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Autore: _ A r i a    19/02/2016    5 recensioni
♟ Storia ad OC | Iscrizioni chiuse ♟
È piuttosto singolare trovare una piccola stradina secondaria, nella Londra moderna, peraltro dove l’invadente asfalto non sia arrivato e dei ciottoli irregolari premano sotto le suole delle scarpe.
Eppure, a quanto pare, è proprio così.
Amelia ricontrolla l’indirizzo, segnato su un pezzo di carta piccolo e vecchio, piuttosto sgualcito.
L’inchiostro nero è un po’ sbiadito, non si meraviglierebbe di essere nel posto sbagliato… in effetti ha paura che qualche strano individuo sbuchi fuori dal nulla da un momento all’altro.
Se non fosse per la piccola bottega di legno che si trova ora davanti agli occhi.
È un posto piuttosto particolare, con tutte le pareti di legno e una vetrata all’ingresso, piccoli quadrati trasparenti ricoperti da uno spesso strato di polvere divisi tra loro da piccole strisce di mogano non esattamente definibile “in ottimo stato”.
C’è anche un’insegna, solo che è parecchio in alto e Amelia decide di non tentare la fortuna e le sue – scarse – abilità di equilibrista nell’arrampicarsi su delle casse malridotte lì al lato per controllare il nome di quel posto.
Genere: Azione, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Jude/Yuuto, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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«Il tempo è come un fiocco di neve,
scompare mentre decidiamo che cosa farne»

 Romano Battaglia –


» Milano, Italia, 2059


Le guglie gotiche del Duomo si stagliano alte, in tutto il loro bianco, marmoreo splendore, nel grigiore mattutino del cielo milanese.
Sono così visibili che da tutte le finestre delle abitazioni circostanti è pressoché impossibile avere un panorama differente.
In effetti un lieve scorcio della cattedrale lo si riesce ad avere anche da dietro le tende di organza azzurrina della camera di Andrea.
Eppure lei, apparentemente, è concentrata su tutt’altro per accorgersi di quello spettacolo, oggi.
Seduta sul letto a gambe incrociate, il suo sguardo si muove continuamente dal portatile aperto davanti ai suoi occhi all’oggetto che ha adagiato tra le lenzuola fresche di bucato.
Nella stanza aleggia un’armonia di profumi a dir poco deliziosi e forse è anche questo che concilia così tanto la mente, aiutandola a concentrarsi naturalmente anche sulle questioni più complesse.
Carta nuova, nei fogli poggiati sopra la scrivania di legno stagionato, lavanda, nei sacchetti con cui sua madre le riempiva i cassetti e l’armadio, per evitare che prendessero uno sgradevole odore di stantio, infine tè alla vaniglia, un paio di dita di quella bevanda ancora riempiono la tazza di ceramica bianca, residui di quanto ne aveva bevuto la sera precedente, prima di andare a dormire.
“Dormire per modo di dire” si maledice la giovane tra sé.
Mordicchia distrattamente l’impugnatura della matita che tiene tra le dita, mentre i suoi occhi stanchi esaminano centinaia di linee di testo.
Prende un appunto, la matita che traccia precisa i contorni delle lettere mentre segna un paio d’annotazioni su un taccuino, poggiato anche questo a poca distanza da lei.
Sospira stancamente, la tentazione di gettarsi all’indietro sul letto e crollare addormentata tra i morbidi cuscini è forte, troppo forte …
Però non può arrendersi adesso, si ricorda ancora una volta; non può vanificare gli sforzi di una notte passata in bianco così, crollare adesso, dopo tutti quegli sforzi non è contemplabile …
Scuote la testa. No no, non può proprio.
Prende il taccuino in mano, cercando di dare un senso logico a quello che ha appreso, in tutti quegli svariati tentativi di ricerca.
Da quello che ha scoperto dovrebbe trovarsi nel pieno dell’Illuminismo.
Già, il Settecento, “il secolo dei lumi”.
Questo, tuttavia, non le giustifica il motivo della presenza di un oggetto del genere in quell’epoca.
Era anche il principio del Romanticismo e questo fa pensare ad Andrea che potrebbe trattarsi di un regalo, fatto da qualche galantuomo alla sua dama.
Eppure, nemmeno in questo caso, riuscirebbe a spiegarsi tutti i misteri che aleggiano intorno a quell’oggetto.
Per esempio … perché proprio un regalo del genere?
Andrea lo afferra cautamente tra le dita, quasi come se portasse verso di esso una sorta di timore reverenziale, dunque lo osserva, ancora una volta.
Da quando l’ha ottenuto non le pare di far altro.
Sfiora con ricercata attenzione la superficie levigata e lucida: dita esperte devono esserci passate sopra svariate volte, probabilmente alla ricerca di qualcosa.
La vera domanda è: cos’è che cercavano?
Si fa scorrere la catena non troppo spessa, dal quale pende il medaglione, attorno al collo, lasciandola ricadere giù.
Recupera il ciondolo e se lo porta davanti agli occhi.
Le sue grandi iridi nere percorrono senza sosta l’ottone levigato, che ha ormai preso una sfumatura ramata.
La parte frontale è occupata quasi interamente dal quadrante dell’orologio che, nonostante l’inevitabile scorrere degli anni, ha comunque mantenuto il suo colore biancastro; sopra di esso si staglia una sorta di gabbia metallica, che riveste l’orologio e lo protegge da eventuali urti e consente al tempo stesso di intravedere l’orario sottostante.
Il retro, invece, è ancora una volta dominato dal metallo, in questo caso lavorato al fine di lasciare un’incisione su di esso.
Andrea ci passa il pollice con voluta calma.
È una scheggia di vetro.
Una semplice, comunissima, scheggia di vetro.
Non sembrerebbe niente di speciale, considerando anche le sue modeste dimensioni.
Eppure, Andrea non si lascia mai ingannare tanto facilmente dai dettagli.
Un momento.
Dettagli.
Una perfezionista, abituata a notare perfino il minimo particolare, perfino quelli appartenenti al mondo dell’infinitesimale, del minuscolo, del piccolo …
… come una scheggia di vetro.
La trasparenza, la lucidità … possibile che non ci abbia pensato prima?
Quell’orologio sembra quasi avere un legame con lei.
Però non è possibile: stando alle sue ricerche quell’ottone, quel determinato tipo di lavorazione del ferro risale a circa trecento anni prima.
Allora come diamine è possibile che lei e quell’oggetto siano legati?
Non lo sa, come non sa perché le sia capitato di poter viaggiare nel tempo da quando ne è entrata in possesso.
Come non sa perché adesso abbia preso a scintillare.
Stavolta ci casca eccome all’indietro sul letto, trattenendosi appena dallo strepitare solo perché l’ultimo briciolo di sanità mentale che le è rimasto le ricorda che si trova in un condominio abitato anche da altre persone e che è ancora mattina presto, molto probabilmente la maggior parte di loro starà ancora dormendo.
Però sa perfettamente che un oggetto di fine Settecento non dovrebbe emettere quella lucina azzurra.
Ma che diavolo …?
La luce non fa che aumentare sempre di più e Andrea è tentata svariate volte di sfilarsi l’Orologio dal collo e di nasconderlo sotto un cuscino, in attesa che smetta di emanare quella luce blu, tuttavia è come se quei bagliori l’attirassero, catalizzassero il suo sguardo sulla superficie del medaglione.
Quando ormai il ripetersi degli scatti luminosi è diventato rapidissimo e il colore è più tendente ad un celeste biancastro, Andrea si trova costretta a distogliere lo sguardo per non essere accecata.
Poco dopo infatti la luce dell’Orologio pare esplodere e tutto nella stanza diventa bianco.
Andrea è costretta a soffocare un gridolino di sorpresa contro il suo braccio per non mettere in allarme tutto il vicinato.
Neanche qualche minuto dopo la luce pare affievolirsi, fino a sparire del tutto, gradualmente.
L’unica cosa che si solleva ancora dall’Orologio è una lieve colonna di fumo, che si disperde piano nella stanza, amalgamandosi all’odore di carta e di lavanda.
Non ha la più pallida idea di cosa sia successo e di dettagli che non tornano ce ne sono a valanghe.
Anche se, obiettivamente, la cosa più curiosa resterà senza dubbio il volto che Andrea ha visto nell’Orologio, poco prima dell’esplosione di luce.
Il volto di una ragazza, di all’incirca la sua età, incorniciato da dei corti capelli corvini.


» Londra, Regno Unito, 2059


Atemu appare nei pressi del London Eye e ringrazia il cielo che sia notte fonda, sarebbe stato problematico altrimenti giustificare alla marea di turisti ed abitanti che generalmente bazzica il lungofiume del Tamigi la sua improvvisa comparsa.
Anche perché dubita che, sebbene sia la verità, qualcuno gli crederebbe se spiegasse di essere appena tornato da un salto temporale.
Un salto temporale piuttosto lungo, per l’esattezza.
La testa gli gira e deve appoggiarsi al muretto di pietra che corre lungo tutto il fiume per non cadere giù.
Anche vomitare è un’opzione che tiene in considerazione, tuttavia dubita che sarebbe una situazione decorosa; così, con le ultime forze che gli sono rimaste in corpo, si costringe a combattere l’impulso di rimettere.
Si gira nuovamente verso la strada e tira un sospiro profondo, asciugandosi con il dorso della mano la fronte imperlata di sudore.
I salti a lunga distanza lo sfiniscono, dovrebbe averlo imparato ormai.
Si guarda intorno: il Big Ben segna mezzanotte e quarantacinque.
Grazie al cielo Londra è un metropoli ultraevoluta ed i trasporti pubblici funzionano anche a quell’ora, altrimenti sarebbe stato nei guai fino al collo.
La stazione degli autobus è a pochi passi da lì, così ci si avvia subito. Adesso non prende neanche in considerazione il viaggio in metro: già si sente male, oltretutto di certo muoversi sottoterra non gli gioverebbe affatto.
L’unica soluzione che gli rimane è l’autobus: di certo a piedi potrebbe muoversi, tuttavia ora come ora è estremamente debole, inoltre gli ci vorrebbe fin troppo per raggiungere la sua meta. E non sa quanto ancora riuscirà a resistere, prima di svenire.
Per fortuna l’autobus sta sopraggiungendo proprio in quel momento: Atemu riesce ad arrivare davanti al segnale del bus quando questo si ferma, facendo scorrere le sue ampie e rosse portiere proprio di fronte a lui.
Sale, oblitera l’abbonamento –non ha ben chiaro il meccanismo per cui, nonostante il salto, si ritrovi ancora il portafoglio con all’interno i soldi e l’abbonamento del pullman- quindi si va subito a sedere nel primo posto libero che trova.
Impresa piuttosto semplice, considerando che a quell’ora solo pochi lavoratori notturni sono in giro.
Durante tutto il viaggio rimane con la fronte appoggiata al finestrino freddo, traendo una sorta di beneficio da esso.
Pare rinvenire lievemente solo quando, una mezz’oretta dopo, intravede il cartello della fermata di Hyde Park sfilargli accanto.
Si avvia all’uscita, barcollando leggermente, tanto che, quando l’autista frena bruscamente, rischia di cadere a faccia in avanti sugli scalini dell’autobus.
L’uomo alla guida si astiene dal far commenti, forse per pietà, forse semplicemente perché, nella sua lunga carriera, deve averne viste di molto peggio.
Atemu scende e l’autobus riparte, metafora dell’immensa metropoli, impietosa nei confronti dei suoi abitanti.
Sospira ancora, stancamente, per poi ricominciare a muoversi, stavolta a piedi.
L’unica nota di sollievo che riesce a trovare è che sarà un tragitto breve: dopo neppure un paio di minuti di camminata si ritrova ai piedi di alcuni scalini, che conducono al portone d’ingresso.
Il giovane li percorre stancamente, quasi trascinando gambe e braccia lungo di essi.
Quando si ritrova davanti al citofono, preme senza indecisioni l’interno corretto.
Non conosce altre persone che sarebbero ancora sveglie, a quell’ora.
Per alcuni momenti non succede niente e Atemu ha il terribile presentimento di aver appena fatto un terribile buco nell’acqua, tuttavia di lì a poco sente una voce rispondergli dall’altra parte e non può trattenersi dal tirare un sospiro di sollievo.
«Se ve lo state chiedendo sì, è qui la festa!~»sente infatti esultare dall’altro capo del citofono da una voce piuttosto squillante.
«Hurley …»mormora invece Atemu, senza energie.
«Atemu?»sente domandare Hurley, improvvisamente pare più serio «Ma … che ci fai qui? E a quest’ora, poi? Per non parlare della tua voce …».
Atemu è colto da un altro improvviso conato di vomito ed è costretto a tirare un forte colpo con il pugno contro la parete per continuare a resistere.
«Apri, idiota …»sussurra ancora, la sua voce sembra sul punto di spezzarsi.
«Oh, sì, certo!»Hurley pare essere colto da un’illuminazione fulminante e di lì a poco Atemu sente il portone scattare e aprirsi.
Subito s’infila nella palazzina, correndo –per quanto gli sia possibile, nello stato in cui è ridotto adesso- verso l’ascensore.
A quanto pare stasera qualche dio deve averlo preso in simpatia, poiché l’ascensore è già al pianterreno, quindi non gli rimane altro da fare che salirci e premere il tasto del quarto piano.
Mentre sale, si lascia cadere seduto a terra, esausto.
In effetti, per quant’è stanco, gli pare che l’ascensore ci metta ben meno del solito per arrivare... Alla fine si alza ed esce, quasi barcollando.
Hurley lo attende sulla soglia di casa; le luci dell’interno s’infrangono sulla sua pelle bronzea, ad Atemu sembra una divinità, al che si chiede se non sia proprio lui, il dio che l’ha aiutato, quella sera.
Il ragazzo dai capelli rosati osserva il nuovo venuto con aria quasi ilare mentre commenta:«Ehi, amico? Troppo esausto per reggere fino all’after o …-».
Fa per dire qualcos’altro, tuttavia vedendo il corpo di Atemu che barcolla in avanti fino quasi a cadere si tace subito e accorre in direzione dell’amico, prendendolo proprio prima che cada di faccia.
Lo afferra, circondandogli il bacino con un braccio e costringendolo a stare in piedi, in qualche modo.
«Atemu …»cerca di richiamarlo di nuovo Hurley, stavolta in apprensione.
«Ho b-bisogno di un bagno …»biascica l’interpellato, confuso.
«Certo, certo ...»Hurley si chiude alle spalle la porta e trascina letteralmente di peso l’altro lungo il breve corridoio d’ingresso, conducendolo fino in bagno.
Una volta lì Atemu gli chiude letteralmente la porta in faccia: non vuole che l’amico assista a quello spettacolo impietoso.
Si accascia sul lavandino, rimettendo pure l’anima.
Non credeva di essere ridotto così male...
Sente la porta del bagno schiudersi e allunga istintivamente una mano verso di essa, come a voler impedire la visuale, implorando:«Ti prego, non guardare!».
Poco dopo sente dei morbidi asciugamani poggiarsi accanto a lui e una mano gli stringe forte la spalla.
«Coraggio, Atemu …»sente sussurrare Hurley, accanto a sé.
A quelle parole il giovane riverso sul lavabo si volta in direzione della doccia e, poco prima di cadere in ginocchio, riesce ad aprire l’acqua.
Il getto gli colpisce in pieno il volto, che si sfrega energicamente con le mani per un paio di minuti.
Poco dopo Hurley gli passa uno degli asciugamani, quindi si asciuga la faccia, spossato.
A lavoro ultimato Atemu si sente sollevare; nonostante un iniziale momento d’imbarazzo si rende conto di essere ormai troppo esausto per potersi opporre all’amico, che l’ha preso in braccio.
Hurley lo conduce ancora una volta attraverso il suo appartamento, fino a ritrovarsi in una camera da letto libera, per gli ospiti.
Una volta lì distende Atemu nell’unico letto presente nella stanza e lo copre piano con la trapunta.
«Hurley …»cerca di mormorare il giovane, stremato.
L’altro però lo zittisce, mettendogli un dito sulle labbra.
«Shh~»sussurra, ponendogli un fazzoletto umido d’acqua fresca sulla fronte, madida di sudore«Ne parleremo domani. Ora riposa».
Il giovane annuisce, docilmente; forse vorrebbe ancora dire qualcosa all’amico, probabilmente solo ringraziarlo, tuttavia nemmeno un momento dopo un velo d’oscurità cala sui suoi occhi, mentre precipita nell’oblio del sonno.


» Chicago, Stati Uniti d’America, 2059


Ethan esce dall’alto palazzo dello studio di registrazione quando il mondo è già caduto vittima delle tenebre della sera, che circondano ed avvolgono qualsiasi cosa capiti loro a tiro.
Estrae l’Orologio, che ancora porta appeso al collo, da sotto la camicia vermiglia con un gesto svogliato, quasi senza pensarci più di tanto.
Perché continua a meravigliarsi ogni volta che si rende conto che quello stramaledetto coso segni l’ora esatta … nonostante tutto?
Quando si rende conto che sul quadrante le lancette segnano le ventuno passate contrae le labbra, in un’espressione impensierita.
Non si era accorto che fosse così tardi.
Sta quasi per avviarsi attraverso la lunga via, tutta diritta, dello studio di registrazione, via da quel luogo, anche stavolta …
Via dall’unico posto che lo fa stare bene, che non lo fa pensare, almeno ancora per qualche altra ora …
Ovviamente non è questione di vigliaccheria, ci mancherebbe altro, o almeno questo è ciò che continua a ripetersi Ethan, mentre percorre adagio e con portamento a dir poco carismatico il marciapiede.
Codardo.
«Ehi, Ethan!»esclama qualcuno, alle sue spalle.
Il ragazzo riflette che sono poche le persone che ancora lo chiamano per nome, ancora meno di quelle che si rivolgono a lui.
Forse è questo il fattore che lo fa voltare, una certa sensazione di sorpresa.
Ad attenderlo, gli sguardi sereni e ridenti degli altri componenti della sua band.
«Che ne dici di andarci a prendere qualcosa da bere insieme?»propone il batterista, con una certa aria strafottente che Ethan non riesce proprio a giustificarsi.
In un altro momento molto probabilmente avrebbe rifiutato senza pensarci due volte, preferendo la riservatezza e il silenzio del suo appartamento vuoto al caos e alla musica sparata a tutto volume di una delle bettole frequentate dai suoi amici.
Poi però sembra ripensarci e mettersi a riflettere su quell’ipotesi, che ora non gli sembra nemmeno più così lontana … in fondo ormai cos’ha da perdere?
“Di certo qualche bicchiere non mi farà male” mormora una vocina dentro di sé, forse mettendoci dentro una malizia e un senso di perdizione che altrimenti nemmeno lo stesso Ethan avrebbe infuso nelle proprie parole.
Com’è che dicono alcuni? Ah, già: bere per dimenticare.
Ed Ethan ne avrebbe, di cose da dimenticare.
Non sa davvero se alla fine sia stato davvero questo a convincerlo o semplicemente una follia del momento –se si esclude la possibilità di un desiderio non espresso.
Fatto sta che dopo quell’unico e solo tentativo cede, annuendo bonariamente in direzione dei suoi amici.
«E va bene»acconsente, con uno sguardo strano, che agli altri ragazzi pare quasi essere perso nel vuoto«In fondo che male può farmi?».

Non ci ha visto poi così lontano, quando ha immaginato che lo avrebbero portato in una bettola.
Diciamo che forse quel luogo è un po’ migliore rispetto alle sue aspettative … ma nemmeno di tanto.
Cameriere in abiti succinti si aggirano tra i tavoli occupati da avventori dall’aspetto piuttosto rozzo e nerboruto.
Ethan osserva la scena con aria alquanto incuriosita, anche se già al secondo bicchiere di superalcolici ha cominciato a sentire la testa pesante e la vista un po’ annebbiata.
È seduto con i ragazzi della band al bancone del locale, davanti a sé il quarto bicchiere di pampero.
O il quinto? No, aspetta … forse era il sesto … ah, non lo sa più.
Dopotutto, forse è anche meglio così.
Gli piace quella sorta di sensazione di annullamento che prova quando assume dell’alcool … è più o meno le stesso principio che lo porta a stare tanto bene quando canta.
Sente la propria mente altrove, lontana … come se si staccasse dal suo corpo e volasse via.
Questo lo porta a non pensare più a niente, perlomeno per qualche ora.
E questo gli piace. Eccome, se gli piace.
Per quel tempo si può perfino illudere di non avere più nemmeno un problema.
Che meraviglia …
Una cameriera gli si avvicina, osservando il suo bicchiere ancora pieno.
«Non lo bevi, quello?»gli domanda, con una voce un po’ troppo stucchevole.
Ethan muove lo sguardo velocemente –per quello che può, intontito com’è dall’alcool– dal bicchiere ancora pieno davanti a sé sul bancone alla cameriera che ora si staglia davanti a lui.
Capelli biondo cenere lunghi fino alle spalle, un po’ crespi e con un lieve accenno di boccoli all’altezza delle punte, labbra tinte di un rossetto rosso piuttosto intenso.
Nonostante questo forse il dettaglio che colpisce maggiormente l’attenzione di Ethan sono i suoi occhi: taglio e grandezza regolari, di un marrone comunissimo.
Forse è proprio quella canonicità ad attrarre tanto Ethan: i suoi occhi, grigi e tumultuosi come nuvole in tempesta, non potrebbero desiderare altro.
Lancia uno sguardo leggermente ammiccante alla ragazza –che avrà all’incirca una ventina d’anni, proprio come lui– quindi commenta:«Beh … e io che volevo bere qualcosa di tutt’altro genere».
Partono risolini imbarazzanti lungo tutta la fila del bancone, tuttavia la ragazza non pare esserne particolarmente colpita.
Che stia veramente al gioco?
«Senti un po’»continua, rivolgendosi ancora alla cameriera«ti andrebbe di vedere qualcosa di bello?~».
Si alzano nuovi risolini, eppure nemmeno stavolta la ragazza pare avere una qualsivoglia reazione.
“Deve essere priva del senso del pudore” valuta Ethan, nell’ultimo angolino sobrio della sua mente.
«D’accordo»concede lei, con espressione del tutto imparziale.
C’è da chiedersi cosa sia passato nel cervello di tutti e due, in quei precisi istanti:Ethan è assolutamente certo che la ragazza non possa aver frainteso le sue parole, dopotutto ormai deve aver raggiunto l’età del consenso già da un po’, inoltre i doppi sensi malcelati nelle sue parole e tutti quei risolini sono piuttosto inequivocabili.
D’altro canto, l’espressione algida della ragazza non era mutata minimamente da quando avevano cominciato quella conversazione.
Ethan si alza dallo sgabello, sul quale era rimasto seduto fino a quel momento, circondando i fianchi della giovane con un braccio.
«Come ti chiami?»le chiede, fissandola dritto negli occhi, senza gentilezze o pietà.
«Kate»risponde lei con voce schietta, monocorde.
«Kate …»ripete, facendo rotolare ogni singola lettera in modo piuttosto seducente lungo il proprio palato«gran bel nome ~».
Si avvia lungo il locale, tenendo ancora un braccio stretto intorno alla sua vita, mentre diversi fischi di approvazione e alcune risate grevi e battute di pessimo gusto accompagnano il loro incedere, forse un po’ troppo traballante a causa della quantità di alcool decisamente eccessiva presente nel corpo di Ethan.

Si appartano nel retrobottega piuttosto scadente del locale, nell’oscurità più assoluta e tra la polvere e la sporcizia di alcuni vecchi scaffali di legno marcescente.
Ethan fa sedere la giovane su un vecchio barile vuoto di rum, di cui a quanto pare nessuno di loro due saprebbe ricondurne l’appartenenza.
Le slaccia subito la camicetta, senza metterci una particolare dose di grazia o gentilezza, solo colto da un improvviso desiderio di farlo.
Lascia cadere lentamente l’indumento a terra, sembra un gabbiano che plana sull’oceano.
Kate reclina la testa all’indietro, lasciando la gola candida e morbida alla completa mercé di Ethan, che subito ne approfitta per andargliela a riempire di baci famelici, umidi di saliva.
Anche questo è un ottimo modo per non pensare a niente.
Nel frattempo il giovane le sospinge con calcolata lentezza le mani sul corpo, andandole a palpare i glutei e i seni bianchi.
Potrebbe anche toglierle il reggiseno, in effetti.
Sfiora il tessuto in nero pizzo ricamato, niente di esaltante in fin dei conti.
Ethan lo stringe un po’ di più tra le proprie dita tiepide e affusolate, facendo gemere la ragazza di inaspettato piacere.
A quella reazione il ragazzo non resiste oltre e le va a baciare entrambi i seni, con le labbra che sembrano ancora una volta estremamente affamate e desiderose di lei.
A quel nuovo contatto gemiti sempre più accaldati sfuggono dalle labbra di quella perfetta sconosciuta, favorita anche dai palmi grandi e caldi di Ethan, che ora sono scivolati sotto la sua minigonna cortissima e le palpano i glutei con un filo alquanto spesso d’indecenza.
Osservare quel volto cereo imporporarsi e perdere quell’espressione impassibile, per acquisirne una stupita e sconvolta dal piacere, è qualcosa che possiede un certo fascino, per Ethan.
Sente che potrebbe andare avanti, spingersi oltre, di più, molto di più … oh, eccome se lo farebbe, con quale immenso piacere si concederebbe a quella venere …
Quando tuttavia sta effettivamente per andare oltre, un rumore improvviso li fa sobbalzare entrambi per la paura.
Si guardano subito intorno, cercando di localizzare la fonte da cui è provenuto quel rumore.
Inutile dire che le loro espressioni risultano piuttosto sconcertate quando si rendono conto che ad interromperli è stato un topolino, che subito fugge via, sgattaiolando nell’oscurità fino a scomparirvi.


» Londra, Regno Unito, 2059


È piuttosto singolare trovare una piccola stradina secondaria, nella Londra moderna, peraltro dove l’invadente asfalto non sia arrivato e dei ciottoli irregolari premano sotto le suole delle scarpe.
Eppure, a quanto pare, è proprio così.
Amelia ricontrolla l’indirizzo, segnato su un pezzo di carta piccolo e vecchio, piuttosto sgualcito.
L’inchiostro nero è un po’ sbiadito, non si meraviglierebbe di essere nel posto sbagliato … in effetti ha paura che qualche strano individuo sbuchi fuori dal nulla da un momento all’altro… se non fosse per la piccola bottega di legno che si trova ora davanti agli occhi.
È un posto piuttosto particolare, con tutte le pareti di legno e una vetrata all’ingresso, piccoli quadrati trasparenti ricoperti da uno spesso strato di polvere divisi tra loro da piccole strisce di mogano non esattamente definibile “in ottimo stato”.
C’è anche un’insegna in alto, solo che è parecchio in alto e Amelia decide di non tentare la fortuna e le sue –scarse- abilità di equilibrista nell’arrampicarsi su delle casse malridotte lì al lato per controllare il nome di quel posto.
“No, preferirei tardare la mia morte almeno per un altro po’ ” valuta tra sé.
Si avvicina alla porta con incedere lento: quando la raggiunge valuta che né i cardini né la serratura sono stati divelti.
Apparentemente quel luogo è decisamente impenetrabile.
Non riesce a intravedere l’interno della bottega, pure il vetro della porta è ridotto alquanto male a polvere, il che fa supporre ad Amelia che neppure il locale stesso debba essere messo bene.
Ancora una volta la ragazza si ritrova a chiedersi perché sia andata fino in quel luogo desolato, alla ricerca di chissà quale tesoro segreto.
Per poi ricordarsi, puntualmente, della lettera.
Si morde il labbro inferiore, cercando di trattenere le lacrime.
Avrebbe voluto trovare quella lettera molto tempo prima … Di certo non sarebbe cambiato poi molto, tuttavia si tratta pur sempre di un pezzo della vita di sua madre. Quella vita, inesistente adesso, che Amelia desidererebbe sondare, capire… per saperne trarre conforto. Fa parte del suo passato, ma non può tornare indietro, non può starle accanto, abbracciarla forte, donarle carezze.
Ecco perché si trova qui. Dopo che l’Orologio aveva emanato quella luce azzurrognola tanto forte, si era subito messa alla ricerca di una plausibile spiegazione per quell’assurdo fenomeno.
Aveva cercato in tutti i libri del vecchio studio di suo padre, sperando che sua madre le avesse lasciato una qualche forma d’indicazione almeno lì.
Niente, nessuna traccia.
Mentre tuttavia rimetteva a posto quei vecchi tomi polverosi –per frugare al loro interno li aveva sparsi tutti sul pavimento dello studio, dando vita a un vero e proprio marasma- un foglio accuratamente ripiegato era scivolato fuori da uno dei libri, cadendo con leggiadria sul pavimento.
Amelia l’aveva recuperato subito, aprendolo ed osservando per un tempo indefinibilmente lungo la scrittura piccola e ordinata, che non poteva essere di nessuno se non di sua madre.
Le dita le tremavano per l’emozione mentre leggeva e rileggeva quelle parole.
Era venuta a mancare diversi mesi prima, fino a quel momento non aveva più avuto l’immenso piacere di entrare in contatto con qualcosa che le appartenesse.
Beh, tranne per l’Orologio.
Le era stato consegnato proprio dalla donna, pochi giorni dalla morte –o suicidio che qualsivoglia dire– senza grandi cerimonie.
Adesso toccava a lei portare avanti quel “tesoro di famiglia” dei Greene.
Nella lettera erano contenute le ultime parole di sua madre per lei e per suo padre.
Inoltre, tra le pieghe di quel foglio, l’indirizzo stropicciato che ora l’ha portata lì.
Per questo deve entrare là dentro, a qualsiasi costo.
Poggia la mano sul pomo dorato della porta, cercando di farlo ruotare, in modo da far scattare la serratura.
Niente.
Inizia a spazientirsi, non si è fatta quasi mandare a quel paese da un tassista per un buco nell’acqua.
Sta quasi per desistere, quando avverte un lieve clangore metallico sotto la propria mano.
Osserva la porta con un’espressione a dir poco sbigottita mentre la spinge lentamente in avanti, lasciando che si apra davanti al suo volto attonito.
La pesante porta in legno di noce della bottega si dischiude con un cigolio piuttosto tetro mentre dona lentamente ad Amelia una visuale sull’interno di quel luogo.
Inizialmente Amelia elabora due considerazioni, anche piuttosto sciocche se si vuole: la prima è che là dentro c’è così tanta polvere che, con ogni probabilità, qualcuno non vi entra da parecchi anni; la seconda è che pare essere scoppiata una bomba.
Ci sono fogli sparsi in ogni dove, oggetti praticamente buttati all’aria … niente là dentro è nel posto in cui si dovrebbe trovare.
Francamente, Amelia non ha la più pallida idea del perché il suo Orologio dovrebbe venire da un posto del genere, tuttavia si fidava di sua madre –e si fida ancora di lei, nonostante ormai non ci sia più– il che vuol dire che, se le ha lasciato quell’indirizzo non è di certo per farsi beffa di lei, bensì per aiutarla in qualche modo.
Che Amelia non abbia ancora la più pallida idea di quale sia questo modo sono solo dettagli, ovviamente.
Scende i due gradini d’ingresso del locale –anche questi in legno– e si ritrova in quello che deve essere un atrio piuttosto spazioso.
La porta si chiude alle sue spalle con un cigolio piuttosto inquietante, Amelia non può fare a meno di trovarlo spettrale.
Eppure … le sembra come che in quel luogo ci sia qualcosa che non vada.
Ripensa istintivamente a sua madre, a quanto fosse precisa, ordinata, quindi sposta nuovamente lo sguardo tra il disordine della bottega.
Amelia non ha mai creduto all’ipotesi della polizia, secondo la quale quello di sua madre sarebbe stato un suicidio.
Elizabeth Greene era una donna solare, aveva sempre il sorriso sulle labbra e, che la figlia ricordasse, nemmeno un problema ad affliggere la sua vita.
Avrebbe potuto nascondere il dolore dietro a quel suo sorriso … tuttavia Amelia non riusciva a darsela a bere, conosceva sua madre e sapeva che non era capace di raccontarle una bugia, figurarsi nasconderle qualcosa; inoltre, perché mai avrebbe dovuto mentirle?
Certo, i motivi sarebbero potuti essere tanti, Amelia lo sapeva perfettamente … tuttavia sua madre era morta qualche mese fa, lei non era più una bambina, se ci fosse stato un problema nella vita di sua madre se ne sarebbe dovuta accorgere … no?
Non aveva mai creduto che si fosse buttata spontaneamente da quella scogliera; piuttosto, riteneva molto più probabile che qualcuno l’avesse spinta giù da questa.
Però … chi mai avrebbe potuto fare una cosa del genere? E, soprattutto, perché?
Da un periodo a quella parte aveva cominciato a credere che la chiave di tutto fosse proprio quell’Orologio:prima quella strana luce, adesso questa bottega assurda …
Se solo fosse riuscita a capire quale fosse la chiave che collegava tutti quegli eventi …
Si avvicina ad uno dei lunghi tavoli da lavoro che corrono verticalmente attraverso tutto il locale: sono pieni di scartoffie di ogni genere, dai progetti per come sistemare delle lenti in un cannocchiale ad altri di cui Amelia non ha la più pallida idea di cosa siano, non le pare di aver mai visto qualcosa del genere in vita sua.
Dopo diversi minuti che i suoi occhi vagano a vuoto in quel caos senza via d’uscita scorge qualcosa che le risulta stranamente familiare.
Allunga una mano verso un foglio non troppo distante, meravigliandosi non poco quando si rende conto di star osservando una rappresentazione incredibilmente realistica di un Orologio molto simile al suo.
In realtà il formato del foglio è piuttosto ampio –e l’aspetto piuttosto antico, quel foglio pare essere di secoli fa– e su di esso sono rappresentati ben dodici Orologi.
Sono tutti piuttosto simili tra loro, a cambiare è solamente il disegno raffigurato sul retro:c’è il corvo di Amelia, un frammento di vetro, una chiave di basso –sua madre era una musicista, suonava il pianoforte e le aveva insegnato a riconoscere alcuni simboli musicali, oltre che a riprodurre qualche semplice motivetto–, una pergamena, delle maschere teatrali, degli ingranaggi meccanici, una freccia, il sole, la luna e, infine, addirittura la rappresentazione del mondo intero.
Quello che colpisce maggiormente l’attenzione di Amelia, tuttavia –nemmeno lei sa perché– è quello che riporta sul dorso l’effige di una clessidra.
Sembra un po’ la chiave di lettura di tutti quegli Orologi, quelli che li lega tutti.
Solo che Amelia non ha la più pallida idea del perché.
Le pare di avvertire un rumore improvviso, che le fa alzare la testa di scatto.
Strano, non le pare che nel locale sia cambiato qualcosa … tuttavia lei quel rumore non se lo è immaginato, ne è certa.
È allora che le viene in mente: si guarda intorno, lo sguardo che ancora una volta naviga tra quella confusione immensa.
E davvero si chiede se sia la prima ad entrare in quella bottega dopo quasi due secoli o se qualcuno l’abbia preceduta, alla ricerca di chissà che cosa.


» New York, Stati Uniti d’America, 2120


Non ha ancora ben chiaro perché l’ha fatto.
Dubita sia stato desiderio di andarsene da quel luogo … inoltre nutre anche un timore non indifferente nei confronti di quel mondo sterile all’esterno della “campana di vetro” dentro cui è rimasto per così tanto tempo.
Allora perché ha accettato?
Forse la risposta è che sarebbe sembrato strano il contrario, tuttavia non riesce a giustificarsi il perché debba sempre ricorrere a quella sorta di logica contorta per poter motivare le proprie decisioni.
Lancia uno sguardo fugace alla persona al suo fianco, che avanza con una certa sicurezza attraverso le strade buie e deserte di quella New York.
Jude si stringe nella giacca, rimedio di fortuna che hanno trovato per un puro caso, mentre si chiede quale possa essere la dimestichezza del suo accompagnatore con le strade di quella versione piuttosto inverosimile di una della metropoli americane per antonomasia.
È vero che Ray procede nel suo cammino con una certa disinvoltura, eppure non può fare a meno di chiedersi quando mai sia andato a farsi un giro di ricognizione in quel luogo surreale.
Non glielo chiede, ovviamente: teme che potrebbe risultare scortese, inoltre non vorrebbe mai rievocargli alla mente dei ricordi spiacevoli.
Sa infatti che Ray è rimasto in quel luogo per molto più tempo di lui, peraltro senza nessuno accanto a fargli compagnia … per questo a Jude non serve certo un indovino per capire quanto possa essersi sentito solo, in tutto quel tempo.
Deve aver rischiato di impazzire …
E ora che non è più da solo che cosa succede? L’unica persona che vede dopo una quantità di tempo piuttosto allucinante gli chiede un modo per andarsene di lì.
Senza menzionarlo minimamente, ovvio.
Jude si sente piuttosto egoista:la verità è che non ha pensato a lui, al fatto che avrebbe potuto cercare di portarlo con sé, a come si doveva essere sentito dopo che gli aveva rivolto quelle parole …
“Okay, ho ragione io: sono davvero uno stupido” rimugina tra sé, decidendo però di non tramutare i propri pensieri in parole: non crede infatti che Ray sarebbe poi così d’accordo con lui.
Piuttosto, preferisce chiedergli ben altro.
«Si può sapere dove stiamo andando?»domanda infatti, convincendosi a parlare mentre butta fuori una discreta quantità di fiato.
Per tutta risposta riceve uno sguardo interrogativo, dopodiché quei piccoli occhi neri tornano a guardare davanti a sé.
Come sempre, dopotutto.
Jude è convinto che non lo sentirà proferire parola oltre.
Tuttavia, sorprenderlo è sempre stata una dote di quell’uomo.
«Certo che si può sapere. Dunque, avevo pensato di iniziare la ricerca da un grattacielo: credo che, se andassimo in alto per quanto più ci è concesso, potremmo avere un’ottima visuale. E chissà che magari da lassù non scopriremo qualcosa di interessante…~»lo sente in effetti risponde.
Per un momento Jude rimane a bocca aperta, interdetto se chiedere altro o meno.
Tuttavia la soluzione al suo dilemma gli arriva neanche troppo tempo dopo, poiché l’uomo si arresta di colpo, dinanzi ad un palazzo dall’altezza piuttosto considerevole.
All’inizio cerca quasi di trattenersi, mordendosi la lingua e tentando invano di frenarla, tuttavia ovviamente tutti i suoi sforzi si rivelano inutili.
«Dobbiamo entrare là dentro?»domanda, una nota dubbiosa ben percepibile nella voce.
Sa che è una richiesta piuttosto superflua, dopotutto nemmeno dieci secondi prima -erano dieci secondi prima? Ahh, i soliti problemi con la percezione temporale- gli ha detto che sarebbero dovuti andare in alto per vedere qualcosa.
Però ormai gliel’ha chiesto lo stesso, alla ricerca di chissà quale conferma: comincia a sospettare che, in un mondo dove non ha la neppur minima certezza, aggrapparsi a delle piccole certezze, come se siano delle ancore di salvezza in un mare burrascoso e in tempesta, sia l’unico modo in suo possesso per riuscire a sopravvivere.
Ray si volta subito nella sua direzione non appena lo sente parlare, osservandolo intensamente. Non sembra intenzionato a parlare, quello no.
Jude percepisce che deve aver intuito il suo stato d’animo, non sa nemmeno lui come, evidentemente deve avere una sorta di strana espressione dipinta in volto -e di cui, a quanto pare, non riesce proprio a liberarsi- e forse ha compreso quel suo bisogno irrazionale di ricevere aiuto, qualcosa a cui aggrapparsi.
Ecco perché, poco dopo, lo sente rispondergli.
«Beh, direi di sì»commenta infatti, cercando di risultare quanto più semplice e comprensibile nel proferire la frase, non vorrebbe confondere il ragazzo più del dovuto.
Deve ammettere che l’idea di entrare in un grattacielo vuoto e abbandonato non rientri esattamente tra i suoi sogni segreti.
E ancora si ritrova a chiedersi quanto valga la pena entrare là dentro e fare tutte quelle cose, se poi è lui stesso il primo ad avere dei dubbi sulle possibilità concrete che hanno di andarsene da quel luogo.
«Ma non è illegale? Voglio dire, non dovrebbe trattarsi di effrazione o qualcosa del genere?»obietta Jude, inarcando le sopracciglia.
Ray scuote la testa, sospirando mestamente mentre replica:«Siamo in un luogo disabitato, davvero credi che possa esistere un eventuale qualcuno che avrebbe qualcosa da ridire se entriamo in un palazzo di proprietà di nessuno?».
Jude scuote prontamente la testa, il che fa sorgere un ghignetto divertito sulle labbra dell’uomo.
«Dì la verità, Jude, hai paura di trovarci dentro qualche zombie affamato di cervella umane, vero?~»lo schernisce infatti, piuttosto divertito da quella situazione.
Il ragazzo decide di ignorare bellamente quella provocazione, scuotendo il capo con decisione mentre inizia a salire i gradini che portano all’ingresso del palazzo, quasi con una punta di risentimento.
«Certo, come no»borbotta infatti poco dopo« Adesso che ne dici di fare qualcosa di veramente utile ed entrare qui dentro, anziché continuare a girarti invano i pollici?».
Ray sale in fretta gli scalini dietro al ragazzo, precedendolo nell’aprirgli la porta del grattacielo ed invitandolo a entrare prima di lui con un gesto galante.
Jude non sembra farci troppo caso, entra con disinvoltura, quasi come se non si fosse accorto di Dark al suo fianco, come se fosse stato intenzionato fin dall’inizio a fare ingresso in quel luogo prima di lui … cosa che, in effetti, corrisponde al vero.
L’interno dell’edificio è piuttosto malridotto - dall’esterno non si sarebbe intuito così facilmente- fuori infatti sembra tutto in un ottimo stato, il palazzo mantiene una certa parvenza d’ordine, le ampie vetrate che si affacciano sul mondo sono lucide e riflettono l’inquietante oscurità di quel mondo con una veridicità impressionante; dentro invece le stanze sembrano essere state attraversate da dei monsoni.
Si trovano in quella che, all’apparenza, risulta essere la hall di una qualche multinazionale, tuttavia non sembra esserci nemmeno una cosa al posto che le spetti.
Quadri da raddrizzare, poltroncine d’attesa completamente ribaltate, fogli di fotocopiatrice sparsi in ogni dove.
Jude si stringe le braccia intorno al corpo, rabbrividendo appena: quel luogo non gli piace affatto, ha un non so che di spettrale, non si meraviglierebbe se, da un momento all’altro, sbucasse davvero uno zombie completamente dal nulla, tutto benintenzionato a nutrirsi del suo cervello.
Ray invece osserva il luogo con aria decisamente più distaccata ed imparziale, quasi asettica: proprio per questo individua quasi subito una grande rampa di scale, ad una cinquantina di metri dalla scrivania in fondo alla stanza che domina un po’ tutto il pianterreno, se così si possa definire il posto dove ora si trovano.
Tocca con pacatezza la spalla del giovane, indicandogli le scale, che paiono avvilupparsi intorno alla struttura di vetro e ferro di un ascensore.
Quel luogo è indubbiamente moderno, non c’è che dire, come del resto tutta quella sorta di sub-città.
Questo non nega che ci siano dei problemi anche lì: come nel resto di quella surreale New York, non c’è elettricità in alcun modo, inoltre come se non bastasse i cavi dell’elevatore sembrano essere stati trinciati di netto.
La domanda ovviamente è come sia possibile tutto ciò: se nessuno vive lì, chi mai può aver tagliato le linee guida di un ascensore che non sarebbe riuscito a funzionare comunque, considerata anche e soprattutto la generale mancanza di elettricità diffusa in tutta la città?
Jude sente che in quel luogo c’è qualcosa che non va, lo ha percepito prima ancora di metterci piede, questo tuttavia non l’autorizza a darsela a gambe levate come invece desidererebbe così tanto, anzi arrivato a quel punto è cosciente che non può farlo, già entrando lì ha fatto molto, inoltre non ha la neppur minima intenzione di buttare all’aria tutti gli sforzi fatti sino a quel momento per una paura stupida ed insensata.
«Non dirmi che dobbiamo salire tutte quelle scale...»mormora, quasi implorando l’uomo.
«Abbiamo detto che abbiamo bisogno di una buona visuale, ricordi?»gli riporta alla mente l’uomo, con un tono piuttosto pragmatico.
Jude sbuffa, piuttosto insoddisfatto, tuttavia alla fine si arrende all’evidenza ed al fatto che, volente o nolente, dovrà davvero farsi tutta quella scarpinata.
Alla fine sospira ancora una volta e comincia ad arrampicarsi su per quelle scale, a passi piuttosto svogliati, seguito a breve distanza dall’uomo.
L’ascesa si rivela essere piuttosto tediosa, inframezzata unicamente dai passi ritmici dei due e dai loro battiti e respiri appena accelerati a causa dello sforzo fisico.
Jude non ha idea di quanto ci mettano ad arrivare fino in cima al palazzo, non esistono orologi in grado di definire una cosa simile, tuttavia è piuttosto certo che siano trascorsi parecchi minuti quando finalmente giungono all’ultimo piano.
L’aspetto sembra quello di un ufficio dirigenziale, con diverse scrivanie e poltrone rivestite di pelle rossa e nera.
Il buio domina in gran parte anche quel luogo, non c’è fonte di luce che possa rischiararlo, sebbene sia presente anche qui una vetrata che corre lungo tutto il piano.
A differenza del pianterreno, quel luogo sembra aver mantenuto un certo ordine, probabile che loro due siano stati gli unici due a farsi tutte quelle scale per… per cosa, poi?
Ma cosa sta dicendo? “Gli unici”? Come se mai potesse esserci qualcun altro oltre loro due in quel luogo, certo.
Però… però per la prima volta un dubbio insorge nel ragazzo.
Si muove intorno con una certa cautela, osservando quel nuovo mondo che ora lo circonda.
Nota quasi subito di un dettaglio piuttosto bizzarro, che gli salta all’occhio con prepotenza.
Si avvicina alla scrivania più prossima a sé e si china davanti ad essa, osservando sbigottito ciò che ora vede ai suoi piedi.
Sono fogli, anzi no, non esattamente, sarebbe più corretto definirle pagine di calendario, evidentemente strappate e lasciate cadere a terra con la stessa grazia di petali di fiori.
Ne prende alcune tra le mani, facendole girare e rigirare tra le dita con delicatezza, quasi come se avesse il timore che possano sgretolarsi da un momento all’altro.
Non se ne accorge subito, tuttavia quando lo vede ci manca poco che gli venga un colpo: su quel calendario, infatti, la data riportata è il 2100.
“Aspetta un momento…”mormora tra sé il ragazzo, mentre i suoi occhi si dilatano a dismisura, prendendo delle vivide e ancor più intense del solito sfumature cremisi.
Si rimette in piedi, le mani che adesso gli tremano in modo incontrollato.
“Com’è possibile…?”si chiede, nello sguardo terrore misto a disorientamento.
Avanza fino a ritrovarsi di fronte alla vetrate, le mani vi si appoggiano sopra, ancora tremanti.
Sente alcuni passi alle sue spalle, tuttavia non si oppone ad essi in nessun modo, per quanto sia duro ammetterlo a se stesso ciò che vorrebbe adesso non è nient’altro che un po’ di conforto.
Per questo non rifiuta le braccia dell’uomo che poco dopo si stringono intorno al suo corpo, avvolgendolo nella sua interezza, rincuorandolo con delicate accortezze.
È incredibilmente piacevole, tutto sommato, sentirlo presente. Come se non fosse lui a pensare, Jude si accorge che stare vicini è davvero l’unica che cosa che possono fare, adesso.
Perciò non oppone alcuna resistenza a quel tocco gentile che ora l’aiuta a voltarsi verso di sé.
Così si ritrovano uno di fronte all’altro, a guardarsi intensamente. Chissà cosa vogliono dirsi, quegli occhi… qualcosa che non è comprensibile a nessuno, se non a quello stesso gioco di sguardi, il rosso che s’incrocia con il nero e che affoga all’interno di quest’ultimo, come a trovare finalmente pace.
Ecco perché non può far altro che abbandonarsi alle labbra che ora premono piano sulle proprie, ponendo fine ad un dolore trascinato dietro per fin troppo tempo.
Jude chiude gli occhi, lentamente:ora non è quello il senso che gli serve.



* Angolo autrice *

{OTP OTP OTP Jesus Christ OTP}
Ignorate lo sclera là sopra, vi prego.
{OTP!}
Okay, basta, la smetto, giuro.

Non parlerò neanche del fatto che sono in ritardo perché da una parte ehi!, è proprio così, sono in ritardo, dall’altra invece per la prima volta in vita mia ho deciso di fare un ragionamento sensato e ne emerso il fatto che la scrittura per me è, in primo luogo, una grande passione, pertanto credo che quando una passione si tramuta in un’obbligazione il piacere che c’era nello svolgerla venga un po’ a mancare.
E questa non è una bella cosa. Mai.
Così ho preferito prendermi più tempo per la stesura di questo capitolo che alla fine, nonostante si sia fatto attendere per un bel po’, però adesso è qui, nella sua magnificenza di ben venti pagine di word. Pertanto gioite.
Spero possa soddisfare almeno un po’ tutta questa attesa:voglio dire, essendomi presa tutto questo tempo per prepararlo dovrebbe essere perlomeno decente, no?
Non so quanto quello scritto sopra abbia senso, perciò ignorate e andate avanti.
Parliamo un po’ del capitolo:devo ammettere che mi ha messo un po’ in crisi, specie per quanto riguarda gli ultimi tre point of view. Anzi, in effetti mi reputo piuttosto fortunata, i primi due si sono scritti praticamente da soli.
Dunque, anzitutto abbiamo finalmente visto introdotto l’ultimo personaggio che mancava all’appello, vale a dire quello di Andrea (e qui ne approfitto per ringraziare Marina Swift, con la quale mi sono sentita spesso nel periodo pre - pubblicazione e che diciamo mi è stata molto vicina in questo senso). Se non si fosse capito, l’episodio della luce luminosa è legato a quello di Amelia dello scorso (?) capitolo –vale a dire che è lo stesso. Ciao, sono Capitan Ovvio parte due.
Diciamo che questo capitolo è stato rinominato “Il capitolo delle ship” perché giuro che me ne partiva una ogni dieci secondi. Dai, ammettiamolo che Hurley e Atemu insieme sono due piccoli cutie … o meglio, loro non stanno ancora insieme ma io già li shippo, pace e bene fratelli (?)
Ops. Spoiler.
Si è notato che non so essere imparziale? D’altronde però questa è la mia storia, quindi perché mai dovrei esserlo? u.u
Poi (dimentico niente?) abbiamo Ethan e devo ammettere che quando ho deciso il suo pov in questo capitolo ero molto “Ethan ma what the f**k-”. Credo però che questo avvenga perché io so tante belle cose –che a voi ovviamente non posso dire, perché altrimenti che gusto ci sarebbe?- e quindi boh, staremo a vedere.
Amelia invece ha trovato una bottega –per chi se lo sta chiedendo:sì, ovviamente è quella bottega- e ci ha dato un indizio interessante:come dissi nel prologo di questa storia gli Orologi sono dodici, di fatto però gli oc che ho ritenuto adeguati alla storia erano solo otto, quindi mi sono dovuta inventare una fine plausibile per gli altri quattro.
Inoltre abbiamo anche scoperto qualcosa in più sul suo conto, vogliamo mettere? So che qualcuno di voi attendeva con ansia questo momento (ciao chion ...)
E io una fine plausibile me la sono inventata, solo che … non so, comprende morte e sofferenza …
Il che la rende perfetta, yu-uh!
Quindi arriviamo finalmente all’ultima parte di questo capitolo, sulla quale mi sono bloccata a lungo e sono riuscita a sbrogliarmene solo ieri pomeriggio grazie all’aiuto di mia moglie Sissy, che a proposito ringrazio come al solito per avermi betato il qui presente panfleu e per avermi aiutata nella stesura dell’ultima parte del capitolo, dove mi stavo fermando nuovamente. Ahh, come farei senza di te? Non vedo l’ora di abbracciarti tra poco più di un mese, yup yup~❤
E nnno, niente {OTP- ma non avevamo detto basta? owo} è che … su questa ultima parte non riesco proprio ad essere imparziale, perciò penso che non la commenterò oltre.
Ci terrei piuttosto a fare una constatazione:questo capitolo arriva in ritardo rispetto al precedente di quasi due mesi –per motivi miei personali che non credo sia questo né il luogo né il momento adatto per stare a discernere questi ultimi– ma sta di fatto che in questi due mesi solo tre persone si sono degnate di recensire lo scorso capitolo. Ora, io capisco tutto, di fatto sono io stessa a postare i capitoli ogni due ere geologiche ed è chiaro che, come io posso aver avuto dei problemi anche voi ne abbiate, però mi farebbe davvero piacere sentirvi, specie per quanto riguarda Cari Chan e _AliHeichou_ che mi sono un po’ sparite dalla circolazione.
Anche perché, sia chiaro:se non vi fate più sentire non mi riterrò responsabile se al vostro personaggio verrà amputato un braccio o peggio ...
Ripeto, capisco tutto e so che, da un certo punto di vista sono io stessa la prima ad essere in ritardo, però che ne dite di venirci un po’ incontro a vicenda, mh?
{Per Sissy:moglie, scusa se insisto ma anche le tue recensioni mi mancano all’appello. Lo so che sei impegnata, però quando vuoi mi fai un fischio …}
Quindi, per piacere, recensite. Altrimenti vi vengo a cercare (con affetto ❤)
Un’ultima cosa:dal prossimo capitolo entreremo (credo) nella seconda parte della storia, e per la verità pure nel vivo di questa. Preparatevi a qualsiasi tipo di colpo di scena –ci sarà pure un nuovo banner- ma per il resto non vi anticipo altro, perché altrimenti non sarei io.
Bene, direi che è arrivato il momento di togliere le tende. Ringrazio chiunque continuerà a seguire questa storia e chiunque (nessuno) sia arrivato alla fine di questo space (nessuno). E recensite, umpf.

Aria
   
 
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