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Autore: Alex_Logan    21/02/2016    0 recensioni
"Avevo deciso che meno persone conoscevo, meno distrazioni avrei avuto.
Ero deciso a starmene per conto mio, di conseguenza pensai che niente avrebbe potuto smontare quella mia forte convinzione.
Ovviamente mi sbagliavo."
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Universitario
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Le tre settimane seguenti passarono velocemente.
Ormai mi ero quasi completamente abituato ai ritmi frenetici a cui la nuova università e i corsi pomeridiani mi stavano sottoponendo.
I miei corsi si tenevano tre pomeriggi a settimana: il lunedì, il mercoledì e il venerdì, e anche se  impiegavano la maggior parte del mio tempo sapevo che ne valeva la pena.
Ovviamente i corsi di formazione non mi davano il tempo di ritornare a casa per il pranzo, quindi durante la mia pausa mi recavo sempre al ‘betsi bar’ in cui lavorava la ragazza con gli occhi blu, Alexandra.
Ormai era quasi diventato un appuntamento di routine: la mattina la vedevo entrare all’università e dirigersi verso la sua ala dell’edificio, e a pranzo la rivedevo al ‘betsi bar’.
Ammetto che andare al betsi era quasi diventata una scusa per vederla e scambiare quattro chiacchiere.
Non sapevo praticamente nulla di lei, né da dove venisse, né come passasse le sue giornate, quali fossero i sue interessi o le sue passioni, ma nonostante ciò ne ero profondamente attratto, e non solo perché era bellissima, sia chiaro. Le nostre conversazioni si limitavano a “buon giorno come va?” o “com’è andata la giornata” o “scommetto che anche oggi prenderai l’acqua frizzante”; eppure era un circolo vizioso a cui non riuscivo più a sfuggire.                                                                 Quella giornata non fu diversa: mi recai al bar come al mio solito ed aspettai di vederla dietro al bancone.
Invece trovai una situazione che non mi piacque per niente.
Lei era lì come al solito, ma invece di servire i tavoli dei clienti, stava discutendo con un tipo, un omone alto e robusto con una barba scura e un’espressione infuriata sulla faccia.
Non ero abbastanza vicino per riuscire a sentire il perché di tale discussione, ma sentii una scarica elettrica percuotermi la spina dorsale e il bisogno di avvicinarmi per vedere cosa stava succedendo, per difenderla.
Avvicinandomi riuscii a vedere che c’erano delle tazzine rovesciate a terra: l’uomo era sporco di una sostanza acquosa, non saprei dire se fosse acqua o qualche altra bevanda.
“Stupida ragazzina, come ti sei permessa di rovesciarmi tutto addosso! Hai idea di quanto siano costati questi vestiti?“
Alexandra fu molto intimidita dal suo tono, ma riuscii a rispondere: “Senta non è colpa mia... Lei si è alzato mentre stavo portando l’ordinazione e non l’ho vista in tempo... Le chiedo scu..”
“Ah, quindi sarebbe colpa mia adesso? Sei tu che mia imbrattato tutto, brutta stupida!”
Detto questo la spinse e lei cadde a terra, atterrando violentemente sul pavimento.
Non ebbi il tempo di intervenire perché il direttore del bar uscì – finalmente – dal suo ufficio.
“Che succede qui?” esclamò vedendo Alexandra sul pavimento.
“La sua cameriera mi ha versato tutto il caffè addosso! Ha anche cercato di darmi la colpa: guardi come sono ridotto, è inaccettabile!”
Mi irritò vedere il modo in cui se la stava prendendo con lei ingiustamente, ma dato che l’uomo alto continuò a imprecare – questa volta contro il direttore – ne approfittai per avvicinarmi ad Alexandra e assicurarmi che stesse bene, dato che nessuno si era ancora preso la briga di aiutarla.
“Hey, come stai? Ti sei fatta male?” le chiesi inginocchiandomi vicino a lei.
“S.si sto bene tra-tranquillo” mi rispose in modo tremante.
Capii subito che quello che stava dicendo andava in completa contrapposizione con quello che realmente sentiva, ma non feci commenti e la aiutai semplicemente ad alzarsi, posandole una mano sulla vita e l’altra alla base della sua schiena.
Nel modo di alzarsi, riuscii a leggere nella sua espressione una sfumatura di dolore: si era sicuramente fatta male alla schiena a causa dell’impatto della caduta. 
“Grazie” sibilò lentamente, guardandomi con quelle sue pozze blu che questa volta sembravano più tristi e spaventate del solito.
Stavo per risponderle che non doveva ringraziarmi per così poco e che era stato davvero ingiusto il modo in cui era stata trattata, ma non feci in tempo perché entrambi sentimmo il suo capo esclamare: “Alexandra! Vieni nel mio ufficio e chiariamo questa faccenda.”
Lei fece una faccia terrorizzata che in quel momento non riuscii a comprendere appieno. Mi limitai a rivolgerle uno sguardo rassicurante.
“Andrà tutto bene tranquilla” le dissi semplicemente.
Lei mi rivolse un sorriso sinceramente grato e si allontanò verso l’ufficio del proprietario.
                                                                                ***
I corsi erano cominciati da davvero molto poco e tutto ciò a cui riuscivo a pensare era quello che era appena successo al betsi. Il mio unico pensiero era concentrato su Alexandra, su cosa le avesse detto il suo capo, su come si sentisse e se ancora le facesse male la schiena.
Non riuscivo ancora a credere al modo in cui quell’uomo l’aveva trattata, il modo in cui si era rivolto a lei, la brutalità con cui quell’uomo l’aveva trattata, il modo in cui si era rivolto a lei, la brutalità con cui l’aveva spinta a terra. Tutto per una stupida macchia sui pantaloni.
Mi arrabbiai così tanto ripensando a quello che era successo che non sentii il professore richiamarmi: “Logan, cosa stai facendo? Perché stai torturando in quel modo quella povera penna?”
Sinceramente non mi ero accorto di stare praticamene distruggendo la custodia della mia penna masticandola con i denti.
“M-mi scusi. Mi ero distratto” 
“Lo so” disse semplicemente. “Bene cinque minuti di pausa” esclamò infine.
Mi alzai velocemente e uscii dall’aula: avevo bisogno di prendere aria.
Mi appoggiai al muro e chiusi gli occhi, prendendo un respiro profondo. Rimasi così per quasi venti secondo finché non sentii delle persone parlare.
“Avete sentito cosa è successo oggi al betsi?” disse uno dei ragazzi del gruppo.
“A quanto pare la ragazza del bancone ha fatto volare tutto il caffè addosso a Robert”
‘Robert’, pensai tra me e me, ‘Allora è così che si chiama!
“E dopo? che cosa è successo?” chiese la ragazza di fronte a lui.
“Bè, sai com’è fatto Robert... l’ha spinta e l’ha fatta cadere a terra.”
“Oh Dio, poverina!”
“Bhe, tutto questo non sarebbe successo se la ragazza non fosse stata così stupida da versargli tutto il caffè addosso, poteva stare più atten...”
“Non è stata colpa sua” esclamai. 
Sentii i ragazzi sibilare tra loro qualcosa come ‘oh allora sa parlare’, ma lo ignorai e continuai il mio discorso.
“Stava servendo il tavolo accanto e lui si è alzato all’improvviso. Se lui non avesse avuto questi modi così brutali tutto questo non sarebbe successo” dissi in modo molto freddo.
Non mi ero reso conto del tono che avevo adoperato finché non finii di formulare la frase. Non diedi loro il tempo di rispondere perché rientrai in classe.
Dovevo davvero smetterla di pensare a tutto quello che era successo e concentrarmi: non potevo permettere che qualcosa mi distraesse, eppure era la prima volta da quando ero arrivato a Los Angeles che avevo sentito così tanto il bisogno di difendere qualcuno. Non so spiegarmi il perché ma non ero riuscito a trattenermi e questo mi preoccupava.
Che stessi esagerando?
Probabilmente era così, eppure avevo sentito il bisogno impellente di difenderla, come se la mia testa mi avesse detto che era la cosa giusta da fare in quel momento.
                                                                                  ***
Il primo dei due corsi di quel pomeriggio era appena terminato. Tra i due corsi c’era sempre una pausa di trenta minuti che ci permetteva di riposarci: io sprecai la mia recandomi al betsi per vedere la situazione.
Appena arrivato diedi un’occhiata in giro. Tutto era al suo posto: i tavolini erano disposti come al solito così come le tazzine, non c’era alcun omone che sbraitava e nessuna bevanda versata.
Ashley stava servendo uno dei cinque tavoli ancora occupati.
C’era solo una cosa che non era al suo posto e mi fece preoccupare: Alexandra non c’era, il bancone era vuoto.
Rimasi immobile per qualche secondo fissando il bancone e pensando al perché lei non fosse là dietro, dove potesse essere e soprattutto se stesse bene.
Ashley riuscì a risvegliarmi dal mio coma permanente ammiccandomi con il suo solito
“Desideri qualcosa dolcezza?”
“No, grazie” risposi semplicemente.
Uscii velocemente dal locale, più pensieroso di quanto già non fossi stato in precedenza.
Perché non era lì? Cosa le era successo?
Ero veramente preoccupato e questo mi spaventava: insomma, io non conoscevo quella ragazza, in definitiva non sapevo nulla di lei, perché ero così preoccupati di quello che le potesse succedere? Non aveva completamente senso.
Decisi di smettere di pensare a lei e a ciò che era successo quel pomeriggio, dovevo concentrarmi su l’ultimo corso della giornata e poi tornare a casa con la mia nuova macchina.
Ebbene sì, avevo una macchina! I miei genitori avevano deciso di regalarmela sostenendo che “la corriera non si addice al tuo status sociale, hai bisogno di una macchina.”
Avevano parlato come se prendere la corriera fosse un crimine che un membro della loro famiglia non poteva permettere, come se fossero troppo ricchi e potenti da lasciare che loro figlio viaggiasse con un mezzo pubblico.
Non che mi dispiacesse figuriamoci, andare all’università e spostarsi con la macchina era molto più veloce e comodo, potevo svegliarmi leggermente più tardi ed uscire più spesso il che non guastava.
Ma purtroppo io non riuscivo a capire appieno i miei genitori: in vent’anni di vita non sono mai riuscito a comprendere appieno perché si comportassero in quel modo, come se essere avvocati e avere una busta paga piacente bastasse a sentirsi superiori agli altri.
Questo era un’altra delle tante motivazioni che mi avevano spinto ad andare via da San Francisco, dovevo allontanarmi da loro, creare un pensiero che fosse tutto mio.
Non potevo permettere che le loro manie di soldi e superiorità mi contagiassero, io non ero così, e non volevo diventarlo.
Comunque sia per una volta la loro stupida fissazione era servita a qualcosa, avevo una macchina tutta mia adesso e potevo fare quello che mi pareva.                           Ritornai a lezione e questa volta il tempo passò molto più velocemente, riuscii davvero a non pensare a nient’altro che al mio professore e alla sua lezione sta volta, proprio come volevo io.
                                                                                 ***
Uscii dall’università intorno alle diciannove come al solito.
Iniziò a piovere vertiginosamente e io corsi in macchina per evitare di bagnarmi tutto. Fu abbastanza faticoso raggiungere la macchina a dirla tutta; di mattina se arrivavi anche solo con cinque o dieci minuti di ritardo potevi sognarti di trovare un posteggio vicino all’università e ovviamente io e la puntualità non andavamo per nulla d’accordo.
Comunque sia riuscii ad arrivare alla mia vettura senza bagnarmi troppo i vestiti, il che era già un grande traguardo.
Gli atri ragazzi se n’erano già andati da un po’ a causa del mal tempo e non c’era molto traffico per strada.
Sistemai tutti gli specchietti retrovisori della macchina e misi in moto. Da uno di questi riuscii a vedere una figura in piedi sotto la piaggia: era bagnata fradicia e guardava in alto senza mai distogliere lo sguardo.
Guardai meglio fuori dal finestrino per cercare di capire chi fosse, e infine la riconobbi: era Alexandra.
Ora, io non sono un tipo che crede nel destino o a cose così, ma com’era possibile che tra tutte le persone esistenti dovessi essere proprio io a vederla in quelle condizioni? Cosa avrei dovuto fare? Avvicinarmi e chiederle se le serviva un passaggio? O magari aspettare che lei si accorgesse di me e chiedesse aiuto?
Non ebbi il tempo di approfondire questi pensieri perché la vidi cadere a terra, letteralmente.
Scesi subito verso la macchina e mi misi a correre nella sua direzione, cercando poi di svegliarla imprecando qualcosa come “Ehi, dai svegliati, svegliati!?” accompagnati da tantissimi “Cazzo, cazzo, cazzo!”
Le toccai la fronte per cercare di capire se fosse stata tutta quella pioggia a farle male, e infatti non mi sbagliavo: era bollente, si era sicuramente ammalata.
'Chissà da quanto tempo è sotto la pioggia’ pensai.
Era tardi e per la strada non c’era davvero più nessuno quindi non potevo perdere tempo aspettando che qualcuno venisse a darmi una mano, dovevo portarla in un posto caldo e sicuro quindi feci l’unica cosa sensata che mi venne in mente di fare in quel momento: la presi in braccio nel modo più delicato possibile e la portai nella mia macchina.

Angolo autrice; Heylà! rieccomi con il secondo capitolo della mia storia. ringrazio tutte le persone che hanno letto il capitolo ed anche alla ragazza che lo ha recensito. spero che con questo capitolo la storie vi intrighi di più..spero anche di ricevere qualche altra recensione, ho davvero bisogno. 
ringrazio anche chi a commentato il post nella mia pagina Daddario and Lerman, grazie mille a tutti !
alla prossima.

Alex_Logan 
  
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