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Autore: Relie Diadamat    14/02/2016    5 recensioni
Merlin, ventenne suonato, si ritrova costretto a lavorare al fianco del suo inseparabile Asino, nel bar aperto da quest'ultimo. Con loro c'è Freya, la dolce ed ingenua fidanzata di Merlin, che Arthur detesta.
Tutto cambia un giorno, quando il giovane Pendragon rivela ai suoi colleghi un cambio di programma.
*
[Dal Cap. 1]
«Non saremo i soli a gestire il bar.» continuò Arthur, serrando lievemente la mascella, evidentemente quella non era stata una scelta del tutto condivisa dal biondino «Mia sorella Morgana ed il suo fidanzato Mordred saranno dei nostri.»
Il cervello del corvino si resettò in un lampo.

*
[Cap. 6]
«Io non voglio condividere proprio niente con te, Aridian.» sibilò, serrando lo sguardo.
«Strano…» Unì tra loro le mani, aggrottando la fronte «La droga la dividevi volentieri.»

*
[Cap. 13]
«Quella stronzata che sono attratto dal tuo ragazzo. Come ti è venuta in mente una cosa simile?»
«Perché io ti ho visto, Arthur. Ho visto cosa diventano i tuoi occhi quando lo guardi».

*
[Cap 11]
«Io ti avrei amata per sempre».
*
*
[Freya/Merlin/Arthur] [Mordred/Morgana/Merlin] [Freya/Merlin/Morgana] [Merlin/Arthur/Mithian] [Elyan/Mithian/Arthur] [Kara/Mordred/Morgana] [Freya/Gwaine]
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Freya, Merlino, Morgana, Principe Artù | Coppie: Merlino/Artù, Merlino/Morgana
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Nda: Buon salve a tutti! 
Quanto tempo è passato? Due mesi? Sì, credo di essermi fatta attendere abbastanza!
Non voglio tediarvi molto con le mie note d'autrice, anche perché sto morendo di sonno e non bisgnorebbe mai pubblicare a quest'ora - e probabilmente farò molti errori xD Scusatemi!
Ci tengo solo a ringraziare tutti coloro che continuano ad aggiungere la storia nelle preferite/ricordate/seguite. Un grazie di cuore a coloro che continuano a migliorarmi le giornate con le loro splendide recensioni e a chi legge in silenzio. Grazie!
Un grazie speciale va a Celtica (click) che continua a mostrarmi un affetto incredibile in ogni sua recensione. A lei va questo capitolo! Consiglio vivamente a tutti voi di passare nel suo profilo, soprattutto se amate Lady Oscar. Vi dico solo che, io ho amato André - non ricordo più dove va l'accento, scusate, ho troppo sonno! - grazie a lei!
Lasciatemi, se vi va, una recensione anche come la mia piccola cagnolina Lexie: piccu piccu. (Ho sonno, non badate a me!)
Buona, spero, lettura!
 
                    XVIII. “Era una notte buia e tempestosa…”
Il primo che ha scritto "E vissero per sempre felici e contenti..." dovrebbe essere preso a calci nel sedere.
"C'era una volta... e vissero felici e contenti..." le storie che raccontiamo sono fatte della stessa sostanza dei sogni.
Le favole non si avverano.
La realtà è molto più burrascosa, più oscura, più spaventosa... La realtà è molto più interessante del "E vissero per sempre felici e contenti."
Grey’s Anatomy
 
 
 
 
 
Quando tutta Londra s’addormentava e a cullarla non c’era più nessun domestico che ciabattava per i corridoi delle sontuosa villa Pendragon, Morgana rimaneva stesa nel suo letto tormentata dagli incubi che la seguivano ovunque andasse, che chiudesse o meno gli occhi. Allora lei, così piccola e così sola, combatteva contro la paura del buio e le voci dei paramedici e degli sconosciuti che ancora le rimbombavano nelle orecchie, scendendo a piedi scalzi dal suo letto per intrufolarsi nella stanza del fratello.
Arthur l’attendeva ogni sera sdraiato nel suo bel lettuccio comodo, dando le spalle alla porta che Morgana si premurava di aprire delicatamente – o di getto, se appena svegliata da un incubo.
La bambina lo richiamava in un sussurro incerto, altre volte non lo faceva affatto.
«Chiudi quella porta, sto congelando», era una fra le tante frasi criptate che smuovevano Morgana dalla paura di essere scoperta. La piccola Pendragon chiudeva repentina la porta e sgambettava sotto le coperte, appoggiando il viso stanco sulle spalle del fratello.
Raramente ne seguiva una conversazione bisbigliata, ma nel sonno Arthur si voltava sempre per abbracciare sua sorella.
Ma quante cose erano cambiate...
Morgana pensò che fossero passati secoli dal tempo in cui immaginava Arthur come l’unico uomo della sua vita: il cavaliere errante con una spada forgiata dal fuoco di un drago capace di proteggerla da ogni male, persino da Uther.
Lanciò un’occhiata dall’altra parte della tavola apparecchiata, tra una bottiglia di vino e d’acqua minerale, ritrovando un Arthur che si versava da bere annuendo col capo alla domanda del padre circa gli affari del bar, avvertendo la figura elegante e profumata d’acqua di colonia di Mordred, al suo fianco, come un peso. Era così rilassato, così a suo agio da metterla in soggezione: mentre il piatto del fidanzato era quasi vuoto, quello di Morgana sembrava non esser stato mai nemmeno toccato.
«Morgana», Uther richiamò la sua attenzione, poggiando i polsi sul bordo del tavolo. «Non hai toccato cibo».
Prima ancora di avere il tempo per evitare lo sguardo del fratello portandosi il bicchiere alla bocca, sentì Mordred chiederle con premura: «Stai bene?»
«Sì. Non ho molto appetito».
«Con tutti i dolci che ti sei divorata al bar…»
«Erano disgustosi», precisò acidamente la Pendragon, trafiggendo il biondino con i suoi occhi gelidi e arrabbiati, attirando in questo modo la totale attenzione degli altri commensali.
«Ne sono sicuro», aggiunse ancora Arthur, infilzando due chicchi di mais e del cavolo lesso con indifferenza, per poi mangiarli in un sol boccone.
«Il purè è molto buono.» Mordred indicò la pietanza nel suo piatto con i denti argentati della forchetta, sperando di quietare l’animo dei due Pendragon, evitando una Terza Guerra Mondiale, sorridendo educatamente in direzione di Uther a capotavola.
«È Aveline che dovresti lodare, non di certo mio padre. Lui non sa neanche come accendere un fornello».
«Morgana!»
«Dicevo così», minimizzò la ventunenne con innocenza, «per dire. Non ho mica spifferato di avere una sorellastra».
Non sapeva esattamente perché lo avesse detto. Forse le pesava la consapevolezza di aspettare un bambino e non sapere chi fosse il padre, forse si sentiva ancora in collera con Ginevra per la discussione avuta la notte precedente, quando le aveva confessato la sua gravidanza. Gwen le aveva remato contro, dicendole quanto fosse stato sbagliato il suo comportamento, rimproverandola come una madre severa, mentre le ripeteva di doversi informare sulla data del concepimento e di dire tutto a Merlin e Mordred. Morgana allora era scattata in piedi, col viso colorato di rosso, urlandole tutti gli errori che aveva compiuto specie quando aveva tradito suo fratello per Lancelot, accusandola di non essere mai stata sincera e di non meritare il suo giudizio; Ginevra aveva deglutito in silenzio, cambiando notevolmente espressione, uscendo dall’appartamento della Pendragon così come ci era entrata.
Come se non bastasse, Arthur le aveva implicitamente messo in chiaro la sua posizione: era contrario, non sarebbe mai stato dalla sua parte.
Merlin aveva scelto Freya e Mordred aveva rinunciato al suo studio e alla sua carriera per seguirla a Londra e ritrovare la tranquillità che Parigi gli aveva sottratto – o per meglio dire, che la droga, i furti e Kara gli avevano tolto -, accontentandosi di un posto sicuro e ordinario al bar. (Questione che, per più di due cene, avevano fatto storcere il naso ad Uther – che alla fine si era convinto ad accettarlo nella sua famiglia).
Forse voleva essere lei a far soffrire qualcuno, e desiderava che quel qualcuno fosse suo padre. Lo sguardo smarrito, le labbra rimaste congelate nella loro posizione, le mani che non sapevano se chiudersi o dispiegarsi: con quella confessione Morgana aveva messo a nudo suo padre, facendogli capire di sapere tutto e poco ci sarebbe mancato affinché si fosse alzata dal suo posto e avesse spiattellato di essere stata a contatto con dei drogati a Parigi, per lavoro, ed aver incontrato la sua sorellastra. Ma per fortuna Arthur era il figlio buono, quello nato per salvare la situazione, così lo sentì schiarirsi la voce e cominciare a parlare: «Hai visto la partita alle cinque? Ho saputo che il Liverpool ha pareggiato per un soffio».
«Ne ho sentito parlare in ufficio, ma non ho avuto il tempo di vederla. Dicono che stia perdendo punti, che il Chelsea meritasse di vincere».
«Già!Fortuna che sul finale Coutinho ha pareggiato, altrimenti il Chelsea avrebbe sorpassato il City, e al ritmo che stanno viaggiando sarebbe stato molto difficile il controsorpasso».
Morgana scolò l’intero bicchiere di vino, voltandosi distrattamente verso Mordred, ritrovandolo inusualmente impacciato rispetto a qualche minuto prima. Aggrottò la fronte, ancora col Grand Ballon a mezz’aria. «Che ti prende?»
Nel vedere Mordred quasi sul punto di mordicchiarsi il labbro inferiore, giocherellando smanioso col tovagliolo alla destra del piatto, la Pendragon avvertì il bisogno impellente di bere altro vino ritenendosi troppo lucida per non immaginare una Kara che ripeteva al suo Reddie quanto lei fosse sbagliata per lui, quanto la sua famiglia andasse a rotoli, ma per versarsi da bere avrebbe dovuto scomodare il diretto interessato o cosa peggiore Arthur, dunque decise di dare libero sfogo alla sua irritazione: «Guarda, Mordred, che s’è per la storia di prima io…»
«Io... non so nulla di calcio», confessò il francese.
Morgana, perplessa, si girò a guardare suo padre e Arthur chiacchierare di squadre e partite come una famiglia normale, domandandosi come facessero a rilassarsi parlando di competizioni; Uther e Arthur erano sempre stati uniti quando si parlava di Manchester o qualsiasi cosa riguardante il calcio: ne conversavano con euforia, vero interesse, tanto che da bambina Morgana - che amava rintanarsi nei luoghi più appartati per divorare intere saghe fantasy – li immaginava come due nobili seduti ad un enorme tavolo di legno che discutevano d’incontri tra cavalieri, mentre lei ascoltava attenta, così da prendere mentalmente appunti per aggiungersi alla conversazione. Ricordò che una volta si era addirittura rinchiusa in camera sua con Owain, il figlio di un maggiordomo, costringendolo a parlare di tutte le squadre e tutte le partite che avesse mai visto in tutta la sua breve esistenza, appassionandosi a sua volta a quello sport tanto odiato dalle donne.
Venire a conoscenza di quel piccolo particolare da parte del suo fidanzato la divertiva parecchio, tanto da non trattenere il piccolo ghigno che le allargava parte della bocca. «Ma fai sul serio?»
«Non riderne. Ognuno ha le proprie passioni», si difese Mordred, corrugando contrariato la fronte dietro i suoi ricci castani.
«L’altra volta ti ho sentito parlare con mio padre del Manchester, però...», costatò dubbiosa Morgana, finché le sue labbra non si stiracchiarono in un sorrisetto beffardo. Gli puntò un dito contro appena sopra al tavolo, sfiorandogli la camicia: «Oh, Mordred! Non dirmi che tu-»
«Ho le mie fonti», riassunse risoluto quanto imbarazzato l’uomo, sbottonandosi l’ultimo bottone della camicia, liberando il collo da quella morsa divenuta insopportabile. «Scambiare quattro chiacchiere con i clienti non fa mai male, poi quando tuo fratello attacca con il Manchester non la finisce più!»
«Ma non mi dire», stuzzicò ancora Morgana cercando di mantenere un tono provocatorio senza steccarlo in una risata. «Convivo con uomo che da ragazzino si fingeva ammalato per non giocare a calcetto con gli amici».
Quand’erano a Parigi e Mordred la portava a cena fuori anche durante un derby, Morgana aveva creduto che il francese si registrasse tutte le partite per potersele rivedere in completa solitudine la mattina seguente, dopo che lei si fosse rivestita e l’avesse salutato e invece...
Mordred si chinò verso di lei sfiorandole una mano, avvicinando la sua bocca all’orecchio. Morgana fu invasa dall’odore ammaliante del fidanzato, quello che sin dal primo giorno le aveva fatto perdere la testa e l’aveva costretta ad accettare consenziente il suo invito alla Galerie Michel Rein dove si era ammaliata del suo sapere e del suo amore verso l’arte. «Ed io potrei passare tutta la mia vita con una londinese irascibile con poco appetito».
Morgana si voltò immediata verso di lui, proprio dove sentiva provenire il suo alito che il quel momento era un misto tra fragranza di broccoli lessi e patate frullate col burro, sentendo il  cuore batterle così forte nel petto da poter esplodere da un momento all’altro. «Mordred…»
«Dicevo così, per dire», finse, sollevando innocentemente le spalle.
Ma Morgana sapeva riconoscere un angelo fasullo quando lo vedeva e Mordred, con quella sua aria enigmatica e sarcastica, non la fregava. Per quanto lo avesse desiderato in quel momento, non riuscì a staccargli gli occhi di dosso, sui suoi capelli curati, le sopracciglia folte e le iridi così chiare. Un brivido le percorse tutta la schiena, ma per una volta ebbe paura di non comprendere il linguaggio del suo stesso corpo.
«Mordred», la voce fin troppo canzonatoria di Arthur interruppe il collegamento invisibile che si era creato tra il verde smeraldo dello sguardo di Morgana e l’azzurro chiarissimo di quello del francese, scuotendo la sorella dalla sua ansia inconsueta. «Cosa ne pensi a riguardo?»
«Cosa ne penso...» cominciò il moro, indirizzando gli occhi verso Uther sperando in un suo chiarimento.
«Costa o Rooney?» chiese Arthur, mantenendosi il mento tra l’indice e il pollice, un’espressione da professorino seccante in volto, in attesa di risposta.
Mordred esitò per un attimo, alternando lo sguardo dal signor Pendragon fino alla sua Morgana, accontentando infine il più giovane fra loro quattro proferendo sicuro e soddisfatto un: «Le meilleur».
La ventunenne vide il padre concedersi una sincera risatina occhi negli occhi con il francese (il tipico modo per Uther Pendragon di far sapere a qualcuno che gli stesse a genio), mentre Arthur serrò la mascella con astio borbottando sottovoce qualche minaccia in cagnesco.
 


**

 
Morgana si era avvicinata all’entrata per prima, infilandosi la giacca nera ansiosa di andarsene da quella villa in stile vittoriano che pareva tanto un vecchio castello, sfilarsi quei tacchi dai piedi e stendersi nel suo letto, a pensare. Pensare a cosa fare con quel bambino, come agire, se tenerlo.
«Morgana».
La ragazza sussultò impercettibilmente, provando inspiegabilmente l’impulso di portarsi la mano sul ventre in gesto di protezione per poi riprendere la calma e realizzare, voltandosi, che a chiamarla era suo padre.
Uther la guardava come non l’aveva più fatto da parecchio: con le labbra sottili distese in una linea retta che a stento formavano un piccolo sorriso, gli occhi vagamente lucidi contornati dalle rughe che iniziavano egocentriche a comparire sempre più numerose.
Vestito di tutto punto in un completo cinereo da cui s’intravedeva la cravatta annodata al collo che lei stessa gli aveva regalato un Natale di molti anni fa, quando era ancora una bambina innamorata del suo papà, se ne stava fermo accanto alla rampa di scale che portava al piano superiore. «Potete restare. Tu e Arthur potrete sempre restare qui».
Morgana prese la sua borsa sistemandosela sulla spalla destra, aggiustandosi il colletto della giacca scura.
«Puoi rimanere, Morgana», insistette il padre.
«Lascio il bar», disse tutto d’un fiato. «Torno a lavorare come giornalista, magari continuo gli studi».
Uther sembrò invecchiare di colpo mentre alle sue spalle, a sinistra, Mordred e Arthur si fermavano sotto l’arco in marmo bianco che separava l’ingresso dal salone, l’uno a sorreggere l’altro. Morgana non ebbe bisogno di guardarli in faccia per capire quanto fossero rimasti amareggiati dalla sua confessione e sapeva che, una volta tornata nell’appartamento del fratello, avrebbe dovuto sorbirsi un’altra discussione – con due persone diverse, per due motivi diversi.
La Pendragon prese interiormente un bel respiro, posando la borsa sull’attaccapanni di ciliegio. «Vado nella mia stanza, allora.» disse, dileguandosi salendo comodamente le scale, appoggiando la mano sulla balaustra in legno.

                                                                                                               
*


 
Dopo l’uscita di scena di Morgana, Uther aveva accompagnato suo figlio nella sua vecchia stanza, aiutandolo a salire i gradini poggiandosi il suo braccio sulle spalle, sostenendolo anche quando Arthur insisteva di potercela fare da solo.
Una volta aperta la porta in legno noce, ed aver lasciato il giovane Pendragon in piedi sulla sua gamba funzionante e sulla stampella grigio cenere, aveva acceso l’interruttore con la nocca dell’indice indicandogli con il mento l’armadio contenente ancora parte dei suoi vestiti, se mai avesse avuto bisogno di un cambio, confidandogli che Debra, la cameriera, una sera gli aveva rivelato di soffrire la mancanza del disordine inumano della stanza del piccolo Arthur, ma che non invidiava per niente la povera Morgana che adesso doveva rimboccarsi le maniche da sola.
«In realtà non è così disperata la situazione», aveva spiegato Arthur. «Morgana non ha mai fatto niente per niente: appena ha saputo di dover pulire per tre ha raccattato un certo William ricattandolo con non-so-cosa e prima che tornassimo dal bar la casa era un brillante».
Uther si irrigidì come un sasso, impallidendo, non capacitandosi dell’imprudenza di quella ragazzina: cosa diamine le passava per la testa?!
Ma prima che il padre cadesse a terra privo di sensi, Arthur lo rassicurò con una risata: «Guarda che stavo scherzando. Se l’è cavata e a volte Mordred le dà una mano».
«Non è stato divertente, Arthur», lo rimproverò il Pendragon con un’occhiataccia, mentre il biondino avrebbe scommesso tutti i suoi averi – Pendragon’s Coffee e appartamento inclusi – che il padre avesse combattuto contro l’impulso di portarsi una mano al petto e sospirare di sollievo.
Era stato divertente, altro che! Ma tutta la verità non gliel’aveva detta: non lo aveva messo al corrente che, in realtà, ad aiutare sua sorella era stata Ginevra e non Mordred. Arthur lo aveva sempre sospettato dal giorno del pigiama party saltato – quando quell’imbecille di Merlin lo aveva trascinato a quella stupidissima rimpatriata con i genitori di Freya -, fino ad averne la conferma la sera in cui Gwen gli aveva svelato la storia dell’aborto staccandosi la catenina che portava al collo, lanciandola sul pavimento.
Suo padre non l’avrebbe mai saputo.
«Bisognerà cambiarle», disse d’un tratto Arthur, additando l’ampio letto ad una piazza ricoperto da lenzuola bianche e una coperta rossa.
«Nient’affatto.» Uther dissentì andando verso l’armadio, prendendo una t-shirt e un paio di boxer. «Debra pensa alla tua stanza una volta a settimana».
Arthur increspò le ciglia dorate. «Io non abito più qui, lo sai».
«Questo non vuol dire che non sia più casa tua».
«Io...»
Prima che Arthur, boccheggiante, potesse riflettere su cos’altro dire si vide faccia a faccia con suo padre che, col suo strano sorriso tirato, gli mostrava i vestiti puliti: «Suppongo ti servirà aiuto».
«Abbiamo trovato una lettera».
Uther Pendragon rimase immobile sul posto.
«Una certa Vivienne ti scriveva di sua figlia, Morgause, ritenendoti il padre».
Pesarono ad Arthur quelle parole, gli pesarono come cemento armato, ma non poteva ignorarle o trattenerle ancora tra i denti: doveva sapere; suo padre gli doveva una risposta. Gliela doveva per sua madre.
Il sorriso, sul volto di Uther, scomparve come per magia. Al suo posto comparve uno sguardo di cera, freddo come il marmo. «E tu hai dato retta ad un pezzo di carta».
«Mi sembrava lecito offrirgli il beneficio del dubbio», rincarò il ventenne.
«Io amavo tua madre, Arthur. Non passa giorno che io non pensi a lei.» Gli occhi di Uther, tanto temuti in lontananza dal giovane Pendragon, non gli erano mai parsi tanto vulnerabili e fragili. Indifesi. «Non avrei mai potuto ferirla in questo modo».
Arthur abbassò lo sguardo ferito, mordendosi la lingua per l’insolenza, pensando a quanto tutta quella storia fosse diventata assurda. «Certo, mi dispiace».
Sapeva di aver offeso suo padre, di avergli dato del traditore ed aver gettato fango sull’amore che provava per Igraine, ma dalla nottata precedente, quando Morgana aveva pianto senza interruzione vinta dagli incubi, si era detto che doveva andare fino in fondo a quella storia. Doveva farlo per lei. Per sua sorella. E invece non aveva fatto altro che rendersi ridicolo.
«Credo che una rinfrescata non ti farà male» sentì dire al padre. «Ricordi ancora la strada per il bagno?»
Arthur non ebbe il coraggio di annuire, improvvisamente più piccolo di una formica.
 
 




Londra, Gennaio 1988
 


Igraine cominciava ad ambientarsi in quella Londra grigia e strana, a tratti fredda e distaccata, instaurando un buon rapporto con Gorlois – per gli amici, burlato in “Lois”.
La maggior parte del tempo nel Rising Sun, in assenza di clienti o con pochi avventori, Igraine la passava facendosi dare lezioni d’inglese da Alice e parlottando con Gorlois – che per lei, nel giro di una sola settimana, era diventato K.G: la giovane De Bois si divertiva a raccontargli della sua Roma, di quello che si era lasciata alle spalle, offrendosi più di una volta come cuoca personale del ragazzo per fargli assaporare le specialità della sua terra.
«Non puoi dire di aver vissuto, se non hai mai mangiato un’Amatriciana!», sosteneva patriotticamente Igraine, puntando un dito verso il cielo e toccandosi la pancia con l’altra mano.
Gorlois le rispondeva sempre in modo scherzoso di dover rimediare, ma ignorava che la giovane italiana ci sperasse sul serio. Igraine sapeva che il suo K.G. aveva occhi solo per la bella e misteriosa Vivienne, eppure non poteva far a meno che arrossire ad un suo buffetto sulla guancia o ad un complimento inaspettato. Il cuore le martellava così forte nel petto senza che Gorlois facesse nulla di speciale: guardarlo mangiare una fetta di torta che gli aveva premurosamente lasciato da parte – spesso una Red Velvet – o farsi imboccare dall’altra parte del bancone perché «doveva assolutamente provarlo», erano momenti più che sufficienti per sentirsi una giovane ragazza felice.
E come tutte le altre volte, Alice quel giorno l’aveva ripresa mentre ridacchiava col muso sporco di panna, picchiando piano Gorlois con una pezza umida: «Me l’hai già distratta abbastanza per oggi», lo rimproverò, dicendo poi a Igraine di andarsi a ripulire la faccia.
«Va bene», disse alla barista, distendendo le sue labbra rosee in un sorriso tanto grazioso e contagioso da essere seguito a ruota da quello di K.G. Perché era un po’ un gioco, la loro amicizia: non esisteva istante in cui l’uno non seguisse l’altra.
Igraine si diresse alla toilette del bar ancora sorridente, ripensando a quanto fosse speciale ciò che era successo tra lei e Gorlois, in un mondo dove ogni cosa girava intorno al singolo individuo, alla diffidenza e alla paura dell’ignoto, ma non appena fu vicina alla porta si sorprese di ritrovarla socchiusa, udendo un singhiozzare mal trattenuto provenire dall’interno.
 La De Bois, indecisa se bussare o meno, rimase con la mano a mezz’aria.
«Cosa devo fare? Cosa devo fare?», sentì ripetere tra i singhiozzi come un mantra.
E lei? Cosa avrebbe dovuto fare? Irrompere con indifferenza nel bagno spezzando in questo modo il piccolo momento di sfogo che quella persona, chiunque fosse, si era ritagliato... o fare finta di essere arrivata solo in quel momento e bussare?
Igraine, a discapito di tutte le alternative attuabili, scelse la peggiore e la più comune: non fece nulla. Rimase esattamente nella stessa posa iniziale, a differenza della mano calata lungo il fianco. Eppure l’aveva studiato anche al liceo che non prendere una posizione era sbagliatissimo; la sua professoressa di Letteratura l’avrebbe divorata se l’avesse saputo!
E come Dante aveva poeticamente scritto, ecco la sua punizione e la sua condanna al crimine commesso: due smeraldi acquosi e petali di rosa al posto della bocca che si lasciavano torturare dai denti e dal sale delle lacrime cadute. Vivienne, con la sua riccia chioma dorata, trafisse quella piccola ragazzina ficcanaso che indecentemente l’aveva ascoltata.
Igraine cercò di dire qualcosa, ma appena aprì bocca Vivienne si passò due dita sotto gli occhi per togliersi il mascara colato, uscendo dalla toilette, scansandola senza alcuna cura.
 




Londra, Giugno 2015
Giovedì, Ore 23.48 (Villa Pendragon)
 
 
Dopo aver aiutato suo figlio – che, cocciuto come un mulo, si era ostinato a darsi una rinfrescata da solo e infilarsi t-shirt e boxer senza l’aiuto di nessuno (fallendo miseramente) -, Uther si ritrovò fermo nel corridoio, in silenzio, con i mocassini fissi sul lungo tappeto persiano rosso, quello che Igraine stessa aveva scelto, a fissare la seconda porta a destra: quella di Morgana.
Nella luce calda delle lampade da muro che coloravano di un giallo malinconico il legno della porta, Uther si chiese come fosse possibile che lui e Morgana non riuscissero a colmare quel vuoto immenso che si era creato tra loro.
Erano così simili: parlavano allo stesso modo, si vendicavano in egual maniera e talvolta, a tavola, tagliuzzavano e masticavano il cibo all’unisono – proprio come succede nei film. Il problema, se ne convinse con gli anni, erano le direzioni che avevano deciso di prendere.
Morgana, fin da ragazzina, aveva sempre pensato a lui come ad un nemico, qualcuno che le remasse contro quando invece era lei a correre controcorrente: aveva perso la testa per un Emrys – un membro di quella viscida e schifosa famiglia che gli aveva portato via la sua Igraine – e lui, come ogni buon padre avrebbe fatto, l’aveva protetta allontanandola da lui. Il problema era che Morgana non vedeva nulla di tutto questo.
Scese la rampa di scale, intrufolando una mano nella tasca della giacca grigia, estraendone dopo un secondo un pacchetto di Marlboro. Si infilò una sigaretta tra i denti, avvicinandosi alla porta d’entrata, lo sguardo fisso sul vialetto di ghiaia illuminato dai lampioni che s’intravedeva dal vetro piombato.   
Merlin, ripensò, stringendo più forte del dovuto il filtro tra le labbra.
Gli Emrys nascevano come l’erbaccia pronta ad imbruttire il prato più bello del mondo e proprio come tale andavano eliminati, si convinse Uther. Morgana stava con un altro uomo, presto si sarebbe sposata e quello stupido ragazzino non sarebbe più stato un problema per sua figlia, ma per Arthur... Per Arthur era tutto molto più complicato. Uther non aveva mai pensato a come allontanare quel disgraziato dalla vita di suo figlio e quello era stato un errore imperdonabile da parte sua.
Quel ragazzino, per Arthur, era diventato troppo importante. Cacciarlo per sempre dalla sua vita era arduo, ma Uther sentiva di poterci riuscire. Aridian, quel lurido bastardo, gli doveva un ultimo favore. E gliel’avrebbe ricambiato.
A qualsiasi costo. Con ogni mezzo. Lecito o meno che fosse.
Due colpi di tosse.
Uther rischiò di far cadere sul parquet la sigaretta e l’accendino che aveva appena preso tra le mani, voltandosi spaurito verso l’arco in marmo dove un Mordred composto lo guardava velando il disorientamento e l’imbarazzo.
«Che diamine ci fai ancora qui?», sputò fuori il signor Pendragon che, per la seconda volta quella sera, aveva corso il rischio di un infarto.
«Morgana è scomparsa al piano superiore più di mezz’ora fa e lei ha accompagnato suo figlio nella sua stanza – più di venti minuti fa -, senza dare cenno di seguirla», spiegò il francese.
Uther sembrò volerlo squadrare da capo a piedi per costatare se mentisse poi, socchiudendo gli occhi e avvicinando il fuoco dell’accendino alla sigaretta, gli fece cenno di salire le scale. «Vieni».
Mordred lo seguì in silenzio, lasciandosi accompagnare al piano superiore sino alla terza porta a sinistra che Uther aprì senza alcuna cura. «Se vuoi, puoi cambiare le lenzuola. Trovi tutto nel cassettone sotto lo specchio. Se hai bisogno di vestiti puliti puoi chiedere ad Arthur, due porte prima della tua», cominciò a spiegare risoluto. «E quello è il bagno», disse, indicandogli con un movimento del capo l’ultima porta a destra.
«Grazie», riassunse il moro, comprendendo finalmente da chi Arthur e Morgana avessero ereditato tutta la loro gentilezza.
Uther liquidò la faccenda muovendo distrattamente la mano in aria, quasi in segno di saluto, iniziando a percorrere il corridoio facendo un lungo tiro dalla sua Marlboro, finché Mordred, avanzato un piede nella stanza a lui assegnata, non lo sentì parlare ancora: «Ah, e Mordred...»
«Sì?», chiese, sporgendosi oltre l’andito per guardarlo in faccia.
«Ho il sonno molto leggero», gli disse, calcando sull’ultima parola. «Ci siamo intesi?»
«Certo, signore».
Un sorriso tirato, gesto che per Uther Pendragon era paragonabile ad uno sforzo titanico, un secondo tiro dalla sua sigaretta e una buonanotte implicita nella suo accomiatarsi al pian terreno, bastarono a Mordred affinché optasse al dormire in mutande, senza mai uscire dalla sua stanza.
 

*

 
Quella mattina si era svegliato con la consueta voglia di bere un bel caffè freddo a colazione, accompagnato da una mela verde e una bella rinfrescata al viso addormentato.
Merlin si era alzato, ancora una volta, prima della sveglia mentre Freya ancora dormiva dall’altra parte del letto. La baciò sulla fronte, sentendola mugugnare nel sonno e stringersi al suo cuscino.
«Buongiorno», le sussurrò sulla pelle, scendendo con le labbra sul collo.
Freya si strinse nelle spalle e si voltò nel lato opposto al suo, nascondendo il volto nel cuscino rilasciando un versetto da animale pigro e neghittoso.
«Da quando sei diventata così pelandrona?», stuzzicò allora lui, accarezzandole il braccio scoperto, aspettando che si girasse per rubarle un bacio inaugurale per vederla sorridere, come la notte precedente e quella prima ancora. C’era da dire ch’era solo grazie al consiglio di Arthur se Merlin si era impegnato nel ritrovare l’intimità ormai persa con Freya... e andava anche abbastanza bene, considerando che nelle ultime notti passate a letto con la sua fidanzata non aveva pensato neanche un momento a Morgana.
Arthur era un idiota, questo era appurato, ma non era detto che anche lui non potesse dire qualcosa di buono e sensato, ogni tanto!
Eh sì! Chi l’avrebbe mai detto che quella testa di legn-
«Arthur...»
Lo sguardo di Merlin scattò verso la chioma castana e disordinata ch’erano i capelli di Freya, domandandosi se avesse sentito bene o se soffrisse di allucinazioni. «Cos’hai detto?», chiese circospetto.
«Basta!»
«Basta?» ripeté confuso Merlin, convinto che la sua ragazza ce l’avesse proprio con lui... o, almeno, prima di sentirla mugugnare ancora il nome di Arthur.
Merlin si allontanò dalla ragazza come se avesse preso una scossa elettrica, a sopracciglia aggrottate e sempre più confuso, dicendosi che sarebbe stato meglio scolarsi quel bel caffè freddo come da programma.


**

 
Quando Merlin varcò la porta secondaria del Pendragon’s Coffee, cercò ansiosamente con lo sguardo la figura di Arthur, felice di ritrovarlo seduto sul suo solito sgabello a leggere un foglio di carta rovinato, i capelli biondi stranamente spettinati.
«Credo che tu mi debba delle spiegazioni», cominciò andandogli incontro.
Arthur sollevò i suoi occhi azzurri su di lui, guardandolo come se fosse un completo idiota.
«La mia ragazza ti sogna», lo mise al corrente, sfilandosi il giubbotto da dosso.
«Buon per lei».
Merlin boccheggiò tentando di trovare le parole adatte, ma finì per arrendersi in quella ricerca disperata nell’accorgersi della presenza di Mordred. Il francese, le occhiaie calcate, la faccia assonnata sorretta da entrambe le mani e i vestiti pieni di pieghe, se ne stava seduto ad un tavolino rotondo, fissando un punto morto oltre le porte scorrevoli.
Il corvino indicò Mordred ad Arthur, sogghignando beota. «Voi... Mi sono perso qualcosa?»
Merlin ebbe pochissimo tempo per ridere delle sue sciocche allusioni perché, in men che non si dica, un mazzo di chiavi andò a sbattere contro il suo naso, stoppando la sua risatina, cadendo al suolo un secondo dopo.
«Il senno, e già da molto», sentì borbottare dall’Asino. «Piuttosto, renditi utile prendendo secchio e scopa, dando una bella ripulita al pavimento».
Merlin sbuffò una risata di dissenso, non mostrando alcuna intenzione di raccogliere le chiavi dello stanzino. «Io sono appena arrivato!» si difese, puntando con un braccio il francese. «C’è anche Mordred. Perché mai dovrei fare tutto da solo?!»
«Si è rotto».
Merlin alzò le sopracciglia, incredulo alle sue orecchie, domandandosi cosa ci mettessero nell’aceto – perché era ovviamente colpa della cena consumata la sera precedente se ogni persona che incontrava diceva cose assurde, si era convinto. «Rotto
Vide il Pendragon spostare le iridi da quel pezzo di carta, degnandolo finalmente di uno sguardo. «Sì, è fuori uso», spiegò con naturalezza, quasi fosse colpa sua se non capisse le sue ovvie-e-sconnese parole!
E infatti, nel rimanere a bocca semiaperta, sopracciglia arcuate verso l’alto, Merlin riuscì ad ottenere nuovamente l’attenzione dell’Asino che, nel lanciargli una seconda occhiata furtiva alternata alla lettura in cui era assorto, lo guardò con aria interrogativa – sì, proprio quella in grado di urtare i nervi al più santo dei santi.
«Si è… rotto?»
«Sì, è successo ieri sera».
Ma il corvino continuava a non capire: rotto di cosa? Non era mica una macchina, cavolo! Qualsiasi cosa gli fosse successa poteva benissimo dargli una mano per sistemare il bar alla sua apertura!
«Continuo a non capire».
«E questa non è una novità».
Il Pendragon ignorò bellamente l’espressione contrariata che Merlin gli riservò, sospirando, per poi ripiegare la lettera e adagiarsela sulle cosce, trattenendola tra il pollice e l’indice. «Rooney o Ghandi?» chiese Arthur al francese, alzando volutamente la voce in modo da attrarre la sua attenzione, muovendo il capo verso destra, in modo da averlo sott’occhio.
Merlin sempre più confuso decise di imitarlo, incontrando in questo modo la figura di Mordred; l’uomo si passò rassegnato una mano sugli occhi, gemendo affranto:  «Ma cosa ci faccio qui?»
Un falsissimo sorrisetto di chi pretendeva aver ragione si dipinse sul viso di Arthur. «Visto?»
Mordred, agli occhi del giovane Emrys, parve improvvisamente più vecchio di trent’anni, depresso e vinto dalla vita – più o meno come tutti i clienti che ricevevano al bar dopo che questi avessero letto la somma dell’ultima imposta.
«Cosa gli è successo?»
«Morgana. Lo ha fregato».
Merlin trattenne il fiato, sentendo il sangue gelarsi nelle vene. «In che senso?»
L’Asino aveva ormai ripreso la sua lettura, rispondendogli senza prestargli la minima attenzione. «Nel senso che ha fregato tutti: ci ha lasciati».
«Cosa? …» La domanda che fuoriuscì dalle labbra carnose del corvino fu solo un flebile sussurro.
Arthur scosse il capo, senza guardarlo in volto. «Non potevo credere alle mie orecchie quando l’ho saputo».
Mio Dio.
Merlin sentì di doversi aggrappare disperatamente a qualcosa, rischiando di cascare col sedere a terra nell’afferrare solo aria, per poi protendersi in avanti e sostenersi al bancone.
Mio Dio, era l’unica cosa che riusciva a pensare. Nulla, ciò che riuscì ad articolare.
Percepì la voce di Arthur come un ronzio in allontanamento, su uno sfondo nero più di una notte senza stelle, mentre il Pendragon continuava indisturbato: «Mordred ci è rimasto secco, mi sa… Beh, quello è stato divertente», sogghignò.
«Arthur!», sbottò Merlin in un moto di disperazione. «Come puoi dire una cosa simile?!»
Il biondino abbandonò il suo tentativo di lettura in santa pace, corrugando la fronte così tanto da sembrare accartocciata su se stessa nell’incontrare i suoi occhi acquosi. «Cosa. Cavolo. Stai. Facendo, per l’amor del cielo?»
Solo in quel momento, quando alla sua espressione stralunata Arthur gli fece cenno alle guance, si rese conto di avere gli occhi lucidi – dal momento che le guance erano asciutte -, capendo quanto fosse stato stupido. «Io pensavo che…»
«Che mia sorella fosse morta ed io me ne stessi qui, indifferente, a lavorare nel bar?»
«I-»
«So di considerarla una rompicoglioni per la maggior parte del tempo e di chiamarla strega, ma questo non vuol dire che brinderei alla sua morte».
Merlin aprì la bocca nel chiaro intento di dire qualcosa, puntando l’indice in direzione dell’Asino, ma tutto ciò che fece – considerando la stupidità dei suoi ragionamenti troppo alta persino per Arthur – fu chinarsi per prendere le chiavi del pavimento, dirigendosi verso lo stanzino senza dire una parola.
Il biondino, meravigliatosi lui stesso dell’ottusità del ragazzo, decise di non pensarci più del dovuto, scrollando le spalle, ricominciando – per l’ennesima volta – la lettura di quella dannatissima lettera finché non sentì dei passi avvicinarsi e, nell’alzare lo sguardo, si ritrovò proprio faccia a faccia con Merlin.
«E comunque, la mia ragazza ti ha sognato», fece nota, ritornando poi da dove era venuto.
Interdetto, Arthur continuò a guardare davanti a sé, chiedendosi se sarebbe mai riuscito a leggere più di Caro e odiato amore mio.
«In fondo perché rovinarsi la vita per prendersi una laurea», sentì mormorare alla volta di Mordred.
Arthur roteò gli occhi, al limite di un’escalation di nervi, gettando vinto la lettera sul bancone. Quella mattina, forse, avrebbe fatto meglio a portarsi appresso un barattolo stracolmo di antidepressivi. «MERLIN!», urlò a gran voce.
Appena sarebbe accorso, come tutte le altre volte, gli avrebbe chiesto – o meglio, imposto – di preparargli un bel caffè bollente, facendogli sicuramente storcere il naso e vederlo lamentarsi come suo solito. Una piccola parte di lui, però, si domandò cosa avrebbe fatto Merlin se lui fosse scomparso.
 
 
*

 
Quando era triste, o arrabbiata o in collera con se stessa, sentiva di dover sfogare tutto il suo malumore in qualcosa, e siccome rimpinzarsi di ciambelle o vaschette di gelato al caramello non era poi così salutare come i film americani volevano far credere, saltava in sella alla sua adorata bicicletta, pedalando fino al Supermarket in Dolphin Square.
Lì, Ginevra perdeva la cognizione del tempo, quasi si trovasse in una dimensione parallela, in cui tutti i problemi che l’avrebbero spinta a divorarsi tutte le torte sfornate da George, nel laboratorio del Pendragon’s Coffee, svanivano paradossalmente come per magia.
Come tutte le altre volte, Gwen pedalò lungo Grosvenor Road, sorridendo sghemba non appena aver riconosciuto la villetta del vecchio Gaius in lontananza, proseguendo però verso sinistra per Dolphin Square East Side.
Amava sentirsi il vento tra i ricci capelli castani, lasciati liberi, mentre i palazzi e il verde della città venivano superati dalla sua corsa man mano che procedeva. Pedalare le faceva quest’effetto: sentiva di aver il controllo su qualcosa, almeno una volta nella sua vita.
Scesa dal veicolo a due ruote, lo parcheggiò nel primo posto libero trovato, quello apposito per le bici, passandosi una ciocca riccioluta dietro l’orecchio, dirigendosi verso l’entrata del supermarket.
Entrando, il rumore dei carrelli e il chiacchiericcio della gente la fecero sorridere d’istinto, come se avesse trovato la sua America. O la mia Excalibur, riflettette mentalmente, ripensando a qualche giorno addietro e al discorsetto fatto ad Arthur.
Sospirò, ricordando la lite avuta con Morgana Mercoledì notte.
Ginevra sapeva che la sua amica era fatta in quel modo: quando si ritrovava con le spalle al muro, l’unica difesa che credeva di avere era l’attacco; alzava i pugni contro il mondo, rinchiudendosi nel suo antro di paura e disorientamento. Morgana scappava, di fronte al dolore.
Lanciò curiosa uno sguardo alle vetrine della pasticceria, fermandosi a braccia conserte ad osservare una torta glassata al cioccolato. Non che stesse pensando di mangiarla, bisogna precisare! Gwen stava… riflettendo.
Altre persone l’avrebbero fatto sulle sponde di un lago, nel silenzio di una biblioteca o meglio ancora nel proprio letto, fissando il soffitto. Gwen riusciva a calmarsi e a ritrovare la serenità solo in quel supermarket. Era il suo posto, il suo rifugio sicuro, l’ancora alla quale aggrapparsi.
Raramente usciva dal supermercato con le buste strapiene di dolciumi e biscotti – o strapiene a prescindere da cosa ci mettesse dentro. C’erano giorni in cui comperava solo un pacchetto di chewingum o salatini integrali, consumandoli – nel secondo caso – seduta sulla panchina di fronte alla “fontana dei delfini”.
Certe volte è quasi impossibile aiutarla!
Gwen scosse il capo, decidendo che la torta non le desse la giusta ispirazione. Avanzò di qualche passo, superando vetrine piene zeppe di pizzette e rustici vari, ignorando il reparto dedicato all’acquisto del pesce, continuando la sua camminata girando a sinistra, ritrovandosi nel reparto alimentari.
Superò con lo sguardo confezioni e confezioni di tonno, fino a che le sue iridi scure non si bloccarono alla vista di fagioli e mais in barattolo. Si avvicinò, ne lesse la marca.

 
«Era per questo che mi avevate cacciato, quella sera… Morgana, lo sapevi che era sbagliato».
«Così adesso sarebbe tutta colpa mia?!»
«Non sto dicendo questo».

 
Era buona. Era francese.
Di solito Gwen comprava anche le insalate preconfezionate, di quella marca.
 

«Oh, allora faresti meglio ad essere più chiara perché comincio a non capire!»
Morgana la trafisse con i suoi occhi velati dall’amarezza, dalla rabbia e dal rimorso.
Gwen restò seduta sul bordo del letto. «Dico solo che certe cose non andrebbero fatte, che adesso hai delle responsabilità e non puoi sottrartene... Voi due... non immaginate nemmeno quanto male causerete alle persone che vi amano. Per questo devi parlare, non puoi tacer-»
«Tu!» Morgana rise stizzita, la gola infuocata a causa delle urla strozzate. «Tu giudichi me?! Proprio tu che hai fatto lo stesso!»
«Non stiamo parlando di me. Stiamo parlando di Mordred e di Freya. Non pensi a loro? A come soffriranno quando lo sapranno?!»
«E tu ad Arthur ci hai pensato?!» le ringhiò contro la Pendragon, facendosi più vicina. «Quando sei andata a letto con Lancelot ci hai pensato a lui?!»
«Morgana…»
«Ti sei fatta beccare! Lui ti ha vista nuda nelle braccia di un altro uomo nel vostro appartamento e tu, dici a me, che non penso al mio fidanzato o a quell’altra quando hai spezzato il cuore di mio fratello!» Morgana, il viso rosso dalla rabbia, gli occhi fiammanti d’ira, sembra un vulcano in piena eruzione. «Hai preteso perdono dopo essere sparita per mesi e mesi, e adesso hai il coraggio di dirmi che ho sbagliato?! Io ti sono stata vicina anche se tutte le persone che ti conosco avrebbero voluto sputarti in faccia!»
Gwen si morse il labbro tremante, tentando di sostenere lo sguardo dell’altra. Ma tutto ciò che riuscì a fare, una volta ingoiato quel boccone amaro, fu alzarsi dal letto e uscire a testa bassa senza dire una parola.
 

Ginevra si tolse lo zainetto vintage dalle spalle, controllando nella prima tasca se vi avesse lasciato qualche moneta e non trovandone nemmeno una, decise di controllare nel portafogli.
Morgana ignorava un particolare importante di tutta quella faccenda. Un dettaglio che lei stessa aveva chiarito, ma che non riusciva ad elaborare in modo corretto.
Si posò una manciata di pence sul palmo della mano, contandoli.
Riusciva a raggiungere la somma necessaria per acquistare il barattolo di fagioli.
Prima che potesse rimetterli nel suo portafogli, però, venne urtata da un carrello. Le monete caddero a terra in un tintinnio, facendo colorare di rosso le gote della ragazza.
Si abbassò per raccoglierle, rifiutando l’aiuto della donna che l’aveva inavvertitamente presa su un fianco, assicurandole che non c’era alcun problema. Le rinchiuse in un pugno, affrettandosi ad alzarsi ma... il suo cuore batté più lento.
Lancelot.
L’uomo era lontano da lei più di venti passi e le dava le spalle. Era solo, i capelli castani più corti di come li ricordava e un piccolo accenno di barba che prima non c’era.
Era solo, Lancelot, mentre faceva la spesa per se stesso; e dall’altro lato anche Ginevra era sola, che comprava un barattolo di fagioli perché le desse la forza di far notare a Morgana quel piccolo particolare che ancora le sfuggiva.
Soli, pagarono i prodotti acquistati e uscirono dal supermarket. Senza mai incontrarsi.
 

*
 
 
«Ecco il suo caffè irlandese».
Merlin sorrise cordiale al suo cliente, adagiando il bicchiere di vetro sul tavolino.
L’uomo, che non poteva avere più di quarantacinque anni, ricambiò la cortesia allargando le labbra in egual misura. «Grazie. Ci vuole un caffè speciale per festeggiare un evento speciale».
«Ha vinto alla lotteria?» azzardò il corvino divertito, vedendo l’altro elettrizzato. Glielo si leggeva dalla luce che traspariva dagli occhi chiari, verdi come foglioline di menta.
«Meglio. Molto meglio!»
«Diventa papà?» chiese gioviale.
L’uomo scosse il capo lasciandosi scappare una risatina di chi la sa lunga. «No. Credo che mia moglie ne abbia abbastanza di tutte le volte che sono diventato papà! No, oggi è un giorno speciale perché ritorna Kristopher».
Merlin, invadente e ingenuo come suo solito, non si pose minimamente il problema di risultare inappropriato e disse: «Dev’essere molto importante questo Kristopher, per lei. I suoi occhi... brillano!»
Il cliente non sembrò badarci, felice com’era, e annuì sorridente: «Lo è. Kris è il mio migliore amico... da una vita. Rivederlo è la cosa che più ho desiderato in tutti questi anni».
«Non è di qui?»
«Lo era. Ma poi... sa, per l’amore si fa tutto. È partito con la moglie per Washington circa vent’anni fa. Si è arruolato nell’esercito e quando non è in servizio passa il tempo con la sua famiglia.» L’uomo si strofinò le labbra con la mano destra, mascherando l’emozione con una risata d’ansia. «Sono vent’anni che non lo vedo e ieri mi arriva questa chiamata e... Lui è vivo», disse dopo una pausa. «Il mio migliore amico è ancora vivo».
Merlin, commosso, non poté che sorridere alla volta del suo cliente. «Questo è decisamente un evento speciale da festeggiare!»
«Lo è», concordò l’avventore dagli occhi del colore di menta. «Trovare del tempo per stare con le persone che si amano è un evento speciale da festeggiare».
«Questa è... un’ottima osservazione».
Trovare del tempo per stare con le persone che si amano.
Merlin poteva capire benissimo. Era da molto che ci stava provando, con Arthur soprattutto. Da quando l’Asino aveva aperto il Pendragon’s e lui si era fidanzato con Freya non c’era stato un attimo di pace, per loro. Il ritorno di Morgana, l’incidente, la sparatoria con Aridian... avevano solo reso il tutto più difficile.
Nuove bugie. Nuovi distacchi.
Merlin aveva bisogno del suo Arthur. Necessitava di non sentirsi un suo servo al bar o un condannato a morte quando si trattava di Morgana: il corvino aveva bisogno di risentirsi una squadra. Lui e Arthur erano la squadra.
La verità era che con la fine del liceo tutto era cambiato: i loro problemi erano diversi dal copiare un compito in classe e passarsi gli appunti della sera precedente; non riuscivano nemmeno a ritagliarsi il tempo per bere decentemente una bottiglia di birra o giocare a calcetto. Passare del tempo insieme e-
«Merlin!»
La voce ragliante dell’Asino arrivò alle orecchie a sventola del corvino come un pizzicotto fastidioso. «I tavoli non si serviranno da soli!» lo rimproverò dal bancone, con la sua occhiata da testa di legno.
Sospirò. «Davvero un’ottima osservazione», ripeté a quell’uomo straripante di gioia, prima di allontanarsi e riprendere il suo lavoro da dove l’aveva interrotto.


**

 
Dopo essersi cambiato, Merlin uscì dallo stanzino contento di aver finito il suo turno. Andò verso l’Asino, dietro il bancone, lasciando ricadere il mazzo di chiavi sul marmo. «Il mio lavoro, qui, è finito».
«I clienti ringraziano», lo burlò quello.
«Un “grazie”, ogni tanto, sarebbe gradito».
«Non parlo molto spesso con Dio. Temo che non mi sentirebbe.» Il Pendragon si stampò sul volto un sorrisetto da prendere a pugni, raccogliendo le chiavi dal bancone.
Merlin scosse il capo, ridacchiando, avanzando verso l’uscita. «Ci vediamo più tardi!»
«Sii puntuale!» sentì dire dall’Asino, prima di varcare le porte scorrevoli del bar.
Aria fresca.
Certe volte, lavorare per Arthur, era davvero sfiancante. Il biondino non si preoccupava minimamente dello stress che gli faceva accumulare tra consegne, ordinazioni e vassoi di caffè. Decine e decine di vassoi di caffè. Per non contare il pavimento lavato e lucidato appena arrivato al bar senza l’aiuto di nessuno perché, il suo caro quasi cognato francese si era rotto.
Tsk!
Certe volte una bella vacanza da Arthur non gli avrebbe fatto male!
Merlin salì in auto, allacciandosi la cintura di sicurezza, desideroso solo di una dormita e un tramezzino al volo. Aggiustò lo specchietto, poi mise in moto.
Quando posò lo sguardo sul parabrezza, qualcosa lo frenò: c’era ancora il suo cliente, quello del caffè irlandese, che aspettava a schiena ricurva seduto su una panchina alla fermata del bus.
 Trovare del tempo per stare con le persone che si amano è un evento speciale. Da festeggiare.
**
Arthur stava staccando l’ultimo scontrino quando Merlin, correndo come un pazzo, fece il suo ingresso nel bar gridando il suo nome. Il Pendragon sperò vivamente che lo avessero minacciato con una pistola, altrimenti avrebbe dovuto iniziare a preoccuparsi per la sua sanità mentale.
«Cosa ca-»
«Stasera c’è la partita», pronunciò senza fiato Merlin, con un sorriso beota che gli allargava la bocca.
«Il Manchester, sì».
«Vediamola insieme. Solo io, te, una Heineken e una pizza. Come ai vecchi tempi!»
Il Pendragon, occhi negli occhi di Merlin, non poté far altro che essere onesto: desiderava che glielo chiedesse come desiderava passare del tempo con lui. «Si può fare».
«Casa mia?»
«Questo vorrà dire che dovrò portare da mangiare?»
«E da bere», precisò il corvino.
«A che ora ci vediamo?»
Merlin e Arthur sbarrarono gli occhi all’unisono, voltandosi, incontrando un Gwaine gaio e barbuto sedersi allo sgabello più vicino. «Alle 20.00?», continuò a proporre.
«Alle 20.00 cosa?», s’intromise Mordred, appena arrivato dall’ultimo cliente servito, le occhiaie ancora più vistose sulla pelle chiara.
«Il francese può portare da bere», propose Gwaine, senza che nessuno glielo chiedesse. «La principessa porta il cibo e Merlin ci presta casa. Mi sembra perfetto!»
«Bere per cosa?» Mordred, la fronte corrugata, continuava a non capirci niente. Quel giorno era proprio rotto, constatò Merlin, maledicendo Gwaine e il suo udito impeccabile.
«E tu cosa porteresti?» Arthur, un timbro di fastidio nella voce, guardò Gwaine di traverso.
Il moro scroccò un paio di noccioline dalla ciotolina sul bancone, infilandosele in bocca tutte in una volta.  «Me. Non siete contenti?»
«Da morire», borbottarono l’Asino e il giovane Emrys, mentre Gwaine continuava a rubare arachidi salate.
A restare sulle spine, anche quando Merlin si fu dileguato in un sospiro di rassegnazione e Arthur rivolse la sua attenzione al nuovo cliente, fu Mordred. Smarrito e disorientato.
 «Contenti per cosa?» chiese all’aria, senza ricevere risposta.
 

**

 
Merlin uscì dal bar rassegnato all’idea di vedere sfumata ogni suo buon proposito per passare del tempo da solo con Arthur, dirigendosi mogio alla propria auto. Si infilò ancora una volta la cintura, riaggiustando lo specchietto retrovisore.
Fece per mettere in moto, ma ciò che vide dall’altra parte della strada bastò a fargli gelare il sangue nelle vene: Aridian gli sorrise provocatorio, salutandolo con un gesto della mano.



 

Relie's corner
- L'unica frase detta da Mordred in francese vuol dire "Il migliore";
- Nella mia immaginazione Arthur e Uther tifano Manchester. Le partite sono frutto della mia immaginazione anche se mio fratello mi ha messo al corrente che, nel Giugno 2015, il Chelsea (?) ha vinto un qualcosa;
- K. G sta per "Knight Gorlois";
- Non saprei più cos'altro dirvi, davvero. Solo... "gli spoiler ci sono stavolta?" Certo che ci sono! Potete trovarli tutti qui ---> Relie Diadamat, la mia pagina fb. Potrete trovarci anteprime (quella di Pendragon's - del prossimo capitolo - già c'è). Potrete essere informati sulle mie fanfiction, sugli aggiornamenti e chiedere spoiler.
- Per ultima cosa vorrei chiedervi un piccolissimo favore: mi servono OC. Ovviamente mi servono per i clienti del Pendragon's. Dunque, se mai vorreste aiutarmi, potrete inviarmi un vostro OC o per messaggio privato o sulla pagina fb - assolutamente NON nella recensione!
Rispettate almeno tale griglia, se volete:
- Nome e cognome: Pinco Pallino (esempio)
- Età: 21
- Cosa ci fa nel bar: è stato lasciato da X
- Attinenza con la storia: ha una cotta per Arthur. 
Ecco, tipo xD
Grazie mille per la vostra attenzione!
Alla prossima e buon San Valentino!


 
   
 
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