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Autore: _joy    26/02/2016    5 recensioni
«Dai: esprimi un desiderio!»
Io mi mordo un labbro, poi scuoto il capo.
«Ma non bisogna esprimerlo mentre la vedi cadere?»
«Come fai a sapere quando cadrà una stella? No, dai, adesso!»
«E tu?» gli chiedo «Non hai un desiderio da esprimere?»
 
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non è mai troppo tardi per essere quello che saresti potuto essere
George Eliot




Non lo faccio.
 
Non ci riesco.
Sono vigliacca, lo so, ma non posso farci niente.
Non riesco a fare quella maledetta telefonata.
Così, semplicemente, lascio passare il tempo nascondendo la testa sotto la sabbia.
Lo so, è stupido. E vigliacco.
Soprattutto stupido, visto che Ben non si fa sentire e quindi…
Quindi?
Cosa può significare questo?
Chiaro, a mio parere.
Non vuole sentirmi. Né vedermi. Quindi vuole rompere.
E io?
Cerco di allontanare il momento in cui me lo sentirò dire in faccia?
 
Non dovrei renderglielo facile, almeno per orgoglio.
Lo so bene.
Anche perché non vorrei ritrovarmi a essere scaricata senza sapere di essere stata scaricata, non so se mi spiego.
Ben potrebbe tranquillamente aver archiviato questa relazione, aver archiviato me, per quello che ne so.
Non sarebbe legittimo pensarlo?
Dopotutto, se gliene fregasse qualcosa mi avrebbe chiamata.
E torniamo sempre al solito punto.
Quanto ci vuole a prendere in mano il telefono e a cercare una persona.
 
Molto.
Troppo, a quanto pare.
 
*
 
Ciò mi rovina il Natale e tutte le Feste.
 
Ci siamo visti qualche volta, per motivi di lavoro.
Lui mi è parso esitante, tormentato.
Io sono stata glaciale.
Non voglio aiutarlo a spiegarsi, giustificarlo o psicoanalizzarlo.
Che se la cavi da solo, accidenti.
Ha trent’anni: che tiri fuori le palle, se le ha.
E questa è una cosa di cui oltretutto, al momento, dubito seriamente.
 
L’altro giorno, da Sergei, ho scoperto che Ben rientrerà a Los Angeles subito dopo Capodanno.
Io, che all’idea di tornare a casa provo i contrastanti sentimenti di gioia immensa, nostalgia e oppressione soffocante, ho immediatamente deciso di fermarmi il più possibile.
«Tu quando rientri, cara?» mi ha chiesto il regista «Voglio che tu ti goda la famiglia, ma purtroppo gli impegni per l’Oscar…»
«Il più tardi possibile» ho risposto, atona.
«Oh, certo. Va bene se ci vediamo verso il…ehm… il 10 gennaio?»
Povero Sergei, lo so che non è colpa sua, ma al momento ce l’ho con tutti.
 
*
Prima della partenza, ho partecipato a un cocktail con il cast ma mi sono trattenuta il meno possibile.
 
Non sono in vena di feste… e dire che il Natale è il periodo dell’anno che amo di più.
Forse, semplicemente, tutti questi party mi hanno stancata.
Anche il dolce più buono, una volta che ne mangi troppo e per troppo tempo, perde il suo sapore inconfondibile.
Per me è un po’ così: l’allure glamour di queste feste e festicciole varie mi è venuto a noia.
O, magari, semplicemente in questo momento odio il mondo.
 
Mi sono comunque presentata, da brava soldatina: ben vestita, ben pettinata, ben truccata.
Mi sono portata Ashanti come scudo umano e lei non ha fatto una piega.
Ho sorriso e scambiato auguri con tutti.
Ben è venuto a cercarmi quando già puntavo bramosa la porta, meditando la fuga.
Si è avvicinato esitante e mi ha offerto un calice di champagne, che io ho rifiutato.
Mentre ci guardavamo, in silenzio, sono rimasta colpita dal fatto che Ben sembrasse a disagio.
Lui non sembra mai a disagio: è allegro, sicuro di sé, affascinante.
Avrà la coda di paglia, ne deduco.
 
«Allora…» si è schiarito la voce «Sei pronta a partire?»
Ho annuito.
«Sei felice di andare a casa?»
Altro cenno con il capo.
«Miki» ha sospirato, dopo un attimo «Pensi di non parlarmi più?»
«Al momento, veramente, non ho molto da dire» ho risposto «Tu, invece?»
Lui si è mordicchiato il labbro, nervoso.
«Non mi piace vederti così» ha detto, dopo un po’.
Io l’ho fulminato con lo sguardo.
«Così come, scusa?»
Lui ha fatto un gesto vago con la mano.
«È solo che…» ha iniziato, senza però poi finire la frase.
«Mi sembra che anche tu abbia qualche problema con le parole, al momento» l’ho informato, altezzosa «Ti auguro buon Natale»
Detto questo, ho voltato le spalle e me ne sono andata.
E questi sono stati i nostri auguri per le Feste.
 
No, anzi, non è andata esattamente così.
Ben mi ha anche mandato un anonimo SMS la notte della Vigilia.
Di bene in meglio.
 
*
 
E dire che, di solito, amo il Natale.
Adoro il Natale.
 
Invece, quest’anno, passo le Feste imbronciata, seccata e apatica.
Litigo con mia madre innumerevoli volte, per ogni sciocchezza: il centrotavola, il regalo allo zio lontano, le saponette per la vicina, le decorazioni dell’albero, la farcitura del pandoro.
So benissimo che ciò che la fa infuriare non sono queste cose, ma la mia attuale occupazione lavorativa.
La frase che le sento dire più spesso è: “Non sei più tu”.
Sarà.
A me sembra di essere sempre la stessa.
 
 
In realtà, anche mia zia Corinna, sorella di papà, afferma la stessa cosa.
Ma lo fa con un tono positivo e incoraggiante e che mi sorprende quanto mai.
«Ti trovo così bene, tesoro!» mi dice «Tua madre continua ad affannarsi e mi parla di perdizione e sventura, ma sei più bella che mai… E mi sembri anche più consapevole e matura, sai?»
«Non so, zia» giocherello con le frange del maglione mentre rifletto sulle sue parole «Forse, in parte, lo sono. Amavo l’idea di lavorare in una casa editrice… E la amo ancora. Lo vorrei tantissimo, ma vorrei che fosse un lavoro vero, degno di questo nome. Non voglio accontentarmi di una situazione irregolare e degradante perché al momento, per me, non c’è di meglio. Alla mamma Hollywood sembra un fuoco di paglia, e probabilmente ha ragione, ma lì almeno non mi fanno contratti da stagista per mansioni da professionista; mi pagano e mi trattano come una persona. O almeno… A volte mi sento un po’ un oggetto, ma per via di quello che rappresento, non per la posizione contrattuale inesistente»
Mia zia, che si occupa del controllo qualità di una grande azienda, annuisce comprensiva.
«La situazione in Italia, per voi giovani, è davvero nera. Ti dirò: io non ci vedo nulla di male, in quello che stai facendo. Non mi sembra che tu sia cambiata o – peggio – traviata, come teme tua madre. Prendila come una vacanza… E divertiti, finché puoi!»
Le sorrido.
«Me lo dice anche Luna, in continuazione»
«Ecco, vedi? Noi siamo felici per te, cara, davvero… Lo è anche quella testona di tua madre, in fondo in fondo. Ne sono certa. Luna come sta?»
«Benissimo. Passiamo Capodanno insieme»
Non vedo l’ora di scappare da qui, tra parentesi.
«Ah, che bello! Avere ancora l’età in cui il Capodanno è divertente… ah! Ma piuttosto dimmi… Non c’è qualche ragazzo carino, a Los Angeles?»
Mi strizza l’occhio, ma io mi irrigidisco all’istante.
«Assolutamente nessuno» rispondo, gelida.
 
*
 
A me il Capodanno non piace particolarmente, come festa.
 
Quando ero più piccola mi divertivo immensamente anche alla festa più insignificante: potevo fare davvero tardi, per una notte, e mi sentivo adulta e libera.
Ormai ha poco senso, in termini di feste, soprattutto dopo questi mesi a Los Angeles.
Ma il Capodanno ha ancora la componente per me vitale della fuga.
Io e Luna lo passiamo sempre insieme e anche quest’anno, come da tradizione, andiamo a sciare.
Per cinque giorni neve, piste ed esercizio fisico sono quello che riempie le mie giornate.
E mi va benissimo.
Finalmente inizio a sentirmi più serena: è l’effetto che la montagna ha su di me.
Più salgo in quota, più respiro aria gelida e mi concentro solo sulle curve e sul percorso, più mi rilasso.
È bello avere qualcosa in mente che non sia Ben, per un po’.
 
La sera del 31 trascorre tranquilla, in casa con degli amici.
Cuciniamo insieme, mangiamo seduti sui cuscini davanti al camino.
È una serata informale e io mi diverto, mi sento a casa.
Alle 23.15 mi arriva un messaggino di Ben.
Nei giorni dopo Natale mi ha scritto qualche SMS per chiedere come stavo e se mi stavo divertendo, senza dire nulla di più.
Ora mi scrive:
Auguri per un anno speciale… spero davvero che inizi con l’Oscar!
XXX
B
 
Con l’Oscar?
Io spero che inizi con lui ancora accanto a me.
 
Spengo il cellulare e torno a sedermi davanti al fuoco.
 
*
 
Le vacanze volano.
 
Parto per Los Angeles dall’aeroporto di Roma, infagottata nel piumino, carica di bagagli e con l’umore nero come il cielo di oggi, dopo l’ennesima litigata furibonda con mia madre a proposito di quello che lei pensa del mondo del cinema e del fatto che sto sprecando la mia vita.
Vorrei davvero capire quale ritiene che sia la mia alternativa, al momento.
Non è che ho rifiutato un contratto milionario in Italia, eh, mamma!
 
Sospiro e bevo un sorso del mio caffè.
Luna si volta a guardarmi:
«Sei pronta?» chiede.
Annuisco, ma leggo nei suoi occhi azzurri che vorrebbe chiedermi altro.
Se ho paura, magari.
Conosciamo entrambe la risposta, infatti Luna non aggiunge altro.
Dopo un po’, però, dice:
«Ci vediamo prestissimo a Los Angeles… Non c’è da essere tristi per questa partenza!»
La abbraccio di slancio.
Ogni volta che ci salutiamo mi sembra di perdere un pezzetto di me, anche se è assurdo.
Anche se so che la ritroverò sempre, non importa quanto lontane saremo e quante volte dovremo salutarci.
Luna però sarà con me a Los Angeles per gli Oscar: non potrei mai affrontarli senza di lei.
Mentre mi avvio ai controlli per l’imbarco la saluto agitando la mano e inizio a pensare che, con il nuovo anno, il traguardo dell’Oscar sembra sempre più vicino.
Luna, ormai lontana, sorride sbracciandosi e mi manda dei baci.
 
Buffo.
Non fa così paura, dopotutto.
 
*
 
Rientrare in America significa immergersi immediatamente nella consolidata routine delle apparizioni.
 
Il lavoro è più frenetico che mai.
Inizio a sospettare che Ashanti voglia punirmi per via delle mie vacanze prolungate, dato che mi ripete più e più volte che tutti, tutti, sono già rientrati da almeno una settimana.
«Io invece sono stata a sciare» la informo, gelida «Se non ti va bene, puoi sempre andartene»
Per un attimo, entrambe restiamo a fissarci in silenzio.
Io sono attonita.
Da dove mi è uscita, questa?
Poi lei china il capo.
«Scusami» dice, sbrigativa «Vuoi che ripassiamo il programma di oggi?»
Annuisco, ancora un po’ sotto shock.
Forse mia madre ha ragione.
Mi sto trasformando in qualcuno che non sono io.
Una strega, forse.
 
*
 
Incontro Ben dopo un paio di giorni, in un atelier.
 
Entrambi siamo qui per provare gli abiti che indosseremo agli Oscar.
Il mio è un sogno, devo ammetterlo.
Sono stata corteggiata da moltissimi stilisti e mi sono stati proposti outfit mozzafiato.
Scegliere è stato davvero difficile, anche perché Ashanti mi ha spiegato che la mia scelta sarebbe probabilmente coincisa con una collaborazione con il brand produttore.
Da far girare la testa: chi avrebbe mai immaginato, solo un anno fa, che mi sarebbe capitata una cosa del genere?
Che stilisti di fama mondiale mi avrebbero riempita di fiori, regali, inviti?
Che mi avrebbero pregata di indossare creazioni ideate appositamente per me?
Insomma, la mia esperienza con loro, fino ad oggi, si limitava a sguardi bramosi alle vetrine inarrivabili di via Condotti.
 
Comunque, la questione si è risolta da sola quando ho visto il bozzetto propostomi da Dior (Dior! DIOR!!).
Qualsiasi altro abito, al confronto, mi è parso pallido e insignificante.
E così, oggi, ho in programma la terza prova dell’abito, che finalmente ha preso forma sulla mia figura.
Avvolta in una seta pesante e luminosa, mi osservo allo specchio senza parole.
Mancano ancora le rifiniture e l’orlo definitivo, ma una volte prese le debite misure so che la prossima volta lo vedrò pronto.
Mi sembra incredibile.
Mi scatto una foto con il cellulare per mandarla a Luna e questo fa quasi venire un infarto alle sarte, che mi supplicano di non diffondere particolari sull’abito.
Ashanti interviene con un predicozzo memorabile sulla necessità di riservatezza e con un velato riferimento al contratto firmato, che ci impone una totale discrezione sul brand e sull’outfit: sarà Dior stesso a comunicare che mi vestirà per gli Oscar, il giorno stesso della premiazione.
Glielo dobbiamo, considerando quando costa questo abito.
Fidatevi: una cifra che non mi ha fatta dormire per una settimana, al pensiero che su questo vestito io devo sedermi*.
 
Mi defilo con discrezione prima che Ashanti riesca a farmi venire i sensi di colpa.
Gironzolo per l’atelier, sbirciando curiosa, tra gli abiti importanti che vedo sui manichini, quando mi imbatto in Ben che se ne va in giro con una giacca piena di spilli.
Lui mi guarda battendo le palpebre, in silenzio.
«Wow» dice, dopo qualche secondo che mi toglie il fiato «Sei… sei…»
«Piena di spilli?» butto lì, per smorzare la tensione.
Lui scuote il capo.
«Stupenda» mormora poi, a fior di labbra.
Sento una fitta al petto, a tradimento.
Per mascherare la confusione scrollo le spalle e ribatto:
«Probabilmente vedere i vestiti degli altri candidati porta sfortuna… Sai, come ai matrimoni»
Lui abbozza un sorriso, con gli occhi che ancora mi divorano.
«Vale la pena di giocarsi ogni possibilità, per vederti così»
Non so come rispondere e, imbarazzata, muovo un paio di passi all’indietro.
Vorrei dire qualcosa e, contemporaneamente, mi auguro che questo silenzio duri in eterno.
I suoi occhi sembrano promettere mille cose, sembrano darmi acceso ai suoi pensieri, ai suoi desideri…
 
E poi arriva Ashanti, che deve riportarmi alla prova.
 
È come una secchiata gelida in testa.
Anche Ben sembra accusare il colpo: riesce a salutarla con appena un cenno del capo, mentre lei mi prende per il braccio e mi trascina via.
Non riesco a resistere alla tentazione di voltarmi e guardare indietro: Ben è ancora lì, che mi fissa.
 
*
 
Non lo dico ad alta voce, ma questo incontro mi dà nuove speranze.
 
Oggettivamente, l’ultima cosa che dovrei fare è cedere a illusioni infantili.
Eppure, mi crogiolo nel ricordo dello sguardo di Ben, nella sua ammirazione.
So che l’attrazione tra noi è forte, come so che per me non è sufficiente.
Ma mi sembra di avere ancora una base, ancora una certezza che mi leghi a lui.
 
Resto in silenzio e vado avanti.
E, tra parentesi… avanti.
Andiamo avanti molto velocemente.
È come una corsa che, sul finale dello sprint, ti fa aumentare il ritmo.
Sempre più interviste.
Sempre più apparizioni.
Sempre più riunioni strategiche, prove, consigli e ammonimenti.
Fino al giorno in cui Ashanti cancella ogni impegno dalla mia agenda e si limita a dire:
«Riposati, domani è il grande giorno!»
 
Dovrei essere esaltata.
O spaventata.
O entrambe le cose.
 
Invece mi aggiro nella mia stanza d’hotel in preda allo smarrimento.
Sollevo e ripongo oggetti.
Mi alzo.
Mi siedo.
Prendo un libro e lo poso.
Accendo la tv.
Quando arriva il momento di andare a prendere all’aeroporto mia madre e Luna sono felice: almeno esco di qui.
Mi sembra di essere un animale in gabbia…
E dire che io detesto gli zoo.
 
 
Luna è tanto entusiasta quanto mia madre furiosa.
Nel tempo impiegato per uscire dall’aeroporto si è lamentata del volo, del cibo, della compagnia aerea, dell’aria secca, del clima innaturalmente caldo.
Ashanti la classifica immediatamente come elemento delicato e le si affianca con decisione.
Noto, con il passare delle ore, che fa in modo di non lasciarmi mai da sola con mia madre, probabilmente per non caricarmi di ulteriore tensione.
Non è che io sia proprio nervosa…
Sono abulica.
Mi sembra di osservare le azioni di qualcun altro dall’esterno, come se fossi al cinema.
Sono io questa ragazza seduta sul divano che ascolta la sua migliore amica chiacchierare allegramente?
Sono io che mostro i nuovi vestiti scintillanti appesi nell’armadio?
Io che, obbediente, rispondo, annuisco, commento temi senza importanza?
 
La cena è un’agonia, sembra procedere al rallentatore.
Chiedo a Luna di dormire con me, perché nelle ultime notti non ho chiuso occhio.
Lei accetta subito; mamma sembra aver ricevuto l’offesa del secolo.
Non le dico nulla: non ho forze per assorbire il suo malumore.
Luna, invece, sembra capire che non ho voglia di parlare.
Ci mettiamo i pigiami e ci infiliamo sotto le coperte.
Lei mi accarezza i capelli e mormora:
«Dormi: ci sono io»
 
Resto sveglia per ore a fissare lo schermo del cellulare: nemmeno un SMS da Ben.
 
*
 
La mattina dopo è la tempesta dopo la quiete.
 
Ashanti è fuori dalla mia porta a un orario disumano.
Mi trascina in un centro estetico come non ne avevo mai visti prima…
E dire che Hollywood mi ha abituata a vederne, di cose eccezionali.
Anche mamma e Luna sono con me, ma presto veniamo separate.
Io ho diritto a ogni tipo di trattamento e non interessa a nessuno sentire la mia opinione in merito.
Ceretta, massaggi, scrub, trattamenti… è una serie infinita.
A un certo punto smetto persino di chiedermi quando finiranno.
Il tempo mi sembra dilatato: so che stasera c’è il punto d’arrivo, ma sembra così lontano, così lontano…
La pausa pranzo arriva e passa senza che io abbia fame.
Una lezione di Ashanti sui tempi della serata, le cose da dire e quelle da non fare assolutamente dura un’infinità.
O solo pochi minuti, invece?
Il parrucchiere e la MUA arrivano seguiti da due squadre al completo.
Tutto questo per una persona sola?
Ma è inutile che io me lo chieda ancora: quando si tratta di Oscar, nulla è troppo.
 
Quando mi guardo nello specchio vedo un’acconciatura intricata ed elegante, con qualche ciocca che scende a incorniciare un viso truccato per un tempo infinito giusto per farlo sembrare naturale.
Poi il mio vestito viene cerimoniosamente portato nella stanza e Ashanti assieme a due sarte mi aiuta a indossarlo.
Calzo le scarpe – con tacchi vertiginosi – e allora, all’improvviso, diventa tutto vero.
Mi guardo allo specchio e ho paura di questa ragazza altissima, statuaria, che mi lancia nel riflesso uno sguardo implorante.
Quella… sarei io?
 
Sono senza parole.
Ashanti mi conduce fuori.
Due ragazze reggono lo strascico del mio abito mentre camminiamo in silenzio.
Quasi inciampo su un gradino e tre mani si precipitano a sostenermi.
Nell’atrio incrocio Luna e mia madre, entrambe vestite e truccate per l’occasione.
Mi guardano senza parole.
Io non riesco a dire nulla, ho il cervello completamente vuoto.
Ashanti ci fa passare da una porta laterale, molto discreta, per evitare che qualcuno veda il mio abito.
La limousine parte, efficiente, e si infila nel traffico.
Una mano calda stringe la mia.
Distolgo gli occhi dal finestrino oscurato per guardare Luna, che mi sorride incoraggiante.
Mamma mi sta ancora fissando a bocca aperta.
«Sei bellissima» mormora la mia amica e io annuisco, senza riuscire a risponderle.
Vorrei spiegarle che sì, effettivamente non mi sono mai vista bella come oggi, eppure non mi sento me stessa.
La voce non esce, per cui mi limito a stringerle la mano anch’io.
In un attimo – presto, troppo presto – siamo arrivate.
Ashanti mi dà istruzioni sul red carpet; non ci capisco una parola.
Annuisco obbediente.
Luna ora sembra più spaventata di me, all’idea di lasciarmi.
Ashanti, inflessibile come un generale con le sue truppe, le sta dicendo qualcosa sulla necessità di rispettare dei tempi serratissimi, quando mia madre si schiarisce bruscamente la voce e riesce a imporre un silenzio istantaneo.
La guardo e, per un folle attimo, penso che stia per trascinarmi fuori dall’auto per un braccio, strillando che queste cialtronerie americane la hanno stancata a morte.
Gliene sarei quasi grata, penso.
Invece, lei mi fissa in silenzio per qualche attimo e poi, improvvisamente, batte le palpebre un paio di volte.
«Sei… sei così bella» dice, all’improvviso.
 
Cala un silenzio attonito.
Nemmeno me la ricordo più, l’ultima volta in cui mia madre mi ha detto che sono bella.
«Sei…sono…» balbetta, poi si riprende «Sono così fiera della donna che sei diventata, Micol… Stavo pensando oggi che non te lo dico mai… Ma io lo penso. Sempre»
Scoppio a piangere.
Ashanti geme, mentre io mi catapulto in avanti, dritta tra le braccia di mia madre.
Ci stringiamo, mentre io singhiozzo e lei mi accarezza le spalle, rigida.
«Mamma, cosa sto facendo?» le chiedo, tirando su con il naso.
«Questo, tesoro, speravo lo sapessi» dice, con un’ombra della solita severità nella voce «Ma, francamente… solo tu potevi riuscire in un’impresa tanto folle… e sei così giovane! Voglio dire, non è certo la strada che avevo sperato tu intraprendessi, ma… Al diavolo, potrai anche divertirti un po’! Non devi essere come me, sai»
Mi prende per le spalle, per guardarmi negli occhi.
Mia madre, che mi rimprovera di non essere come lei da quando avevo dodici anni.
«Ma…» balbetto.
«Niente ma!» mi interrompe «Tu sei tu, e questo lo so bene. Ne sono orgogliosa. E anche se non ti dico mai che sono fiera di te, io… Io lo sono. Davvero»
Mi asciuga le lacrime con dita gentili e poi schiocca la lingua.
«Ho fatto un pasticcio, Ashanti» dice, ridiventando subito la donna inflessibile di sempre «Hai per caso la truccatrice a portata di mano?»
Ashanti sta già parlando al cellulare.
Con una mano stretta a quella di mia madre guardo Luna, che ha le lacrime agli occhi ma mi sorride.
A fatica, vista la gonna ingombrante che indossa, viene a sedersi accanto a me e mi prende l’altra mano.
Attendiamo in silenzio fino a quando una portiera si apre e una ragazza si infila veloce nella limousine e tira subito fuori un astuccio del trucco.
Mentre mi sistema il viso, Ashanti mi guarda preoccupata.
Le sorrido.
«Ce la faccio, non preoccuparti» le dico «Non farò disastri lì fuori»
«Certo che non li farai!» esclama mia madre, secca, come se l’idea che sua figlia potesse essere meno che perfetta la offendesse a morte.
Quando la ragazza ripone i pennelli, mamma e Luna mi salutano e sgusciano fuori dalla portiera sinistra, dopo la truccatrice.
Mamma mi bacia velocemente la fronte, Luna mi abbraccia.
E resto sola.
Ashanti mi fa un cenno e poi apre la portiera di destra.
Vedo flash accecanti e pressanti come mitragliatrici bombardare l’auto.
Cerco di nascondere un tremito mentre mi avvicino alla portiera, pronta a scendere.
 
 
 
* 4 milioni di dollari è la cifra dell’abito fiore indossato da Jennifer Lawrence agli Oscar 2013. Sì, è quello del capitombolo. 4 milioni, Jen!
Eccolo qui (indossato da una modella che è decisamente più brutta di JLaw):

Dior


***
Non riuscivo a decidermi a smettere di scrivere.
Poteva diventare un capitolo infinito... Ma, alla fine, questo mi sembrava il momento migliore per interrompermi.
Cercherò di non lasciarvi aspettare troppo per scoprire cosa succede ora.
Siccome mi pare inutile scusarmi dei miei ormai consueti ritardi, lasciatemi ricordare Umberto Eco, che ci ha lasciati una settimana fa, il suo lavoro, la sua sete di conoscenza.
Ho lavorato con lui e lo ammiravo sconfinatamente per la passione che lo animava e per essere la dimostrazione vivente di quella che la cultura umanistica produce: l'amore per le lettere, il mondo, la vita.
Ciao Umberto, ti siano lievi le stelle.

   
 
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