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Autore: Elphie94    27/02/2016    2 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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x.

l'uomo nella pioggia




Trascorsero ben due settimane – quindici giorni di perpetua ansia e domande senza risposta da parte mia e, sicuramente, anche da quella del visconte di Chagny – prima che Christine si facesse di nuovo viva dalla tomba in cui era stata rinchiusa. Poiché io ero certa che vi fosse stata condotta contro la sua volontà, checché il fantasma – ossia Erik – ne dicesse. Un altro giorno e sarei andata di corsa dalla polizia, ma accadde qualcosa che me lo impedì.

Un paio di giorni prima del ritorno di Christine, ricevetti una nuova lettera da parte sua, che ora vi mostro. Le ho conservate tutte, una per una – eccolo qui, il mio reliquario di memorie perdute.

Sono per me come le ossa dei santi, perché sono tutto ciò che mi rimane di persone che non ho più al mio fianco.

La lettera diceva:


Cara Meg,

sono lieta che tu abbia seguito il mio consiglio. Qui va tutto bene. Tornerò fra qualche giorno. Puoi andare a trovare Mamma Valerius per conto mio, e rassicurarla che sto bene e che tornerò presto da lei? Ti chiedo quest'ultimo favore, Meg. Al mio ritorno ti spiegherò tutto.


Con affetto,

Christine


Sì, ci sarebbero state molte cose da spiegare. I segreti tra noi due avrebbero dovuto essere definitivamente infranti, ed era per il meglio.

Quella mattina a lezione fui particolarmente distratta, con la mente rivolta al racconto di mia madre e al destino, ancora ignoto, di Christine. Persino mia madre era tanto assorta che non mi rivolse che un paio di moniti poco convinti.

«Meg, stai bene?» mi chiese Juliette, sempre la più vigile delle mie tre amiche.

«Sì, ti ringrazio. Solo un lieve mal di testa.»

«Dovresti mangiare di più. Sei così magra» puntualizzò Louise, osservandomi con disappunto.

«Sì, grazie anche a te per il consiglio. Ma adesso devo andare.»

«E dove? Non te ne andrai ancora a spasso con Luc, non è vero?» fece Fabienne, contrariata. Non aveva mai approvato Luc, lo trovava troppo “poco serio” per i suoi gusti. Peccato che a me fosse sempre piaciuto proprio per questo.

«Non so quante volte dovrò ripeterlo: Luc ed io siamo solo amici» risposi, esasperata.

«Ma il modo in cui ti guarda…» insistette Louise, maliziosa.

«Vi state inventando tutto» rimbeccai io, solo vagamente turbata. Davvero non volevo pensare che Luc potesse provare ancora qualcosa di vero nei miei confronti: ormai ci avevo messo una pietra sopra. Lui aveva mostrato di preferire ben altre sottane alle mie, e io lo avevo accettato senza piangerci troppo sopra, consapevole dei miei limiti – dei lividi sotto la pelle che non potevo condividere neanche con lui.

«Dove devi andare, comunque?» chiese Juliette, mettendo fine una volta per tutte a quelle sciocchezze, con grande gioia della sottoscritta.

«Da Mamma Valerius. Ho un biglietto di Christine, mi ha chiesto di andare a vedere come sta.»

«Christine sta bene?» chiese Fabienne, apprensiva.

Annuii, ponendomi la stessa domanda. «Meglio. Tornerà fra qualche giorno, o così mi ha scritto.» O sarebbe stato meglio dire: così speravo.

Le mie amiche si scambiarono sguardi di sollievo. Erano brave ragazze, in fondo.



Infagottata nella mia mantella grigia, attraversai Rue du 4 Septembre pestando i piedi a terra nel tentativo vano di riscaldarli contro il freddo pungente. La casa di mamma Valerius e Christine era poco lontana dall'Opera, quindi anche questa volta non sprecai denaro che avrei potuto spendere altrimenti per una fiacre che potevo benissimo sostituire con una lunga, robusta camminata invernale. Dal piacevole bagno nel lago, la mia tosse – residuo di un brutto raffreddore di qualche settimana prima – si era fatta più secca, e il punto a metà tra le scapole aveva cominciato a dolermi; un dolore sordo che non sapevo nominare. Con tutte le mie apprensioni, evitai di preoccupare ulteriormente mia madre con quelle che pensavo fossero sciocchezze. Anche perché, malgrado tutto, mi sentivo fisicamente bene. Il mio male risiedeva altrove.

Col senno di poi, fui avventata. Mi chiedo quante tragedie avremmo potuto evitare se solo mi fossi presa maggiormente cura di me stessa, se solo fossi stata più accorta. Ma allora non potevo neanche immaginarlo.

Fu la domestica ad accogliermi in casa Valerius, chiedendomi di attendere perché mi annunciasse alla padrona. Feci quanto mi era stato chiesto, sperando di sbrigare presto quella faccenda: nell'aria già sentivo odore di pioggia, e infradiciarmi per l'ennesima volta non era tra le mie massime priorità. Fui ricevuta in un salottino sommariamente ammobiliato, alle cui pareti si fronteggiavano i ritratti del professor Valerius e di Papà Daaé. Osservai quest'ultimo quadro con attenzione quasi scrupolosa. Avevo sempre creduto che Christine assomigliasse più alla madre nei lineamenti, ma gli occhi azzurri erano inconfondibilmente quelli del padre: la stessa limpidezza, la stessa vena di malinconia. L'impronta dei Daaé era innegabile in quel dipinto come nel viso di Christine. A questa riflessione, mi si strinse lo stomaco all'idea che forse non avrei mai più rivisto il volto della mia amica. No, mi dissi con ostinazione, no, non cedere alla paranoia. Andrai in fondo a questa storia, riuscirai ad aiutarla. Non combinare altri disastri e sii prudente.

Ero sempre stata molto brava nel darmi buoni consigli, e pessima nel seguirli.

Non dovetti attendere a lungo. Fui ricevuta come qualche settimana prima nella camera della signora, troppo malata per alzarsi e ricevermi nel salottino.

«Meg, cara. Vieni qui, fatti guardare bene.»

Avanzai e presi la mano che l'anziana donna mi tendeva. I suoi capelli erano ormai tutti bianchi, ma il suo sguardo non era mai stato più cristallino e fanciullesco.

«Sei venuta qui per Christine, non è vero? Ma dovresti saperlo, ormai.»

«Che cosa?» chiesi, già indovinando la risposta.

«Dove si trova.»

«Sì, lo immagino. Ma sono venuta qui per averne conferma. Ero molto preoccupata per lei.»

«Non devi. Christine mi ha scritto una lettera, ma io non ho potuto leggerla con questi miei vecchi occhi. Marie l'ha letta per me.» Lanciò uno sguardo affezionato alla cameriera, che si dileguò oltre la soglia. Non potevo biasimarla: probabilmente credeva di vivere in una casa di pazzi.

«Christine mi ha scritto che è con lui

«Lui chi?»

«Ma il suo buon genio, naturalmente.»

Cacciai un sospiro che qualcuno con una percezione migliore di Mamma Valerius avrebbe potuto scambiare per esasperazione e frustrazione insieme.

«Ma certo, chi altri.»

La buona e ingenua donna, che in quel momento avrei tanto voluto strangolare con le mie mani per essere così credulona, sorrise con letizia tutta naturale.

«Christine ha scritto anche a me, prima di… partire con il suo buon genio. Voleva che mi accertassi che steste bene, Madame.»

Lei rise con tutta la fanciullesca ilarità di questo mondo. La demenza senile ha le sue gioie. «Oh, quella ragazza si preoccupa troppo per questa vecchia mamma che tanto le vuole bene.»

«Dice che tornerà presto.»

«Oh, spero che sia felice lassù» fece Mamma Valerius, come se non mi avesse proprio sentita.

«Lassù dove?» chiesi in un lampo di paura. Che intendesse dire…?

«Ma in cielo, naturalmente. Col suo angelo.»

Per la mente mi attraversò il pensiero macabro che, se mai Christine fosse morta, sarebbe stato semplice riferirlo a Mamma Valerius usando queste parole: “Christine è partita per sempre col suo Angelo della Musica e non tornerà più.” E chissà, malgrado la separazione, Mamma Valerius avrebbe trovato anche il tempo di sentirsi felice per lei.

Se non avessi visto Christine qualche giorno prima su quel coupé, e se non avessi ricevuto la sua lettera quella stessa mattina, avrei davvero pensato che fosse morta. Per fortuna, potevo scartare questa ipotesi, anche se non potevo sapere se avesse o meno dovuto affrontare un fato peggiore della morte, dal momento che non mi fidavo del fantasma.

«Mi ha scritto che tornerà presto, comunque. Voleva che lo sapeste.»

Christine non poteva dire nulla contro di me, adesso. Ero stata fin troppo paziente. Avevo fatto ciò che mi aveva chiesto: parlare a Mamma Valerius e rassicurarla sulle condizioni della figlioccia. Le avrei detto in seguito che non ce n'era stato bisogno.

«Oh, ne sono felice. Ma mi raccomando, bisogna che non dici una sola parola di tutto questo a nessuno, neanche alla tua brava madre… è un segreto.» Mamma Valerius si portò un dito alle labbra con fare cospiratorio, come a suggellare il patto tra noi tutti e l'Angelo.

Annuii, trattenendomi a stento dal prendere a testate il muro per la frustrazione – o colpire qualcosa, magari proprio Mamma Valerius. Non credevo si potesse essere tanto ingenui. Una fede così perfetta in una favola simile mi lasciava senza parole.

Avendo compiuto la mia missione per conto di Christine, decisi di tornare a casa prima che cominciasse a piovere, ma non fui così fortunata: la strada del ritorno fu un bagno di fango e acqua piovana. Non si vedeva in giro un'anima viva, se non sporadiche carrozze trainate da cavalli infreddoliti e qualche coraggioso sotto l'ombrello. Io mi strinsi nella mantella, imprecando a bassa voce ogni volta che finivo in una pozzanghera, ossia più spesso di quanto mi sarebbe piaciuto. Ero in trappola sotto la pioggia che cadeva fitta, un drappo di mille e mille punte di spillo.

Alzai gli occhi al cielo, lasciando che le gocce gelide mi scivolassero sul viso come rivoli di ruscelli nati da un'unica sorgente. Quel tocco freddo mi schiarì le idee: potevo rimanere sotto la pioggia, correre all'impazzata, o fermarmi in qualche negozio fin quando il temporale non fosse cessato. Optai per quest'ultima alternativa.

Tuttavia, prima che potessi scegliere in quale bottega intrufolarmi, una fiacre si fermò dinanzi a me, le porte aperte per la sottoscritta. Rimasi impalata di fronte a quella visione che sembrava essere caduta dal cielo – non mi ero accorta che i cavalli avevano arrestato il passo dinanzi a me se non quando mi ci ero ritrovata quasi addosso.

«Sali» disse una voce orrendamente familiare dall'abitacolo. Rabbrividii.

Non ci penso proprio, pensai in un rifiuto quasi involontario tanto fu spontaneo. Preferisco restare a bagnarmi qui fuori.

«Non vorrai prenderti una polmonite, spero» disse la voce bella e odiata, come se mi avesse letto nel pensiero.

«Lo preferirei» mormorai, e sperai con tutto il cuore che malgrado la voce bassa e il sottofondo della pioggia in tumulto lui mi avesse udita ugualmente. Le mie preghiere furono esaudite, perché sentii un lieve sbuffo provenire dall'interno della carrozza.

«Non fare tante storie, Meg Giry. Questo regalo è da parte di Christine, non mia. Pertanto, puoi considerarlo sicuro.»

Ponderai le sue parole, ma davvero non c'era più tempo: la pioggia di febbraio mi stava gelando fin nel midollo. Anche le mie ossa sembravano essersi trasfigurate in pezzi di ghiaccio.

Un brivido di pericolo mi attraversò quando posai lo stivale infangato di melma e acqua piovana sul piedistallo, ma lo ignorai. Mi fu tuttavia impossibile trattenerlo quando di riflesso, per evitare di scivolare, afferrai la mano guantata che lui – il fantasma, l'uomo, Erik – mi tendeva dall'interno dell'abitacolo. Mi riparai nella carrozza, portandomi dietro uno scroscio di acqua e un tappeto di fango come un bizzarro corteo. Il mio compagno fece appena una smorfia quando mi sedetti, fradicia dalla testa ai piedi, e mi scrollai la mantella bagnata dalle spalle.

Il fantasma si sfilò i guanti e picchiò con la punta dell'ombrello sul tettuccio della carrozza, così che il cocchiere sapesse che poteva partire. La fiacre cominciò a traballare sotto il mio corpo zuppo d'acqua.

«É la seconda volta di fila che ti vedo bagnata fradicia, Meg Giry.» Il fantasma – Erik, come dovevo sforzarmi di chiamarlo adesso – mi lanciò uno sguardo obliquo con i suoi occhi come fari gialli.

«Non per colpa mia.»

«Avresti potuto portare un ombrello.»

«Non pensavo avrebbe piovuto.»

«Poco previdente, come sempre.» Emise un lieve sospiro.

Lo fissai, improvvisamente sulla difensiva. Mi strinsi negli abiti e dissi in tono duro, d'accusa: «Per caso mi stavi seguendo?»

«Io…»

«Perché se è così, giuro che…» continuai, senza riprendere fiato.

«No, non ti stavo seguendo. Non avrei alcun interesse a farlo.» Mi bloccò, riservandomi un'occhiata derisoria, come se mi stesse sfidando a interromperlo di nuovo.

«Con me non hai alcun interesse a farlo, certo. Con altri, invece…»

Lui capì subito a chi mi riferivo, e pertanto non ribatté. Invece aggiunse: «Christine ti ha avvistata mentre uscivi dall'Opera e noi rientravamo. Dal momento che le avevo detto che avrebbe piovuto e tu eri senza ombrello, mi ha chiesto di darti un passaggio, anche se non credeva avresti accettato. Mi ha detto che avresti preferito infradiciarti nella pioggia piuttosto che salire in carrozza con me. Si sbagliava?»

«Faceva troppo freddo.»

«Certo.»

«Bene, l'idea di questa piacevole passeggiata non è stata tua.»

«Sapevo che altrimenti non avresti mai accettato un passaggio.»

«Se fossi stato tu a offrirmene uno, certo che no. Avrei pensato a una trappola.»

Questa volta scoppiò a ridere. Una risata ancora più irritante del normale, poiché innegabilmente incantevole – tutto ciò che riguardava la sua voce era incantevole.

«Quanta paranoia in te, Meg Giry.»

«Ho tutte le giustificazioni di questo mondo per pensare male di te. Quella camera strana con gli specchi, il rapimento di Christine…»

«Christine è venuta di sua spontanea volontà.»

«E ti aspetti che ci creda? E che mi dici del lampadario?»

«Era proprio vecchio, quel lampadario. Colpa dei tecnici, avrebbero dovuto assicurarsi che i supporti non fossero arrugginiti.»

«Ah!» sbuffai e affondai nella poltrona, infradiciandola un altro po'. Il bello è che, se fossi andata a controllare i contrappesi del lampadario, ero sicura che sarebbero stati arrugginiti come aveva detto lui.

«E quello scherzetto nel lago? Bella trappola, non c'è che dire.»

«Pensavo fossi un intruso.»

«Anneghi tutti quelli che vengono dalle tue parti?»

«Non posso permettere che qualcuno scopra la mia casa. Lo capisci?» Questa volta il suo tono di voce era terribile – una rabbia fredda lo pervadeva. «Non lascerò che…» Qui si fermò, ma io compresi. Se lo avessero scoperto, non solo sarebbe finito dietro le sbarre, ma probabilmente trattato come un fenomeno da baraccone. Di nuovo. Per questo, a un certo punto della sua vita aveva deciso di nascondersi allo sguardo degli uomini: ne aveva paura, e forse li odiava.

«Comprendo» dissi, in tono mio malgrado più accondiscendente. «Comprendo il perché della tua insana paranoia al riguardo. La camera degli specchi, la trappola nel lago… Sono tutti mezzi che ti servono perché nessuno riesca ad arrivare a te, o sbaglio?»

Lui non rispose, lo sguardo fisso oltre il finestrino.

«Ti chiami Erik, giusto?»

«Te l'ha detto tua madre?»

«Non si risponde a una domanda con un'altra domanda.»

Lui sospirò. «Sei piccola ma snervante, Meg Giry. Ebbene, sì. Il mio nome è Erik. Così mi chiamavano, un tempo.»

«Quindi non è il tuo vero nome.»

«Ho detto che così mi chiamavano. Ti basti sapere questo.»

Non indagai oltre. Mi limitai solo ad aggiungere: «Non mi sembri tanto un “Erik”.»

Lui sbuffò, ma non disse nulla.

Erik era un nome inequivocabilmente straniero. Non si pronunciava con l'accento, come l'Éric francese. Ma lui parlava perfettamente la mia lingua madre.

«Christine conosce la verità?»

«Quale verità?»

«Lo sai.» Davvero non volevo dire le parole: sulla tua deformità. Sarebbe stato come renderlo reale. Lo osservai con attenzione: la sciarpa che indossava fino al principio del naso gli nascondeva la maschera, ma l'orlo del cappello niente poteva contro il lume acceso di quegli occhi di brace.

Anche così, aveva un aspetto inquietante.

«Sei molto ficcanaso, Meg Giry.»

«Io mi definisco ragionevolmente curiosa.»

«Diciamo pure ficcanaso.»

C'era un misto di tensione e – possibile? – divertimento nella sua voce; come se la mia tendenza a “ficcanasare” – sue parole – fosse irritante e insieme dilettevole. Mi guardò come se fossi un esperimento, quasi non avesse mai visto in vita sua una sarcastica, sfrontata, curiosa ballerina di fila dai capelli e la pelle scura.

«Questi non sono affari che ti riguardano, Meg Giry.»

«Quindi non hai intenzione di rispondermi?»

«No, infatti. Spiacente di deluderti.»

Mi morsi il labbro. La storia che mia madre mi aveva raccontato mi costringeva a guardarlo sotto un'altra luce: così terribile e intimidatorio, le labbra invisibili da cui sgorgavano minacce, mi era apparso più simile a un demonio che a un uomo. Ma ora sapevo che aveva sofferto, che era stato bambino, che il suo destino era miserabile. Aveva sicuramente commesso delle atrocità, e non lo giustificavo. Tuttavia, sentivo che era umano. E ciò mi turbava in modo indicibile.

In più, ora non mi sentivo più in pericolo in sua presenza come un tempo. Non temevo per la mia vita, almeno in parte.

«Mia madre mi ha detto che ti ha conosciuto molti anni fa.»

«É così.»

Rimanemmo in silenzio per qualche attimo. Cercai di immaginare ciò che nascondeva la maschera, l'orrore che celava: non riuscii a figurarmelo, malgrado la descrizione di mia madre e Buquet. Era troppo favolistico perché potessi farlo. Di una cosa ero certa: non avevo paura del suo volto, anche perché non l'avevo mai veduto. Avevo paura delle azioni che avrebbe potuto compiere.

«Perché lavoravi in quel posto? Non eri troppo giovane per una cosa del genere?»

I suoi occhi di falco si serrarono in fessure oblique. Inclinò il capo, come per osservarmi meglio. «Sei davvero più ficcanaso di quanto immaginassi, Meg Giry.»

Attesi con ansia la sua risposta. Più che ficcanaso, stavo imparando a diventare paziente.

«Non devi mai chiedere cosa giace sotto questa maschera, la maschera di Erik. Mai più.»

Perché adesso si riferiva a se stesso in terza persona? Forse per distanziarsene?

«Cosa mai ti hanno fatto perché tu ti comporti in questo modo?» non potei fare a meno di chiedere. I suoi occhi mandarono lampi.

«Davvero non sono affari tuoi.»

«Un giorno scoprirò la verità su tutto questo. Sul perché delle tue azioni, su ciò che è accaduto tra te e Christine. E tu non potrai impedirlo.»

Lui tamburellò le lunghe dita ossute sul sedile accanto al proprio.

«Posso perlomeno chiederti se Christine ritornerà presto?»

«Ti ha scritto, mi pare.»

«Sì, ma non basta. È la tua parola contro la sua. Voglio sapere la verità. Sono stanca di questi sotterfugi… Perché nessuno dice mai le cose come stanno – chiaramente, senza sottintesi? Lo preferisco.»

«Perché nessuno si preoccupa di quel che preferisci tu, Meg Giry.»

«Oh, questo l'avevo notato» ribattei con sarcasmo. «Ma ho diritto di sapere una cosa: mia madre ha stretto quel patto con te, ricordi? Beh, non posso credere che l'abbia fatto.»

«Eppure è così. Le ho detto che diventerai imperatrice, ed è quel che accadrà.»

«Non voglio nulla da te! Niente facilitazioni, niente raccomandazioni… Solo il frutto del mio lavoro.»

«Allora aspetta e spera, Meg Giry. Saresti diventata corifea con un paio d'anni di ritardo se non avessi messo certe paroline nell'orecchio giusto. È così che va il mondo dello spettacolo, Madamoiselle. I direttori se ne occupano come fosse un ufficio qualunque, non arte.»

«So molto bene come vanno le cose in questo mondo.»

«Sai anche che è quel che è bastato alla Sorelli? Perché credi che tua madre ti faccia esercitare più delle tue piccole compagne? Credi che le piaccia soltanto essere dura con te, o è perché da te pretende qualcosa di concreto?»

«Vuole che riesca nella vita come non è mai riuscito mio padre. Come le è stato impedito dopo quell'incidente.» A ventisette anni mia madre aveva perso la possibilità di ballare dopo un disastroso incidente in carrozza. Per fortuna, aveva conservato l'uso delle gambe. Era stato proprio in quell'anno che si era decisa a sposare mio padre. Erano fidanzati da anni, ma avevano ritardato sempre il matrimonio per timore che la carriera di mia madre terminasse inevitabilmente.

«Esatto. Vedo che comprendi. Invece di perdere tempo intrufolandoti in passaggi segreti…»

«Si tratta di Christine. È amica mia. Ho tutto il diritto di sapere se è in pericolo o meno.»

«Christine non è mai stata in pericolo.»

«Tu stesso dicesti a mia madre, un tempo, che eri pericoloso.»

«Le dissi che avrebbe fatto meglio a starmi lontana: era diverso. Io ero diverso.»

«É proprio questo che preoccupa entrambe. Che tu non sia più il bambino di un tempo.»

Lui mi riservò un'occhiata fulminante. «No, non lo sono – non più. Sono trascorsi troppi anni, troppi accadimenti… La mia mente ha raggiunto orizzonti inimmaginabili. Cose che tu non potresti mai capire, Meg Giry.»

«Tu dici? Mettimi alla prova.»

Egli sospirò. «Non mettere alla prova me, ballerina. Non ti conviene giocare con il fuoco.»

«Allora spiegami perché mi hai aiutata, questa sera.»

Stavolta mi rivolse uno sguardo che aveva in sé un qualche barlume di interesse.

«É chiaro che mi disprezzi. Hai solo accomodato la richiesta di Christine… o c'è qualcos'altro?»

«Cosa intendi dire?»

«Che mia madre si fida di te. In fondo, molto in fondo. Non lo ammette a chiari linee, ma è così. Pensa che tu non mi faresti del male, anche se le ho detto che mi hai minacciata al riguardo. Perché?»

«Perché le ho promesso che avrei vegliato su di te.»

«Prego

Rimasi sconvolta. Cosa intendeva dire? Che oltre ad essere l'Angelo della Musica di Christine, era anche il mio angelo guardiano?

«Hai capito bene.»

«E perché le avresti promesso una cosa del genere?»

«Per avere la sua collaborazione, è ovvio.»

«Quindi hai mentito.»

Mi sentii improvvisamente in pericolo.

«Non irrigidirti tanto, Meg Giry. Non corri rischi, se non ti impicci. Tu fai parte dell'Opera Garnier, e tutto ciò che è dell'Opera appartiene anche a me.»

«Perché senti tanti diritti su questo teatro? Non l'avrai costruito tu? Oppure sì?»

Lui mi lanciò uno sguardo diffidente. «Un giorno la tua lingua sarà la tua rovina, Meg Giry. Ricordati le mie parole.»

Tamburellò ancora le dita sul pomello dell'ombrello. Le osservai con attenzione: erano bianche come osso. Immaginai che il suo volto dovesse avere una uguale sfumatura cadaverica.

«Ecco, siamo arrivati.»

Annuii, dando una sbirciata fuori dal finestrino. Non aveva smesso di piovere, e place de l'Opéra assomigliava a uno stagno del Luxembourg. Una fievole luce lunare faceva brillare le gocce come frammenti di diamante grezzo.

Il fantasma – Erik – mi tese l'ombrello, che presi senza indugio. Notai che teneva più lontano possibile la mano da quella della sottoscritta, per evitare di sfiorarla anche solo per caso. Il contatto umano gli piaceva meno che a me.

«Grazie… per il passaggio» dissi, incerta e controvoglia.

«Ringrazia Christine, non me.»

«Vorrei averne l'occasione.»

«L'avrai. Non temere.»

Scesi dalla carrozza senza aggiungere altro. Mi lanciai un'occhiata alle spalle, e vidi la fiacre voltare per Rue Scribe e dirigersi alla mia sinistra, per poi sparire dietro l'angolo. Mi chiesi dove si sarebbe fermata, dove lui sarebbe sceso, da quale buco infernale si passava per raggiungere la sua casa sotterranea. Erano tutte domande che sarebbero rimaste senza risposta. Mi aveva assicurato che presto Christine sarebbe tornata in superficie, ma non gli credevo. Non più, ormai; non su questo argomento.

Superai i gradini dell'Opera, mentre i miei stivali pestavano il terreno con uno splash sordo e spiacevole. Una volta all'interno, rimasi ad osservare il grande ingresso che mi avvolgeva nel suo abbraccio dorato. Lasciai dietro di me orme bagnate, e sperai che gli addetti alla pulizia non ne avessero troppo a male.

Decisi di non raccontare a mia madre di questo incontro fortuito; le avrebbe solamente provocato ulteriore apprensione, per di più inutile, e non era il caso. Riflettei su ciò che il fantasma – Erik – mi aveva detto: che appartenevo a questo teatro, e pertanto a lui. Se vegliava sull'Opera come su di me, allora avevo un bel po' di lamentele da fargli, pensai con sarcasmo.

Mi precipitai nella mia camera, ignorando gli sguardi curiosi di chi si era attardato nel teatro più del solito. Sperai di non incontrare Luc in quello stato miserabile. Mi osservai nella grande psiche che fronteggiava la porta della mia stanza: la pioggia aveva tracciato lingue d'argento sulla mia pelle scura, sul groviglio che erano i miei capelli, legati in una semplice crocchia, sui miei abiti zuppi.

Anch'io ero come acqua, sempre a intrufolarmi nelle storie degli altri come pioggia tra le crepe di un muro – le feritoie della notte – e ne raccoglievo i detriti.

Sospirai e mi cambiai, asciugandomi con scrupolosità e spazzolandomi i capelli neri e crespi, più annodati del solito. Ero l'esatto contrario di Christine, con la sua pelle di porcellana, i suoi riccioli biondi e i profondi laghi azzurri degli occhi. La mia carnagione era di un bell'ambra scuro, ma per il resto ero insignificante. E ne ero ben consapevole.

Non c'era nessuna favola in cui un bel principe sarebbe caduto dal cielo per dirmi che ero bella, chiedendo la mia mano: non credevo a storielle del genere. Dovevo guadagnarmi quel che volevo con le mie sole forze.

Ripensai al fantasma, mio “angelo guardiano”. Se era così, non aveva fatto proprio un bel lavoro in quegli anni. Dalla morte di mio padre, mi era sembrato di annegare sempre di più in un incubo senza fine da cui solo la danza, poco a poco, mi aveva riportato in superficie. In quei momenti, nessuno aveva combattuto le mie battaglie al mio posto; c'eravamo solo io e i miei demoni. Avevo squarciato la gola ad ognuno di loro, ma non li avevo mai vinti del tutto: erano sempre lì in agguato, lo sarebbero sempre stati. La mia vita poteva mutare in inferno con spaventosa facilità – un viale di sogni spezzati. No, non potevo permetterlo.

Strinsi i denti e intrecciai i miei capelli selvaggi. Avrei voluto afferrare un paio di forbici e tagliarli più corti in un accesso di follia, ma non feci nulla del genere. Sarebbe stato impensabile, persino per me, che eppure facevo spesso di quelle uscite.

Ripensai ad Erik, ai suoi sottili capelli neri – inutile, non riuscivo a togliermelo dalla testa. E chi avrebbe potuto, al mio posto? Il suo mistero mi lasciava inerme.

Da dove veniva? Chi era in realtà? Che vita aveva mai vissuto? Quale orrore celava oltre la maschera? Qual era il vero motivo delle sue azioni? Tutti questi quesiti gremivano la mia mente come una folla in un teatro troppo piccolo e angusto.

Mia madre lo aveva conosciuto. Egli, in cambio della sua collaborazione e, immaginavo, del suo silenzio, le aveva detto che avrebbe vegliato su di me e la mia carriera in un modo più distante e indiretto ma non troppo dissimile dall'Angelo della Musica di Christine. Solo che io non mi ero mai accorta di avere questa “sentinella” alle calcagna, e il pensiero mi dava i brividi. Mia madre si era lasciata convincere non solo dalla grande preoccupazione nei miei confronti, ma dal ricordo che aveva di un giovanissimo Erik, allora degno di… compassione – ancora esitavo nel pensare a questa parola così pregna di significati in riferimento a lui. E ancora stentavo a dargli un nome, a non pensare a lui come a un'entità malefica ma come a un uomo. Un uomo che forse non mi avrebbe fatto del male, e che tuttavia ne era ancora capace, se solo avesse voluto. Che razza di persona era? Capirete, Monsieur Leroux, come una giovane donna può ritrovarsi di fronte a un tale enigma: confusa, incuriosita e diffidente insieme. E io ero tutte e tre queste cose.

Mi stesi sul letto, tossendo. Avrei dovuto fare qualcosa a proposito, quindi decisi di spalmarmi un'altra po' di quella lozione alle erbe sul petto, ignorando l'insistente dolore tra le scapole. Ripassai nella mente la coreografia di Giselle, almeno i passi che mi riguardavano, in quanto non avevo rinunciato all'audizione per il ruolo di Regina delle Villi. Ormai era assodato che avrei tenuto il provino, quindi dovevo parlarne il più presto possibile con mia madre, che mi avrebbe preparato per l'importante occasione. In realtà, avrebbe potuto darmi solo qualche indicazione: essendo una dei giudici, il resto del lavoro spettava solo e soltanto a me, ed ero ansiosa di mettermi alla prova.

Pensai ai miei piccoli successi negli anni precedenti, e mi salì la rabbia in gola al pensiero che forse non erano meritati. Che era stato il fantasma – Erik – a procurarli per me, e non il mio talento. Avrei dovuto dirgli due paroline al riguardo, ma il pensiero di incontrarlo ancora mi agitava. Non per paura – non sapevo spiegarmelo. Se da una parte speravo di non vederlo più, dall'altra sapevo che i nostri passi erano destinati a incrociarsi ancora, specialmente quando Christine fosse tornata – pensai quando e non se, perché non potevo sopportare il pensiero che Christine fosse – no, non Christine, non la mia dolce amica dai riccioli, la voce e il cuore d'oro.



Era notte tarda quando udii un rumore nel camerino di fianco al mio, che guarda caso apparteneva a Christine. Ho già detto che avevo il sonno leggero, quindi mi svegliai nel cuore del buio più oscuro. Accesi la candela sul comodino e mi stiracchiai, le orecchie tese per percepire ogni minimo rumore nella stanza accanto. Non c'erano dubbi: la stanza non era vuota. Con il cuore in gola, mi alzai e infilai le pantofole, ponderando due possibilità: o si trattava di Christine, o del fantasma. Non potevo lasciarmi sfuggire nessuna delle due. Decisi quindi di sgattaiolare via dalla mia stanza per intrufolarmi – sempre acqua, sempre pioggia – nel camerino vicino. Mi lasciai scivolare sul pavimento come il topolino che ero, sempre col naso all'insù alla ricerca di novità da scoprire e sui cui “ficcanasare”, come avrebbe detto il fantasma. Armeggiai con la maniglia della porta, mentre la candela gettava lingue di luce che sembravano tremare e bruciare sulle pareti circostanti. A un mio gesto, la maniglia si aprì, lasciando che un sospiro di luna s'inoltrasse oltre la porta socchiusa. All'interno vidi un'ombra, seduta sul letto. Chiaramente, apparteneva a una donna.

«Christine!» sussurrai, abbastanza forte perché mi udisse e perché il mio sollievo fosse percettibile.




Note dell'autrice: Che ve ne pare di questo nuovo capitolo? Non sono mai sicura della caratterizzazione di Erik, quindi se avete qualcosa da criticare al riguardo, lo accetto con piacere. In fondo siamo tutti qui per confrontarci e imparare, no?


Malinconica: Sono veramente felice che il capitolo scorso ti sia piaciuto, spero che ti godrai anche questo. Grazie per i complimenti, sento di non meritarli ^\\\^


bibliofila_mascherata: Sono già al 30° capitolo, fino ad allora continuerò a pubblicarla, e spero sinceramente di continuare a scrivere fino alla fine, anche perché ho già bene in mente il concludersi della trama e ovviamente il finale. Grazie per aver letto e recensito! :D


Captain_Willard: Forse la mia storia non ha tante recensioni perché non si concentra su Erik/Christine... Ma io sono ugualmente contenta di ricevere le vostre, di recensioni! Sono così entusiastiche che ho paura di montarmi la testa, o di deludere le vostre aspettative. (Addirittura la tecnica del "racconto nel racconto" ti va venire in mente Conrad? Quando lo hai nominato credo di avere urlato, perché è un autore che sto studiando proprio in questo periodo in letteratura inglese.) :D Grazie mille, alla prossima!



   
 
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