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Autore: Adeia Di Elferas    17/02/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Per tutta la prima giornata di viaggio Caterina Sforza non riuscì a pensare ad altro se non a come uccidere il marito non appena lo avesse rivisto.
 Nei giorni a venire non fu meno assorta nei suoi pensieri, anche se quel primo istinto omicida e distruttivo si stava lentamente sgretolando contro un incrollabile rigore logico che la stava portando a valutare altre soluzioni.
 Quando gli uomini della sua scorta cercavano di farle qualche domanda o di sapere meglio cosa fosse successo a Forlì, ella non rispondeva o li liquidava con poche brevi parole, facendo capire a tutti che non era il momento di irritarla.
 Come deciso alla partenza, non fecero soste, se non le poche indispensabili per rinfrescare i cavalli o dormire qualche ora.
 I medici che Ludovico aveva prestato alla nipote non sapevano come regolarsi. Erano dottori di corte, non di campagna, e tutto quel cavalcare li stava stremando come mai avrebbero creduto possibile.
 Quando uno di loro provò ad accennare questo fatto alla Contessa Riario, quella gli rispose che se il viaggio era per lui troppo faticoso, poteva tornarsene comodamente a Milano, facendo tutte le soste che voleva e soggiornando nella locande più lussuose.
 Al che i medici, temendo la reazione di Ludovico, che aveva già anticipato loro un'ingente somma come ricompensa per i loro servigi, smisero una volta per tutte di lamentarsi.
 
 Quando Imola fu a meno di un'ora di viaggio, Caterina cominciò a sentirsi stranamente agitata.
 Quando se n'era andata da Forlì, dopo tre giorni di penitenza e confusione mentale, non aveva pensato davvero a come sarebbe stato ritornare.
 Si sentiva profondamente in colpa, nei confronti dei suoi figli, e estremamente riluttante all'idea di rivedere suo marito.
 Temeva la reazione che avrebbe potuto avere Ottaviano, e, chissà, forse anche Cesare e Bianca l'avrebbero trattata con freddezza e risentimento. I più piccoli non erano ancora abbastanza alti da poter capire bene cos'era successo, ma i tre maggiori...
 “Contessa, state bene?” chiese uno degli uomini della scorta, avvicinando il proprio cavallo a quello di Caterina.
 Ormai Imola era davanti a loro e si faceva a ogni metro più definita. Caterina sapeva che non poteva più tornare indietro.
 “Tutto a posto. È solo il caldo.” si affrettò a dire, dando la colpa al sole infuocato di quel maggio.
 L'uomo della scorta annuì, poco convinto, e le chiese quali fossero i piani una volta arrivati in città.
 “Mi scorterete a palazzo e poi sarete in congedo fino a quando la corte non tornerà a Forlì.” disse Caterina, con un profondo sospiro.
 Il soldato chinò il capo in segno di rispetto e ritornò al suo posto.
 
 “Contessa!” esclamò Matteo Menghi, con un'espressione strana, apparendo sia sollevato sia sorpreso, come se fosse certo di rivedere la Contessa, ma non di rivederla così presto.
 “Portatemi da mio marito, subito.” ordinò Caterina, levandosi un po' di polvere dal vestito e facendo segno ai medici di Ludovico di seguirla.
 Menghi non perse tempo e l'accompagnò alle stanze private del Conte. La porta era chiusa, ma si poteva comunque sentire una sorta di gemito al di là del legno spesso.
 “Forse non è un buon momento...” provò Menghi, allargando le braccia: “Ci sono giorni in cui non si lascia avvicinare nemmeno dai suoi figli... Nemmeno da me!” aggiunse, per sottolineare la gravità della situazione.
 Caterina si morse il labbro e cominciò a battere il pugno contro la porta: “Apri!” disse, perentoria: “Apri o sfondo la porta! Lo sai che ne sono capace!”
 Il gemito si interruppe e ne seguì un silenzio tombale, rotto solo dai colpi della Contessa e dalle sue minacce: “Se non apri immediatamente sfondo la porta! Hai sentito?!”
 Qualche rumore incerto fece capire a Caterina che suo marito stava cedendo. Finalmente si sentì lo scatto della serratura e Girolamo aprì la porta, lentamente, come se avesse paura.
 “Aspettate qui.” fece Caterina, ai medici e si infilò nel pertugio lasciato aperto da Girolamo.
 Mentre l'uomo chiudeva subito di nuovo la porta a due mandate, Caterina diede uno sguardo alla camera, ma non vide quasi nulla.
 C'era uno strano tanfo, un misto di sporco e umido e per quel poco che si poteva intravedere in quella penombra, c'era una grandissima confusione.
 Sperando di non inciampare in niente, andò alla finestra e tirò con forza le spesse tende scure, per lasciare entrare la luce prorompente del pomeriggio ormai estivo.
 “Ferma! Che fate? Che fai? Che...?” protestò Girolamo, filandole dietro e cercando di afferrarla per le braccia per impedirle di aprire le tende.
 Caterina lo strattonò con forza, mandandolo in terra e così riuscì a sistemare le tende come preferiva. Aprì anche uno dei vetri, uno dei pochi che si potevano muovere, con un colpo secco per permettere anche all'aria fresca di tornare nella stanza.
 Dopo aver respirato un paio di volte, trovò il coraggio di guardare Girolamo e di accertarsi delle condizioni di quella stanza.
 In terra c'erano vestiti e le coperte del letto, un cuscino e in un angolo c'erano anche pezzi di vetro e soprammobili in frantumi. Il letto, sprovvisto di lenzuola, era pieno di macchie, alcune palesemente di vino, altre di origine meno chiara. Nel candeliere resistevano due mozziconi ormai spenti di candela e il camino era stato riempito di oggetti di ogni sorta.
 Girolamo era ancora gambe all'aria, le mani davanti al viso, i vestiti sudici e i capelli arruffati e ingarbugliati. Caterina si chinò verso di lui, prendendolo per un polso, cercando di tirarlo in piedi.
 Dopo una brevissima resistenza, Girolamo si tirò su e osò alzare lo sguardo verso la moglie.
 Aveva il viso scavato, gli occhi folli e la barba lunga.
 Da quanto tempo viveva recluso?
 Caterina era via da nemmeno due mesi, tra viaggio e soggiorno, e lui era già ridotto in quello stato? Come aveva potuto il suo consigliere, quel Matteo Menghi che Girolamo tanto apprezzava e di cui tanto si fidava, permettergli di ridursi in quello stato?
 “Perchè te ne sei andata...?” chiese piano Girolamo, la voce ridotta a un rantolo.
 Gli occhi di Girolamo la guardavano, ma probabilmente non la vedevano. Indagatori com'erano, altrimenti, si sarebbero accorti dell'ostilità del volto di Caterina e, appena dopo, non si sarebbero lasciati sfuggire il suo ventre, ancora non molto evidente, ma che ormai non si nascondeva più.
 Caterina non riusciva più a sopportare lo sguardo assente e bruciante di quell'uomo, così guardò in terra e disse solo: “Non importa. Adesso sono qui. Ho portato con me dei medici che ti aiuteranno a guarire, ma tu devi fare la tua parte.”
 “Lo farò, lo farò, se tu sarai con me...” fece subito Girolamo, allungando le mani sottili verso la moglie, che, però, si ritrasse, incapace di resistere al ribrezzo che quell'uomo le provocava.
 “Io sarò troppo occupata a riparare ai tuoi errori.” si negò Caterina, con un altro significativo passo indietro: “Non avrò tempo per te. Né altro. Per te non avrò niente, ormai dovresti saperlo.”
 Girolamo ricominciò a gemere, come, probabilmente, stava facendo poco prima, quando ancora non sapeva del ritorno della moglie.
 “Non essere patetico.” disse alla fine la Contessa, lasciando la stanza.
 “Curatelo come meglio potete – disse ai medici, che aspettavano con ansia fuori dalla porta – ma se vi renderete conto di non essere in grado di guarirlo, dovete dirmelo subito. Non ve ne farò una colpa, ma almeno avrò il tempo e il modo di chiamare a corte dei dottori più qualificati.”
 I due annuirono immediatamente ed entrarono nella stanza del Conte, trafelati, ma rincuorati dalla prospettiva di poter scaricare la patata bollente a qualcun altro, in caso si fosse dimostrata davvero troppo calda per le loro mani.
 “Mi ritiro un momento nelle mie stanze. Portate là i miei figli.” soggiunse Caterina, rivolgendosi a Matteo Menghi.
 Questi annuì e rigirò l'ordine a una delle serve.

 Caterina si teneva la testa tra le mani. Come poteva risolvere quella situazione così assurda? Se si fosse sapeuto in giro che il Conte Riario era impazzito, i Manfredi e gli Ordelaffi avrebbero cominciato ad avanzare diritti e pretese sia su Imola sia su Forlì e chi avrebbe potuto impedire loro di far quel che preferivano?
 “Se solo fossi un uomo...” sussurrò tra sé Caterina: “Potrei davvero comandare un esercito e li spazzerei via tutti... Tutti...”
 Un rumore secco alla porta le fece alzare gli occhi. Dovevano essere le balie coi suoi figli.
 Senza aspettare che si annunciassero, Caterina corse alla porta e l'aprì, lasciando che Bianca e Cesare le corressero tra le braccia.
 Anche Livio, con le sue gambette ancora corte, le volò addosso, serrandola con le piccole braccia grassocce e riempiendola di baci.
 Galeazzo Maria, che aveva circa un anno e mezzo, era tenuto in braccio da una balia, ma tendeva le manine verso la madre, che lo prese non appena gli altri figli le ebbero lasciato un momento per respirare.
 Mentre annusava il profumo del suo piccolo Galeazzo Maria, che ridacchiava di gioia aggrappandosi ai capelli sciolti della madre, Caterina chiese alle balie: “E Ottaviano?”
 Le donne si scambiarono sguardi talmente scuri che, lì per lì, Caterina temette che fosse successo qualcosa di grave al suo primogenito.
 Stava per chiedere cosa mai fosse accaduto, quando una delle balie ammise, con un certo rammarico: “Vostro figlio Ottaviano non ha voluto venire a incontrarvi, mia signora. Mi spiace, abbiamo provato a convincerlo, ma...”
 Caterina sentì una stretta nel petto e, mentre riconsegnava Galeazzo Maria proprio alla balia che le aveva appena parlato, disse, con un sorriso spento: “Non fa niente. Quando se la sentirà...”
 La Contessa passò tutto il resto del pomeriggio coi figli – Ottaviano escluso – e raccontò loro di Milano e, per quello che riuscì, li rassicurò sulla sorte del loro padre, dicendo loro che a volte agli adulti capitavano dei momenti difficili, e che in quei momenti l'unica cosa che contava davvero era l'amore della propria famiglia.
 Arrivata la sera, Caterina salutò i bambini e chiese di essere lasciata sola fino al mattino seguente.
 Alla luce delle candele, Caterina si cambiò e si rinfrescò con l'acqua profumata che si era fatta portare dai servi.
 La sua mente si spostava con rapidità da un problema all'altro, cercando soluzioni e intuizioni. 
 Quando fu pronta per coricarsi, cercò di calmare il cervello, di spegnerlo, per riuscire a dormire. Dio solo sapeva se ne aveva bisogno...
 E invece il pensiero di Ottaviano, che non l'aveva voluta vedere, come lei aveva temuto, come lei aveva previsto, la tenne sveglia a lungo.
 Quella notte fu per lei un'amara compagna, prodiga solo di rimorsi e tormenti.

   
 
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