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Autore: Stray_Ashes    14/02/2016    1 recensioni
"Hate me
Break me
I'm a criminal"
In città la gente mi indicava col termine di cacciatore di taglie, ma lo diceva con paura, perché nessuno voleva essere la mia prossima tela, su cui avrei appoggiato forse il pennello, forse il coltello. Ma andava bene, come nome, non era tanto male; il termine di cacciatore mi dava un’importanza che non avevo.
Guardai il nome della mia nuova tela, la mia nuova vittima: Frank Anthony Iero.
E il nome non mi comunicò niente.
Avrebbe dovuto..?
"What have I done?"
[Revisionato 04/07/16]
Genere: Avventura, Dark, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Nuovo personaggio | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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4. Stray Cat


 
Con una lentezza esasperante, mi lasciai scivolare giù la camicia bianca dalla spalla dolorante, tenendo la stoffa sottile con la punta delle dita. Osservai, abbassando le palpebre, la pelle chiara ricoprirmi la carne ed i muscoli, e sotto i raggi del sole, mi sembrò di un candido fin troppo innaturale. Come sarei stato da morto, trasparente?
Rabbrividii; non che avessi freddo, ma sentirmi così scoperto, con i raggi del sole ed il soffio del vento a sfiorarmi la pelle nuda delle spalle e del petto, era una sensazione insolita per me. In genere, mi lavavo al buio, di notte, quando non c'era quel vento fresco del giorno, ma solo l'umido respiro della notte.
Non potei negare a me stesso, comunque, che l’aria un po’ più calda, lavandosi, era gradita.
Il sole, ora, era allo zenit. 
Sospirai, lasciando cadere del tutto la camicia dalle mie spalle: avrei dovuto lavarla, quindi l'appoggiai vicino al masso, su cui mi sedetti, ripromettendomi di occuparmene. Appoggiai i gomiti sulle ginocchia, e mi stropicciai il viso per l'ennesima volta, tentando di rilassare i nervi tesi e migliorare il mio umore pessimo.
Sentivo annichilito ogni muscolo delle braccia, e la schiena ed il collo dolermi sensibilmente... sapevo bene perché. Quanto tempo ero rimasto, nella semi-incoscienza, piegato su me stesso, la testa fra le mani e la schiena curva, al limitare di quello stupido bosco? 
Non lo sapevo. Davvero, davvero non lo sapevo. Il mio cervello era inutile e stupido, lo sapevo bene ormai: dimenticavo velocemente molte cose, e avevo la tendenza ad addormentarmi, o comunque di entrare in trance, restando pure in piedi, se nessuna delle mie arti era attiva. L’arte della morte, tra tutte, era quella che mi rendeva più lucido, più capace... non più vivo, non era questo che intendevo: perlomeno, il mio corpo funzionava, attraversato da scariche di energia.
Ero un casino. E meno male che ero solo, nella mia vita.
Ecco... solo. Non ne ero poi cosi convinto. 
Sbuffai sonoramente e lasciai cascare le braccia tra le ginocchia, sentendo ancora una volta la fitta al braccio destro. Avevo un brutto taglio lì, lasciatomi dal cane, probabilmente, ma più lo guardavo, coperto di sangue, meno mi veniva voglia di occuparmene. Volevo morire di infezione? Forse. Che morte stupida, però. Ero troppo pigro per farlo? Forse. Ma l'ho detto, il mio cervello era un casino. Forse da bambino ero stato investito da una mandria di struzzi, che mi avevano danneggiato la ragione, per quello le cicatrici sconosciute sul corpo... ma che andavo a pensare? Struzzi? Sul serio...? Idiota. Neanche avevo mai visto uno struzzo. Probabilmente erano estinti, ma io avevo letto molti libri. Forse troppi, con tutte quelle pagine, ed i disegni che avevo ricopiato, e le parole piene di fantasmi del passato, che avevano contribuito a distorcere la mia visione delle realtà. Ma leggere mi piaceva, andava a stuzzicare la mia arte, quella senza nome, intendo, quella contrapposta all'arte della morte, quella che tenevo imprigionata nel taccuino e nella voce.
Beh, mi dimenticai della ferita al braccio, e arricciai le labbra da un lato, annoiato, scettico e a disagio. 
Abbassai uno sguardo quasi accusatorio sull'acqua del laghetto, a un metro dai miei piedi, muoversi e rilucere rispondendo pigramente alle carezze del sole. Il venticello la increspava leggermente, rendendola fredda, eppure invitante. 
Avrei dovuto spogliarmi... ma una brutta sensazione mi stuzzicava le tempie, come sempre, quando il mio curioso sesto senso decideva di mettermi all’erta.
In realtà, mi ero accorto già da un po’ che qualcosa di sbagliato mi accompagnava da quando ero entrato nel bosco.
Incominciamo con la sensazione di essere osservato.
No, non mi sarei spogliato finché quella sensazione continuava a soffiarmi gelida sulla nuca. Forse ero solo uno sciocco, ma un brivido silenzioso mi fece venire la pelle d’oca... e decisi di arrendermi ai miei sensi, e non dubitare più. Sì, qualcuno mi stava decisamente osservando.
Mi passai la lingua sulle labbra, inumidendole, e indugiando sul taglietto nel labbro inferiore, lo sguardo ancora perso nell’acqua del laghetto, seguendo il ragno d’acqua pattinare pigramente e sfidare la tensione superficiale del liquido. Avevano davvero una gran bella faccia tosta, quei ragnetti, che neanche ragni erano, non propriamente.
Scossi la testa, tornando alla realtà.
Feci una breve riflessione, andando ad esclusione, poi mi passai una mano fra i capelli neri, ancora umidi, da quando mi ero sciacquato il viso. Alla fine sospirai, una mano poggiata al mio bicipite.
«Puoi anche uscire, ranocchio, prima che mi stanchi della tua presenza e rimedi da solo» sbottai, apparentemente al niente. Seguii un lungo minuto di silenzio, in cui mi concessi un solo secondo di scetticismo, poi il mio istinto venne ricompensato e sentii rumore di foglie, alla mia destra, da qualche parte nel bosco.
Sospirai ancora, più pesantemente, questa volta, perché mi sentisse. Spostai i miei occhi chiari nella direzione giusta, mentre il mio mento si appoggiava alle mani incrociate, in tempo per vedere una figura slanciata saltare giù da un albero, piegando le ginocchia nell’impatto. Lo vidi scrollare le spalle, lo sguardo basso, le mani affondate nelle tasche, e avvicinarsi passo dopo passo a me, finché non fu ad almeno tre metri.
Come avevo immaginato, era lui, lo stesso viso giovane, la stessa pelle chiara, gli stessi capelli neri che, ora, con il suo viso puntato verso il basso, gli cascavano su un lato della fronte fino all’occhio, oscurando ancor di più la sua espressione.
Il ragazzino spostò il peso su un piede, poi sull’altro. Mi sembrò vagamente imbarazzato, ma non... spaventato; anzi, mi parve fin toppo tranquillo vicino a me, e la cosa quasi mi irritò. Volevo che avesse paura di me, volevo che mi lasciasse in pace: semplicemente lui non sapeva che razza di assassino fossi, o perché mi trovassi in quella città... ma non volevo che lo sapesse, ed ero cosciente che il mio corpo, pur ribellandosi alla mia ragione, non avrebbe mai fatto qualcosa in grado di spaventarlo. Avevo salvato la vita a quel ragazzino, qualcosa mi bloccava dal fargli del male... sembrava quasi una cosa giusta, pensata così. Non mi ero mai fatto troppi scrupoli, con chi mi dava fastidio, ma adesso era il prezzo da pagare per aver aiutato qualcuno: mi stavo facendo degli scrupoli.
Complimenti, Gerard, stai sperimentando qualcosa di nuovo.
Onestamente, speravo che il mio aspetto bastasse a intimorirlo e farlo restare lontano... già, aspetto. Abbassai lo sguardo, ricordandomi di essere a torso nudo. Ah, ecco. Ora tutto quadrava. Probabilmente facevo ridere, forse schifo. Quante delle mie cicatrici erano visibili?
Scossi la testa. In realtà, non me ne fregava niente, avevo accettato quell’aspetto di me molto tempo prima.
Incrociai le braccia, rivolgendo al giovane uno sguardo tra l’annoiato e l’irritato. «Perché mi segui...? » e lo dissi come se stessi sputando qualcosa che avevo incastrato fra i denti.
Lui scrollò le spalle, tranquillo, sollevando lo sguardo e abbracciandosi da solo, come se dovesse assolutamente impiegare le braccia in qualcosa. Mi fissò in silenzio, dritto negli occhi, i suoi nocciola nei miei, verde sporco. Il suo sguardo era così genuino, così schifosamente genuino, che sentì qualcosa attorcigliarsi nel mio stomaco, e inarcai un sopracciglio.
Il ragazzo si avvicinò di ancora qualche passo, senza lasciare il mio sguardo, restando zitto per una mezza eternità, finché non lo sentì buttare fuori un gran respiro, e infine fare il primo vero e proprio gesto, che non fu nulla più se non un movimento degli occhi e del mento: seguii la direzione del suo sguardo e, con pura sorpresa, notai che mi stava fissando la ferita sul braccio.
«Quella è colpa mia... e ancora non l’hai curata»
Era davvero un ragazzo strano. Prima mi dava addosso per avere ucciso il cane, poi mi rimproverava se non mi curavo. Per quello che poteva importare a quello lì, avrei anche potuto morire dissanguato, non sarebbe stato comunque un suo problema. Mi sentii convinto di questo, poi ci ragionai velocemente...
Beh, anche lui avrebbe potuto morire dissanguato, quel giorno, e non sarebbe stato un mio problema. Eppure, l’avevo salvato, tirando il problema su di me.
Idiota. Quante volte me lo stavo dicendo in un giorno? Avrei dovuto cominciare a contare.
«Perché non ne ho bisogno» risposi, piatto.
Lui inarcò una delle sopracciglia sottili. «E’ viola... » constatò, scettico.
Mi accigliai, spostando ancora una volta lo sguardo sul taglio. Beh, aveva una tonalità particolare, ma non l’avrei chiamata viola. C’era tutta una gerarchia di colori, la mia arte senza nome lo sapeva: quello non era sicuramente un viola, non propriamente, ma riuscì a tenere a freno la lingua, e scrollai le spalle.  
«E’ importante...? » risposi. Che domanda idiota.
Probabilmente lo spiazzai, infatti, poiché curiosamente lo vidi aprire la bocca, e poi chiuderla, facendo comparire una piccola rughetta sulla fronte. «Se stai cercando di morire, allora no, non credo che... che lo sia, importante» disse, titubante , e lo trovai molto divertente. «Ma sarebbe molto stupido... non considerarla tale, intendo»
Sì, probabilmente lo sarebbe stato. Sollevai entrambe lo sopracciglia, spostando un attimo lo sguardo in basso. Sapevo di star facendo il difficile, ma era un mio vizio. Con tutta onestà, sapevo che mi sarei odiato da solo, se solo avessi potuto guardarmi attraverso un altro paio di occhi. Ma non potevo, e quindi, pur di non odiarmi, mi ritrovavo ad amarmi nella mia idiozia.
«Immagino di sì. E no, non sto cercando di morire, ma sai... ho avuto altro da fare» dissi, con un movimento vago della mano, ed era quasi vero. Le mie cose erano ancora all’ostello,  non avevo veramente nulla con cui curarmi. Dovevo, come in quei bei libri d’avventura, strapparmi un pezzo di camicia e annodarmelo per fermare il sangue ed evitare l’infezione? No, mi piaceva quella camicia. Non l’avrei fatto.
Feci spallucce.
Il ragazzo arricciò le labbra, e poi se le inumidì, e lì mi accorsi dell’anellino sul labbro inferiore: il metallo catturava il raggi del sole, brillando sul suo viso. Era un ninnolo interessante, pensai. Poche persone portavano quel tipo di cose, ormai, ma sapevo che molti anni prima, prima della guerra, andava abbastanza di moda.
Perso nei miei pensieri, non mi accorsi di quanto si fosse avvicinato, finché non me lo ritrovai praticamente davanti, le dita strette intorno alla cinghia della sacca che aveva legata alla cintura... neanche di quella mi ero accorto. Che mi stava succedendo?
Beh, mi immobilizzai, bloccando persino il respiro.
Lui, senza dire nulla, un lieve colorito nella guance, si inginocchiò e tirò fuori dalla sacca una bottiglia contente un liquido e un rotolo di garze, posandole al suolo, poi mi rivolse una mano vuota, il palmo all’insù.
«Posso? » azzardò.
Oh. Oh.
Voleva aiutarmi, era lì solo per quello? Perché seguirmi in silenzio, allora?
Non risposi subito, occupato a tenere a bada la tempesta di pensieri intrappolata stretta e scomoda nel mio cranio, e mi risvegliai solo quando lui si morse ancora più forte il labbro, assumendo uno sguardo da cane bastonato, alla ricerca di attenzioni.
Era un’espressione buffa sul suo viso, e il suo dispiacere per il mio silenzio ed apparente rifiuto di essere aiutato, mi fece internamente sorridere. Forse non aveva paura di me, ma mi parve quasi mi... rispettasse.
S-sul serio l’avevo davvero pensato? Rispetto? Nessuno mi aveva mai rispettato. Temuto, sì; rispettato, no. Sono cose ben differenti, e parecchio.
Alla fine deglutii, e lentamente spostai il braccio dalla pelle scoperta nella sua mano, e lui piano chiuse le dita, avvicinando il viso per esaminare il taglio.
Fu... strano, quel tocco. Da quanto qualcuno non mi toccava con quella gentilezza? Ah, già, aspetta. Non era mai successo. O forse sì? Forse era accaduto quando ero piccolo, ma non lo ricordavo. Anch’io avevo dovuto avere una madre, giusto? Mi aveva amato, accarezzato? O forse era proprio lei che mi aveva abbandonato subito, lanciandomi su quella strada, come si lancia via un gatto, che non si vuole tenere più.
Oh, poi c’erano alcune delle donne con cui ero stato, ma gran parte di quelle notti le avevo dimenticate; e non avevo mai amato, non avevo alcun tocco importante da ricordare, nessuna gentilezza speciale che andasse oltre al piacere che sapevo dare, e che a volte, solo a volte, mi veniva dato indietro... anche quell’aspetto di me era davvero strano, c’erano volte in cui il sesso non mi comunicava niente, non c’era piacere, o particolare sensazione.
E poi c’erano le cicatrici, e c’era l’odio, nei confronti delle persone. C’era il mio vuoto, tra me e il mondo.
Era un po’ come la questione del fumo. Non la sentivo quasi più, la nicotina.
Guardai quella specie di bambino sollevare la bottiglia e mormorare qualcosa come “potrebbe fare male” ma non lo ascoltai molto. Quando l’acqua ossigenata assaggiò, bagnata, la mia pelle e sfrigolò sul sangue, lavandolo via, mi limitai a ritrarre la labbra e strizzare un occhio soltanto. Avevo decisamente affrontato di peggio.
In un silenzio quasi religioso, il ragazzo, sotto i miei occhi vigili, finì di disinfettarmi e prese la garza, cominciando a fasciarmi il braccio, con gesti lenti e attenti, per non farmi male, indovinai. Fu guardandolo fare il suo lavoro, che decisi di rompere il silenzio: «E’ il tuo modo di dire grazie, mh?»
Lui per un attimo bloccò le mani, poi piano ricominciò ad avvolgere la garza, senza sollevare lo sguardo. «Forse»
Per la prima volta da quando era qui, increspai le labbra da un lato, in un sorriso sghembo. «Il grazie sarebbe stato sufficiente»
Lui tacque di nuovo, finché non sospirò. «Non mi piace dire grazie. E’ stupido. Non ricambia niente» e finalmente spostò gli occhi su di me. «Preferisco essere utile e basta»
Feci una smorfia, riflettendo. Beh, diamine, era vero. Io, in genere, non ricevevo né grazie, né gesti per ricambiare il favore, solo soldi. Ma tenni il pensiero per me. «Credo che tu abbia ragione» sentenziai alla fine, annuendo un poco.
Anche lui, per la prima volta, increspò le labbra in un sorriso timido. Felice, forse, della mia approvazione. Dopo un ultimo giro, finì di avvolgere la garza, fissò il nodo, perché rimanesse chiusa, e raddrizzò la schiena, senza spegnere il sorrisetto.
Fui sul punto di dirgli grazie, ma ricordai quello che aveva detto, e decisi di stare al suo gioco e tacere. Ripresi il mio sorriso, quello che mi invadeva solo una parte del volto, quello storto, e provai a renderlo comunque un po’ sincero.
Cominciava ad andarmi a genio quel giovane. E dire che fino a pochi istanti prima l’avevo odiato...
«Perché hai deciso di tornare a cercarmi, comunque...?» Ok che voleva ricambiare il favore, ma addirittura attraversare il bosco?
Fece spallucce, e rispose con un voce sottile. «Non ti ho mai davvero perso di vista... » mormorò, e non fui neanche sicuro di averlo sentito, ma non ebbi tempo di ribattere poiché, tempo zero, sulla garza bianca ed intonsa, tornò a formarsi una rosellina rossa di sangue. Il sorriso sul ragazzo si spense immediatamente, lasciando posto ad un’espressione abbattuta e sconsolata che mi fece piangere il cuore... perché sì, avevo un cuore.
«S-scusa, pensavo di aver fermato l’emorrag-- »
Divertito, sollevai l’altro mano per bloccare le sue scuse. Non gli piacevano i grazie, ma aveva le scuse facili. «Ehy ehy, è ok. Hai fatto un buon lavoro, migliore di quel che avrei fatto io. E’ che persino il mio sangue è stronzo»
Lo vidi strozzare una risatina, e poi scuotere la testa. «In realtà lo pensavo già da prima, ma speravo per il meglio... beh, ho solo peggiorato la situazione ora. Arrivando al punto, temo tu abbia bisogno di qualche punto, soprattutto per evitare una troppo brutta cicatrice» mormorò.
Guardai truce la garza, e poi il mio ventre. Cicatrice più, cicatrice meno...
«Va bene così» sentenziai scotendo la testa. Punti? No, solo l’idea mi faceva salire l’acido in gola. Mi era già successo di dover sopportare punti di sutura, ma ogni volta era un’esperienza orribile. Cioè, un ago, e un filo, sotto la mia pelle... cos’ero, una bambola?
«Non è un problema, conosco un posto sicuro, lì posso aiutarti a sistemarla decentemente» insistette.
Aggrottai le sopracciglia, ritraendomi di scatto. Ok, mi andava a genio, ma seguirlo da qualche parte, chissà, forse proprio nella bocca del nemico, mi sembrò un’idea terribile e assolutamente da scartare. «Hai fatto abbastanza, hai pagato il tuo debito. Sono felice di averti aiutato, davvero, ma è il momento che tu ti dimentichi di me, e io di te. Non ti piacerebbe sapere chi sono... ». Errore. Fu un errore dirlo.
Lui infatti aggrottò le sopracciglia. «Perché, chi sei? »
Ma non se ne rendeva conto di essere inopportuno, con quella domanda...?
Lo fissai, dritto negli occhi, le labbra ridotte a una linea, e non dissi nulla.
Lui sostenne il mio sguardo, semplicemente, e non so per quanti minuti neanche sbatté le palpebre, in quella sfida silenziosa che avrebbe potuto non finire mai. Io non avrei parlato. Lui avrebbe rinunciato?
«Dovresti andartene e basta. Prima che ti vedano con me»
Lo vidi piano piano  rilassare le spalle, e il suo sguardo si spostò in basso, sul viso un’espressione indecisa, sconsolata. Non me ne dispiacqui, non avrebbe dovuto fare quella domanda, si meritava di scoprire la mia freddezza. Mi parve tentennante sul dire qualcosa, poiché schiuse le labbra, e le richiuse, ripetendo il processo per almeno altre due volte, sena guardarmi. Mi ricordò un pesce.
«Non hai neanche chiesto il mio nome...»
Spalancai la bocca, letteralmente. Ok, era vero, non l’avevo chiesto, ma non pensavo gli importasse... gli avevo appena raccomandato di dimenticarci a vicenda, o mi sbaglio? Scrollai le spalle. «Tu non hai chiesto il mio»
Il ragazzo abbozzò un sorriso, un sorriso sorprendentemente triste. «Ma io lo so il tuo, Gerard...»
Raggelai, ero sicuro che anche il sangue avesse smesso di scorrere, per paura di provocare rumore. «T-tu... come... » balbettai, ed entrando poi velocemente sulla difensiva, sul punto di alzarmi e minacciarlo di dire la verità, tutta la verità, qualunque essa fosse. Non avevo mai visto quel moccioso prima di oggi, ne ero fottutamente sicuro.
L’altro si limitò a sollevare un poco la mano, agitando le spalle e spostando il peso sull’altro ginocchio. «Tranquillo... ti ho solo sentito rimproverare qualcosa a te stesso, mentre ti seguivo... »
Se possibile, aggrottai ancor di più le sopracciglia. Non sapevo se era una bugia... ma da un lato lo sembrò. E poi, da quanto mi seguiva, esattamente? Ricordai le sue precedenti parole, “Non ti ho mai davvero perso di vista”, e subito dopo rievocai l’immagine di me stesso debole, l’immagine di me stesso che cantava, spezzato e confuso, al limitare di quel bosco. Qualcosa di viscido strisciò in me, tra l’imbarazzo, la rabbia, e... e non lo sapevo, qualcosa di terribilmente negativo. Era stato un momento profondamente intimo...
«Oh, beh... » cominciai, ma mi resi conto di non sapere andare avanti, senza insultarlo, senza uscire di testa, o senza scappare seduta stante. Stranamente, quindi, decisi rilassare le spalle e spingermi un poco in avanti, accontentandolo.
«...qual’è il tuo nome, quindi, ranocchio?»
Fu lì, inaspettatamente, che il ragazzo sollevò lo sguardo e mi puntò in viso due iridi furbe, speranzose, e compresi come avesse già programmato quella conversazione nella sua mente. Ma non sapevo, non sapevo davvero, il perché. Perché niente aveva senso, in questa stupidissima giornata?
Dovevo avere un’espressione da puro panico, perché lui sembrò quasi divertito dal mio viso, facendo perciò comparire sul proprio un ghignetto sghembo. «Beh, secondo te... qual’è il mio, di nome...?»
Che razza di domanda cretina era quella?! Sgranai gli occhi, fissandolo, in silenzio, e dopo alcuni minuti, la determinazione in quegli occhi nocciola scemò, assorbita dai miei verdi, come si perdeva il fumo nella notte, e lasciò nulla più che un’ombra. L’ombra di una profonda delusione, che non comprendevo, ma che sentii arrivare malinconica anche in me.
«D’accordo, ho capito... io- io devo essermi sbagliato. Scusami» Lo vidi ritrarsi, incrociando le braccia per abbracciare se stesso, come mera consolazione.
Mi passai la lingua sulle labbra, provando a pensare in fretta. «I-io... » balbettai, ma ancora una volta, non sapevo tirare avanti la frase. Ero decisamente più bravo a scrivere, che a parlare. «...non so» confessai.
«Già. Ma è ok» disse in un soffio, e lo seguì con lo sguardo mentre recuperava la sacca e si rialzava in piedi.
Mi sentii un verme. Non era colpa mia tutta questa situazione, non ero io quello che sarebbe sembrato un pazzo, non adesso, ma non potei fare altro se non sentirmi un verme.
Sentendo il freddo della pietra su cui ero seduto risalirmi su per la schiena nuda, lo bloccai, prima che potesse fare un solo passo via da me. «No, fermo. Io... non so che cosa intendi, ma... voglio davvero saperlo, il tuo nome» dissi, poi deglutii, confuso dal suo comportamento, e forse ancor di più dal mio.
Sbattevo sempre la porta in faccia a tutti. A questo ragazzo, invece, la stavo aprendo, e mi resi conto di quanto tutto questo fosse pericoloso, per me, per lui. Ma non potevo più tirarmi indietro.
Lui tentennò, ma mi rimase in piedi lì davanti, fissandomi negli occhi, e alla fine sorrise, non uno dei suoi precedenti sorrisetti timidi, ma un sorriso serio, che mi arrivò come un ultimo regalo.
«Frank Anthony Iero»
E, lì, il mio mondo crollò.
Annaspai, mentre la sorpresa, la consapevolezza, l’incredulità mi presero al gola e strinsero, tanto che mi portai una mano al collo, alla ricerca di aria, che trovai con difficoltà. Il movimento brusco mi fece perdere l’equilibrio, e a malapena mi accorsi di essere caduto di lato, sulla schiena. Una fitta al braccio, ma la ignorai.
La mia mente si riempì di quel nome, del peso che si portava dietro. Come? Avevo sentito male. Non era possibile. Non- no. No.
«Ehy! St-stai bene? Gerard..? Il bracc-- »
Scossi violentemente la testa, terrorizzato, con il bisogno di ritrarmi, di nascondermi, di non stare più vicino a lui, come se avessi veramente rischiato di fargli improvvisamente del male.
Era lui. Era la mia tela. Aveva riconosciuto il nome appena l’aveva detto. Era lui che le guardie volevano uccidessi, un ragazzino... un ragazzino, dalla pelle porcellana su cui avrei dovuto dipingere di rosso.
Oh, porca puttana.
«I-Io devo andare via» dissi, e sentii la mia voce roca e strozzata, come se avessero davvero appena cercato di strangolarmi. «Ora» Mi alzai velocemente in piedi ed afferrai il cappotto e la tracolla, neppure badai alla maglia, e strizzai gli occhi, forte.
«Cosa...?» sentii mormorare confuso il ragazzo, Frank, che nel frattempo era rimasto pietrificato nella stessa identica posizione, gli occhi sgranati e la gola secca, probabilmente.
Mi costrinsi a non guardarlo, mi allontanai velocemente, come un codardo, sperando vivamente di non sentire passi dietro di me. Cercai di cancellare la sua espressione dalla mia testa, cercai di cancellare quel nome, e avvertii la garza, la gentilezza intrisa in essa, bruciare come fuoco sulla mia pelle, la stessa pelle che teneva sotto di sé un anima sporca.
Eccomi lì, io, il gatto randagio, che tornavo a fuggire via, la coda fra le gambe, lontano dai cani famelici. Ma no, questa volta non ero io il gatto randagio... questa volta io ero il cane, e Frank il gatto, ed era lui che avrebbe dovuto fuggire via da me.
Solo, che ancora non poteva saperlo.
Sperai non dovesse saperlo mai.

 
 


                                                                                   




Mmh, oh beh... scrivo ad impulso, niente di questo capitolo era del tutto programmato. Ma stranamente non mi fa così schifo... c'è qualche dialogo un po' più serio, finalmente.
Spero di non avervi incasinato troppo la testa, perché in realtà la mia lo è, mi sento un po' Gerard, al momento.
Non ho disegni questa volta, ma forse è meglio così :,)
Oh, uh... è San Valentino da un'ora e 8, e io sono qua a scrivere.. non c'è modo migliore in cui passarlo.
Vi cito le parole di Gee dell'anno scorso, perché mi hanno fatto sorridere: "And hey, if you don't have a Valentine today, remember that loving yourself is the best way to spend the day"
Alla prossima, gente :3

_Stray Ashes_
  
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