano particolarmente avventurose, per ammirare gli imponenti palazzi dei potenti che sorgevano fianco a fianco ai caffè stranieri, dove le donne cadute [5] ammiccavano ai damerini impomatati che avrebbero sposato virginali signorine come loro, prima o poi.

Eppure, era come se una mano invisibile avesse strofinato i polpastrelli sul carboncino della sua memoria, sbiadendola e confondendone i contorni.

“Sai tutto,” replicò, sentendo qualcosa sciogliersi dentro il petto.

Sì. Dei suoi genitori, dell’influenza che se li era portati via; dei parenti che se l’erano passata come un pacco indesiderato, fino a che le amorevoli braccia di zia Martha – e dello zio numero uno – non l’avevano accolta nel loro cerchio, per poi spedirla al collegio più costoso di Londra.

Gliele aveva confidate, tutte queste cose: lo aveva fatto senza parole, col cuore, perché Alice aveva domandato solo con gli occhi. A volte, si chiedeva se le frasi davvero uscissero dalle sue labbra, oppure fossero confinate tutte nella testa.

Quando l’alba carezzava il pavimento della stanza, e Madeline si svegliava inginocchiata davanti alla specchiera come la fedele sulla panca di una chiesa, si domandava se i suoi sogni avessero ormai oltrepassato il confine del sonno, sconfinando nella realtà.

Alice le sfiorò una guancia con le nocche – delicate eppure taglienti sulla pelle. Madeline sorrise, osservando dal basso la curva gentile del suo mento. “Sono io a volere sapere di te. Hai detto che sei me ma com’è possibile? Siamo così diverse.”

L’altra chinò il viso su di lei, lo sguardo scuro che incontrò quello di Madeline colmo di dolcezza.

“Quello che ha detto nostra zia è la verità, Madeline. Potresti somigliarmi di più, se volessi; ma non ne hai bisogno: è questo che lei non vede.”

Madeline deglutì lentamente, lasciando che la saliva scivolasse giù per la gola. “Non ne ho bisogno…?”

“No. Devi solo imparare a vederti attraverso i miei occhi. Ho aspettato tanto prima di farmi avanti e venire a trovarti.” Intrecciò un dito sottile a un ricciolo di Madeline, inanellandolo. “Vederti triste e sfiduciata era un fardello sul cuore che non potevo più sopportare. Per fortuna, lo specchio mi ha aiutata a esaudire questo mio desiderio.”

Con delicatezza, Alice la spinse a raddrizzarsi e si alzò in un fruscio di gonne, facendole segno di seguirla. Sulla trapunta che copriva il pavimento, i suoi passi non producevano alcun rumore. Madeline le andò dietro più goffa, i piedi che affondavano nella stoffa morbida, mentre Alice le faceva segno di accucciarsi dietro la specchiera.

Madeline avvicinò il viso, tanto che il fiato che le sfuggiva dalle labbra si condensava sul legno lucido, rendendolo opaco. Nella luce innaturale della stanza, l’iscrizione scavata sulla superficie liscia si leggeva distintamente, come vergata dalla mano elegante di una signora: Ti mostro non quello che sei, ma quello che vuoi. [6]

 

 

 

 

NOTE

[1]: Il libro di Lewis Carroll era stato pubblicato nel 1871.

[2]: Così venivano chiamate le ex-alunne del Queen’s College di Londra, fondato nel 1848, patrocinato dalla regina Vittoria. L’istituzione divenne pioniera nel campo dell’educazione femminile.

[3]: Quartieri eleganti di Londra, abitati e frequentati dalle classi più agiate.

[4]: Inizialmente un quartiere a luci rosse (il nome deriva dallo spagnolo “peccadillos”), in epoca vittoriana esso ospitò innumerevoli locali e caffè stranieri, in cui la buona società si mescolava alle fasce più basse. Erano frequenti l’esercizio della prostituzione e le risse.

[5]: Letteralmente, “fallen women”. Così venivano chiamate le donne che avevano perso la reputazione oppure esercitavano la prostituzione.

[6]: Una citazione ispirata alla frase incisa sullo Specchio delle Brame in Harry Potter e la Pietra Filosofale.

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Thriller / Vai alla pagina dell'autore: theuncommonreader