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Autore: Adeia Di Elferas    19/02/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ 'La strega è tornata. Il nostro amico tiene la rocca, ma temo si stia montando la testa. Resto in attesa di vostri ordini e prego affinché la natura ci preceda, rendendoci vita facile. La nostra preda è infatti instabile e potrebbe arrivare a finire da sé il lavoro. Nemmeno i luminari arrivati con la strega sono in grado di farlo rinsavire. Sempre vostro fedelissimo servo, M. M.'
 Lorenzo Medici stracciò la missiva e sprofondò nella sedia dietro alla scrivania.
 Erano quasi pronti a colpire, quando la Sforza se n'era andata a Milano, mandando tutto a monte. Avevano del bel coraggio, i suoi amici, a dire che era meglio vendicarsi quando lei non c'era.
 Lorenzo sapeva che per rendere i Riario inoffensivi e per poter finalmente placare la sua sete di vendetta smembrando il loro Stato, era necessario colpire anche lei. Rimasta sola, avrebbe potuto trovare come niente un modo per smascherarli e per farla pagare a tutti, magari anche allo stesso Lorenzo!
 Con il cuore pesante, conscio che la vendetta ancora era lontana, Lorenzo prese l'inchiostro e intinse la punta della penna.
 Ci pensò un momento e poi scrisse: 'Per ora aspettiamo e dite al nostro uomo alla rocca di tenere la testa a posto, se non vuole trovarsi da solo'.

 Caterina aveva congedato in fretta i medici che Ludovico le aveva permesso di portare a Imola, perchè, per loro stessa ammissione, non erano in grado di far nulla per il Conte.
 Aveva allora scritto a Ferrara e a Bologna, per far arrivare nuovi dottori, che fossero più preparati e più decisi ad arrivare, se non altro, a una diagnosi degna di questo nome.
 Per settimane Girolamo si rifiutò di prender parte a qualsivoglia attività, evitando anche la compagnia dei figli, cosa per lui assai strana.
 Alternava momenti di completa apatia a crisi di panico, fino a toccare momenti di incredibile violenza e scatti d'ira che spaventavano oltremodo i servi del palazzo.
 L'unica che si avvicinava a lui in quei frangenti era Caterina che, benché avesse giurato a se stessa di disinteressarsi del marito in favore degli affari di Stato, gli propinava pozioni e decotti calmanti che, con risultati alterni, aiutavano il Conte a ritrovare la calma.
 Girolamo ogni volta prendeva tra le mani il calice che la moglie gli offriva, lo annusava con sospetto e poi lo beveva con lunghe sorsate. Più di una volta i servi lo sentirono ridere da solo, mentre diceva: “Ah! Rimedi a far bella, li chiama lei! Sta solo cercando di mettere a punto il veleno con cui mi ucciderà!”
 Caterina avrebbe voluto più di ogni altra cosa riportare subito la corte a Forlì, ma ormai si era giunti all'estate e ancora non era riuscita nel suo intento.
 A bloccarla, principalmente, era proprio il marito. Non avrebbe potuto portarlo fino a Forlì in quello stato e non poteva certo lasciarlo solo a Imola. Inoltre, pur peccando di egoismo, anche lei preferiva Imola, in quei giorni, perchè il calore della gente e la tranquillità della zona la rincuoravano e le davano la forza di andare avanti per la sua strada.
 Aveva mandato a Forlì Domenico Ricci, un uomo di cui si fidava, un uomo saggio e capace di dialogare e quella decisione si era subito dimostrata azzeccata.
 Malgrado tutti problemi che si erano abbattuti su Forlì, Ricci, senza troppe confusioni, era riuscito a riportare un certo equilibrio. Anche se in modo precario, aveva pacificato la città e stava lavorando a una riconciliazione stabile tra i forlivesi e i Riario.
 Oltre a questi affari, Caterina si occupava anche dei figli, cercando di dedicare a loro ogni momento libero.
 Cesare si dimostrava ogni giorno di più incline allo studio e così anche Bianca, quindi con loro Caterina leggeva i libri che più amava e cercava, di concerto col precettore, di instillare in loro l'amore non solo per il latino, ma anche per le opere letterarie più moderne.
 Livio era ancora piccolo e preferiva giocare all'aperto, sotto il sole dell'estate imolese, rincorrendo le galline, come sua madre faceva da bambina nel cortile del palazzo di Porta Giovia.
 Galeazzo Maria era in quell'età beata in cui oltre a mangiare e dormire ci si occupa solo di scoprire il mondo e quindi si divertiva a esplorare ogni angolo del palazzo, felice e contento, senza bisogno di nulla.
 Ottaviano, invece, preferiva allenarsi con le spade spuntate nel cortile d'addestramento. Caterina ogni tanto lo andava a vedere, ma senza mai intromettersi, per paura che lui la respingesse.
 Anche se da un lato era felice di vederlo interessarsi all'arte bellica, visto che un giorno sarebbe stato lui il signore di Imola e Forlì, dall'altro non lo trovava molto portato per la spada.
 Ci metteva più rabbia, che non impegno, e ogni colpo inflitto al suo maestro grondava risentimento, più che voglia di migliorare.
 I suoi otto anni lo portavano a essere irruento, e forse era quello il punto, ma il modo in cui gli brillavano gli occhi, le poche volte in cui riusciva a battere il suo istruttore, facevano correre dei brividi di freddo lungo la schiena di Caterina.
 Da quando era tornata da Milano, il suo primogenito non aveva ancora voluto parlarle a quattr'occhi. Si era dimostrato educato e gentile, dopo qualche giorno, ma il suo atteggiamento nascondeva qualcosa di profondo e implacabile.
 Caterina cominciava a pensare che sarebbe stato più facile ritrovare un equilibrio stabile con Forlì, che non con quel figlio che ogni giorno di più le era sempre più simile e sempre più diverso...

 Le nozze di Chiara Sforza con Fregosino si stavano avvicinando a gran giornate.
 Ormai luglio era alle porte e i preparativi fervevano senza sosta. Ludovico Sforza teneva molto a quel matrimonio, perchè l'unione con la famiglia del Cardinal Fregoso era un'assicurazione sul futuro del Ducato di Milano.
 L'unico oppositore a quel lieto evento si stava dimostrando essere la madre della sposa. Lucrezia Landriani si era detta molto preoccupata per la figlia, insinuando che non fosse pronta a risposarsi, perchè ancora troppo scossa dalla morte del primo marito.
 Ovviamente non aveva potuto riferire di persona i suoi dubbi a Ludovico, così aveva incaricato Piero di farle da portavoce.
 Ludovico era rimasto molto infastidito da una simile ingerenza che, secondo lui, era non solo colma d'arroganza, ma anche decisamente fuoriluogo, visto che la stessa Chiara pareva entusiasta all'idea di risposarsi.
 Così una mattina, quando Gian Piero Landriani arrivò a corte come sua consuetudine, per occuparsi delle sue mansioni che – per quanto marginali – ancora aveva, Ludovico lo chiamò a sé e gli disse, mettendogli paternalmente una mano sulla spalla: “I vostri servigi sono preziosi, ma vi vedo molto stanco. Perché non restate per qualche tempo nel vostro palazzo, a occuparvi dei vostri affari?”
 Gian Piero capì l'antifona e da quel giorno si ritenne disoccupato.
 
 Andrea Bernardi stava ripulendo con lentezza il rasoio, pensieroso. Quello che aveva sentito dire era molto strano, ma non riusciva a coglierne appieno il senso.
 Forse era solo suggestionabile e in realtà le chiacchiere che aveva sentito non valevano nulla.
 “Bernardi...” salutò con voce strascicata Tommaso Feo, entrando nella bottega.
 “Capitano!” lo salutò ossequioso il Novacula, indicandogli la sedia vuota: “Prego!”
 Tommaso sorrise e scosse il capo, andandosi a sedere: “Siete troppo gentile con me. Chiamatemi Tommaso e basta, vi dico! Sono allergico ai titoli, siano essi militari o nobiliari.”
 Bernardi si morse la lingua, tentato di riferire al giovane quello che aveva appena sentito dire. Feo era uno di cervello, se ci fosse stato da preoccuparsi lo avrebbe capito subito...
 “Cos'avete oggi?” chiese Feo, mentre il Novacula cominciava a preparare il necessario per la rasatura.
 “Oh, nulla, nulla...” fece il barbiere, agitando in aria il rasoio e corrugando la fronte.
 Al che Tommaso Feo lasciò perdere e cominciò a chiacchierare del più e del meno, facendo quasi dimenticare al Novacula quello che stava per dire.
 Ormai la rasatura era al suo termine, quando Tommaso Feo disse, di punto in bianco: “Avete sentito che la Contessa aspetta un altro figlio? Sembra che stia per nascere... Questo mese, o il prossimo, al massimo.”
 Andrea Bernardi sospirò e ammise: “Sì, sì, l'avevo sentito dire...” e stava per aggiungere un 'povera Contessa', ma si trattenne. Se la Contessa Riario si era qualche volta sfogata con lui, anche solo velatamente, lui non poteva tradirla, doveva fingere di non sapere quale fosse la vera natura del matrimonio dei Conti.
 Tommaso Feo si passò una mano sulle guance lisce e parve soddisfatto. Mentre si alzava, proseguì nel suo discorso, deciso a non mollare l'osso: “Non capisco come facciano quei due ad avere un altro figlio, pur essendo così in cattivi rapporti.”
 Il Novacula, ancora una volta, restò in silenzio.
 Feo ridacchiò, capendo l'imbarazzo del barbiere e così lo tolse d'impiccio dicendo quello che entrambi stavano pensando: “Forse è facile, in realtà: lui non ha voluto rinunciare a quelli che chiamano 'diritti matrimoniali' e lei non ha voluto rendere i figli già nati orfani di padre.”
 Bernardi, i cui pensieri ormai erano tornati ai pettegolezzi di poco prima, a quel punto non si trattenne più: “Ho da dirvi una cosa che, badate, può esser nulla, come può essere qualcosa di grave...”
 Tommaso Feo incrociò le braccia sul petto: “Ditemi tutto.”
 Dopo aver ascoltato il resoconto del barbiere, Tommaso si fece scuro in volto. La linea severa creata dalle sue labbra fecero intendere al Novacula che ci aveva visto giusto: c'era qualcosa di cui preoccuparsi.
 Tommaso Feo pagò, lasciando una mancia, e disse: “Cercherò di informarmi meglio, ma qualunque cosa sentiate, non esitate a riferirmela.”
 Il Novacula annuì e fece un piccolo inchino quando il giovane uscì dalla sua bottega.
 Ancora non aveva capito cosa stesse per accadere, ma il passo risoluto di Feo e la serietà con cui gli aveva appena parlato non lasciavano presagire nulla di buono.

   
 
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