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Autore: ChiaraSerafin22    21/02/2016    0 recensioni
I delitti si compiono quando le foglie cominciano a cadere. Perché anche le vite, come le foglie, vengono falciate dal vento freddo della morte...
Così inizia questa storia, di amicizia, tra una bambina e un assassino.
E' una storia semplice, quasi una favola, dei giorni che scorrono tra la carcerazione e l'esecuzione di un giovane che ha deciso che l'omicidio era l'unica soluzione. Giorni illuminati da Angie, una bambina a metà tra l'immaginazione e la coscienza.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I delitti si compiono quando le foglie cominciano a cadere. Perché anche le vite, come le foglie, vengono falciate dal vento freddo della morte.
Gli assassini sono vestiti di buio e portano la maschera della notte: sono emissari di un altro mondo e la loro volontà è la stessa di tutti coloro che evocano il sangue.
La casa era avvolta da una corolla di tenebre e il silenzio era fin troppo pesante: c'era da chiedersi perché i suoi abitanti non si fossero ancora svegliati in preda a qualche brutto presentimento, perché non sentissero l'odore della paura.
Non c'era da chiedersi però cosa ci facesse lì nei pressi l'uomo ammantato di nero, avvolto dalla determinazione, gli occhi che riflettevano la luce di ghiaccio delle stelle. L'uomo non aveva altri pensieri che accontentare il suo pugnale dandogli in pasto carne, di nutrire la terra col sangue del suo nemico.
Quando decise che l'attesa si era trasformata in brama, l'assassino si mosse e uscì dal nascondiglio. Si era accertato che la porta sul retro fosse difettosa e che avrebbe potuto aprirla senza causare troppo rumore. La attraversò, e passò oltre.
"Seconda stanza a sinistra" pensò, nient'altro gli si affacciò alla mente. Era febbricciante d'ansia. La mano a pochi centimetri dal pomello della porta. Entrare o fuggire? La sua vita dipendeva da quella scelta. Venne privato di quell'ultima decisione: si sentì lo scatto della serratura e la porta che gli stava davanti venne aperta dall'interno.
"Troppo tardi". Ma era ancora lui il carnefice. Avrebbero potuto sventare il suo attacco, ma era ancora lui il carnefice.
La lama della sua arma brillò prima di trapassare la carne.

 

La prigione di Kaléfe era nell'esatto centro della vallata. Era la stagione dei fiori rossi e gli alberi erano quasi del tutto spogli: uno in particolare era bersaglio di Angel, che attendeva da ore, con pazienza, il momento in cui si sarebbe arresa l'ultima foglia. Ma quella rimaneva appesa al suo ramo, battagliera.
Angel però aspettava, forse perché non le veniva in mente altro da fare. Ciondolava nei pressi del tronco e lo sguardo le volava inevitabilmente verso l'alto: sua madre diceva che a prendere al volo l'ultima foglia di un albero non si avrebbe patito freddo durante l'inverno. La bimba un po' ci credeva, un po' no. Però era anche dell'idea che tentare non costava nulla, inoltre lei aveva tutto il pomeriggio libero.
Mentre aspettava, Angel udì un rumore. Tese le orecchie: qualcuno piangeva. Pur nella sua ignoranza del mondo, la bambina capì che doveva trattarsi di un pianto di rabbia e di... Come si diceva? Frustrazione.
Da dove proveniva? Da poco lontano da lì, decretò. Così si incamminò verso la sua fonte, perplessa e curiosa.
Dato che si trovava in una zona boschiva, doveva stare continuamente attenta al fitto del sottobosco e a dove metteva i piedi. Di conseguenza, non fece abbastanza attenzione a ciò che si trovava davanti e, all'improvviso, si scontrò con una fitta e alta rete di metallo. Corrucciata, sbatté diverse volte le palpebre e guardò finalmente davanti a sé: accucciato in terra dall'altra parte della rete stava un uomo. Ma, notò Angel, considerarlo tale forse era eccessivo: era piuttosto un ragazzo, e nemmeno molto adulto; anche se questo non lo si poteva giudicare perché egli stava rannicchiato e sofferente, il viso nascosto e incassato fra le mani, il corpo striato di sangue e frustrate.
La bambina non indietreggiò di fronte a quella vista, ma ne rimase comunque turbata, se non addirittura spaventata: "Chi sei?" provò a domandare, con tutta l'ingenuità dei suoi dieci anni.
Il ragazzo, pur dal suo stato chino, parve udirla: smise immediatamente di lamentarsi e pian piano i loro occhi riuscirono ad incrociarsi.
Entrambi rimasero muti per il tempo di un lungo respiro.
Poi lui disse: "Sono un assassino".
"Come ti chiami?" insistette candidamente Angel, non soddisfatta della risposta, C'è da dire che, comunque, era rimasta scossa.
"Hai sentito quello che ti ho detto?" ringhiò l'altro, a denti stretti per il dolore. Anche il volto era graffiato da strisce rosse.
La bambina storse il nasino e si accucciò in terra, le mani sulle ginocchia e il viso proteso verso lo sconosciuto: "E per questo motivo non avresti più un nome?".
Il ragazzo assunse un'espressione sofferta e strinse i pugni premendoli sulle guance, ricacciando indietro le lacrime: "No, per questo motivo non ho più una libertà".
"Cos'è "libertà"?" chiese lei, interessata alla parola che, pur avendola sentita tante volte, non le era mai stata chiarita.
"Non fartelo spiegare da una persona che vive in gabbia".
"e sai il significato però puoi anche dirmelo" ribatté Angel.
Lui parlò con la voce roca di chi è stato a lungo in silenzio: "È quella che appartiene a coloro che stanno al di là di questa rete. È quella che permette a te di alzarti quando vuoi e di andartene via, lontano da questo posto. Mentre al contrario io non potrei far altro che addentrarmi sempre più in questa prigione di morte".
La bambina osservò gli occhi del prigioniero, carichi di qualcosa che non era in grado di interpretare, e provò tristezza.
"Il mio nome è Dwight" le rispose lui, alla fine, "Lo rivedrai presto fra gli annunci mortuari". Si sentì di fare del sarcasmo, ma la sua risata sfociò in un rantolo di tosse, che lo fece contrarre in un crampo e sputare sangue.
Angel inorridì visibilmente e sbatté ripetutamente gli occhi: "Chi ti ha fatto tanto male?".
"Gli uomini". C'era un tale rancore in quelle due parole che lei quasi non se la sentiva di ribattere. Quasi: "Tutti quanti?".
"Chiunque giudichi senza conoscere".
"Anch'io sto giudicando te, eppure non ti conosco. Faccio male?".
Dwight era troppo amareggiato per sorridere a quelle parole così dolci: "Dipende da cosa giudichi" disse, con un chiaro atteggiamento di sfida.
La bimba aprì la bocca per replicare, ma sentì le campane in lontananza e ricordò che era l'ora di tornare a casa: "Devo andare, magari ci vediamo domani". Senza un saluto in più, si allontanò.
Il ragazzo osservò quella candida figuretta saltellare fra gli arbusti e andarsene. Avrebbe tanto desiderato possedere quella sicurezza di raggiungerlo, il domani.

   
 
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