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Autore: BlueButterfly93    29/02/2016    5 recensioni
(REVISIONE STORIA COMPLETATA)
MIKI: ragazza che, come il passato le ha insegnato, indossa ogni giorno la maschera della perfezione; minigonna e tacchi a spillo. È irraggiungibile, contro gli uomini e l'amore. Pensa di non essere in grado di provare sentimenti, perché infondo non sa neanche cosa siano. Ma sarà il trasferimento in un altro Stato a mettere tutta la sua vita in discussione. Già da quando salirà sull'aereo per Parigi, l'incontro con il ragazzo dai capelli rossi le stravolgerà l'esistenza e non le farà più dormire sogni tranquilli.
CASTIEL: ragazzo apatico, arrogante, sfacciato, menefreghista ma infondo solamente deluso e ferito da un'infanzia trascorsa in solitudine, e da una storia che ha segnato profondamente gli anni della sua adolescenza. Sarà l'incontro con la ragazza dai capelli ramati a far sorgere in lui il dubbio di possedere ancora un cuore capace di battere per qualcuno, e non solo..
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Lo scontro di due mondi apparentemente opposti, ma in fondo incredibilmente simili. Le facce di una medaglia, l'odio e l'amore, che sotto sotto finiranno per completarsi a vicenda.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ubriaca d'amore, ti odio!'
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Capitolo 23

Roma, lo scherzo del destino!








DEBRAH

Era accaduto tutto all'improvviso. Avevo organizzato ogni cosa alla perfezione scordandomi, evidentemente, del problema fondamentale: Micaela. Per un attimo avevo dimenticato quanto fosse importante per il mio ragazzo, avevo cessato di ricordare quanto lei ci tenesse a rovinarmi la vita. E sebbene con gli altri accaduti ci avesse soltanto provato, quella sera forse aveva colpito il bersaglio. 

Come una stupida principessina delle fiabe se ne stava svenuta sul pavimento ancora una volta per richiamare l'attenzione su di lei. Perché non le era bastato il cuore del mio ragazzo, no, voleva con tutta se stessa rovinarmi l'esistenza. Con un piano che ancora non avevo compreso interamente, voleva soffiarmi da sotto il naso tutto quello che avevo di più caro. Sì, Castiel era la persona più importante dopo me stessa. L'avevo intuito in ritardo, ma come si suol dire: "meglio tardi che mai". Forse però -per mia sfortuna- quella volta era davvero troppo tardi. 

Ero tornata quando il cuore di Castiel era già stato ricomposto da qualcuno, e quel qualcuno non ero io. Ero rientrata in Francia con l'intento di riparare quello che avevo rotto, perché il ragazzo dai capelli rossi sembrava essere l'unica speranza per riprendermi quel poco di dignità che mi era rimasta. Tra l'altro, Nathaniel mi aveva avvertita che Castiel sapesse tutto sul mio passato e non potevo permettere che venisse a galla a terze persone. 

Dopo che la mia carriera nella musica era finita ancor prima di incominciare, dovevo per forza ripartire da lì... da dove tutto era cominciato. 

Castiel aveva talento e se gli avessi presentato le persone giuste, di sicuro, sarebbe diventato famoso nel giro di poco tempo e con lui anche io. Tutto girava in un cerchio e un avvenimento poteva essere la conseguenza di un altro. 

Ma già a pochi giorni dal mio ritorno ebbi la consapevolezza che nulla era come l'avevo lasciato, neanche Castiel. I suoi occhi erano cambiati, lui era cambiato. Dovevo rivedere i miei piani, togliere fuori gioco Micaela. 

Perché era tutta colpa sua, di Miki. Lei era entrata nel cuore di Castiel lentamente, il modo migliore per restare dentro ad una persona in eterno. Quando, poi, lui aveva scelto di nuovo me, avevo sperato di farla franca, ma più i giorni passavano e più mi resi conto che io ero stata preferita solamente per nostalgia o ancora peggio per timore. Castiel sapeva cosa avevo tra le mani, non era ingenuo. 

Tuttavia pur sapendo di averlo in pugno, un senso di sconfitta continuava ad aleggiare intorno a me. Mi era bastato vedere come lui guardava Miki per capire ogni cosa... Perché lui la guardava con gli stessi occhi con cui un tempo contemplava i miei.

Ma nonostante avessi capito ogni cosa non mi sarei arresa. Se Castiel non poteva essere mio allora non sarebbe stato di nessun'altra, e tantomeno di Miki.

La mia mente pensava ed il mio corpo restava immobile, inerme anche davanti ai movimenti bruschi di Castiel. Aveva iniziato a girovagare per quella casa sconosciuta alla ricerca di qualcosa. Nervoso e in ansia apriva e chiudeva tutte le porte che gli si presentavano davanti. Non capivo bene cosa stesse facendo, ma una cosa era sicura: era come se io non esistessi. Dopo aver visto Miki io ero diventata invisibile, quasi come un'intrusa, come se non fossi legittimata ad assistere a quella scena. Avrei preferito uno sguardo nervoso, uno di quegli sguardi tipici di Castiel che intimorivano, piuttosto che l'indifferenza. Ma secondo lui, ormai non meritavo neanche quello.

Quando finalmente trovò la stanza che gli serviva spalancò la porta e senza perdere altro tempo sollevò Miki dal freddo pavimento. Sebbene fosse svenuta e non potesse sentire quello che le stava accadendo, la invidiai. Invidiavo quell'espressione, quelle attenzioni che Castiel stava rivolgendo solo e soltanto a lei. Non era mai stato un tipo dolce, neanche con me, ma con lei lo stava diventando senza neanche farlo di proposito. Non era corretto; Quegli sguardi, quelle mani, quel corpo, quel cuore doveva essere mio. Castiel mi spettava di diritto. Lui era stato la mia prima volta, dovevamo essere come quegli innamorati che s'incontrano dopo tanti anni eppure si amano ancora. Come nei film. Dovevamo essere una di quelle coppie che si ritrovano per poi non lasciarsi mai più. Non volevo, non potevo accettare la realtà. Quella ragazzina viziata non aveva niente più di me. Anzi, semmai io, Debrah Duval avevo qualcosa più di lei.

Quei pensieri bastarono per farmi muovere. Seguii Castiel che entrò in una stanza con un enorme divano. Ci posizionò sopra Miki con delicatezza, quasi come se fosse un oggetto fragile e prezioso che si sarebbe potuto spezzare da un momento all'altro. Mi bloccai nuovamente davanti a quella scena quasi sdolcinata. Invidiai quella ragazza ancora e ancora...

-


CASTIEL

«Che c'è?» sbottai sentendo la presenza di Debrah alle spalle.

Non ne potevo più di sentire quegli occhi di ghiaccio puntati addosso. Non ne potevo più di lei e delle sue continue menzogne. Ero arrivato al limite della sopportazione. Volevo tutta la verità. All'istante.

«Io non ho idea di quello che sta succedendo... Non prendertela con me», mi supplicò con tono di voce tremante.

Se qualcuno l'avesse conosciuta in quell'istante l'avrebbe potuta reputare innocente. Ma io la conoscevo sin troppo bene, sapevo quanto le piacesse giocare con i sentimenti delle persone. In realtà ormai di Debrah avevo solo dei pensieri negativi, e non mi capacitavo del perché perdessi ancora tempo dietro a lei. Forse ero rimasto ancorato al passato sin troppo, forse non avevo superato il male che mi aveva provocato, forse non ero poi così forte come invece dimostravo al mondo intero. O forse semplicemente temevo che lei potesse vendicarsi di quel piccolo accaduto combinato in un momento di rabbia e delusione nei suoi confronti. 

«Ah no? E allora con chi dovrei prendermela? Sentiamo!» non mi ero mai mostrato così aggressivo verso di lei. Dentro di me sapevo di non potermi permettere il lusso di farlo, la situazione era a suo vantaggio. Debrah per me era una regina persino dopo tutto il male che mi aveva cagionato. Ma c'è sempre una prima volta.

Lei senza rispondere si avvicinò a me, poggiandomi una mano sulla spalla e mi carezzò come se volesse calmarmi. Non sapeva però che l'unico modo per tranquillizzarmi -in quel caso- sarebbe stato non averla mai più davanti agli occhi. Volevo sparisse dalla circolazione. Con quel suo gesto scattò qualcosa dentro di me... di negativo. Ero convinto che lei sapesse la verità e che ci avrebbe marciato sopra per prendersi gioco di Miki.

«Scommetto che tu non sapevi nulla di tutto questo, vero?!» chiesi con sarcasmo, guardandola dritto negli occhi e puntando il dito verso una parete con delle foto. Subito dopo scrollai con violenza la sua mano dalla mia spalla. Sul muro c'erano tante foto che ritraevano Miki qualche anno prima. Quella era casa sua e Debrah lo sapeva, ne ero sicuro.

«N-no, i-io...» affermò titubante.

Scocciato per stemperare un po' di ansia iniziai a girovagare per quella stanza, a me fino a pochi minuti prima sconosciuta. Nella mia mente stavano iniziando a girare tanti pensieri, da come poter svegliare Miki, a come far sputare il rospo a Debrah. Tanti pensieri contorti che aumentarono il nervosismo. Non sapendo cos'altro fare andai spedito verso la cucina per cercare dell'acqua da mischiare con lo zucchero. Sperai -non avendo nient'altro- che avrebbe aiutato Miki a riprendere le forze. Prima che riuscissi a trovare il divano nel salotto avevo girovagato per tutta la casa, aprendo qualsiasi porta non chiusa a chiave e quindi sapevo già dove si trovava la cucina. Andai dritto, rinvenni subito l'acqua sulla tavola apparecchiata precedentemente da Debrah; forse era vero quello che diceva, si era pentita di ogni cosa, voleva realmente recuperare i rapporti con me. Scossi la testa per evitare di accumulare un pensiero in più. Aprii ogni mobile che mi veniva davanti, ma non trovai lo zucchero. Fui costretto ad urlare il nome di Debrah e lei mi raggiunse con una scintilla di speranza negli occhi. Ma stronzo com'ero la spensi subito:

«Sai dov'è lo zucchero?» le chiesi con tono piatto.

Non volevo, non dovevo mostrarle emozioni. Lei doveva capire una volta per tutte che mi ero stancato. Delusa e senza aprire bocca si diresse verso il reparto contenente lo zucchero, lo trovò subito. Eppure avevo già aperto quello scomparto di cucina non trovandoci nulla. Evidentemente ero troppo distratto. Stavo per impazzire dall'ansia e dal nervosismo. Era da troppo tempo che non mi capitava di avere tutta quella tensione. 

«Non aspettarti nessun grazie» aggiunsi guardandola di sottecchi. Nei suoi occhi si leggeva altra speranza così l'attutii ancora una volta.

Alle mie parole si poggiò al muro, incrociando le braccia, e le si scurì il volto. Nonostante ciò continuava a guardarmi dritto negli occhi. Era una delle cose che avevo sempre apprezzato di lei; il fatto di non intimorirsi davanti a niente e nessuno, neanche quando aveva torto marcio.

«Castiel, non so quante volte dovrò dirtelo ancora, ma io non c'entro nulla con questa storia. Non sapevo fosse casa sua, altrimenti ti pareva che sarei venuta qui? Meno ho a che fare con lei, meglio è!» ripeté per l'ennesima volta, cercando di essere maggiormente convincente.

Non le risposi, mi limitai a guardarla di sbieco. Mi presi del tempo. Dopo aver mescolato l'acqua e lo zucchero, con il bicchiere in mano, mi avvicinai a lei guardandola dritto negli occhi. Neanch'io riuscivo a capire i miei comportamenti, ma avevo voglia d'illuderla, di leggere nel suo sguardo speranza per poi vederla svanire. Volevo vederla soffrire. Doveva patire le mie stesse pene. E una volta che mi era stata servita l'occasione sul piatto d'argento, avrei giocato un po'.

Bastò un attimo per perdermi dentro i suoi fottuti occhi. Quegli stessi occhi che un paio di anni prima mi avevano quasi ucciso. Fu allora che ripensai, disgustato, al giorno in cui Nathaniel mi aveva raccontato ogni cosa, ogni segreto della maledetta ragazza ora davanti a me.

-

*Inizio flashback*

Un Lunedì di due anni prima scoprii quella che per me era verità. Stavo andando in cortile per fumare, quando dall'aula delegati sentii due voci sovrapporsi. Se fossero state due voci qualunque non mi sarei fermato ad origliare, ma quelle voci le conoscevo troppo bene. Il mio migliore amico e l'amore della mia vita.

«Debrah dobbiamo finirla con questa farsa. Tutto sta durando troppo!»

Perché il mio migliore amico stava urlando quelle parole contro la mia ragazza? quelli furono gli unici pensieri che il cervello riuscì ad emanare. Mi fidavo ciecamente di loro.

«Sì, dammi solo del tempo, tesoro!» Debrah lo supplicava. Lo aveva chiamato "tesoro". Continuavo a non capire o meglio volevo negare l'evidenza.

«No! Di tempo ne hai avuto anche troppo. Sono mesi che andiamo avanti così» rispose indietreggiando.

La porta era socchiusa e oltre a sentire potevo vedere quello che stava accadendo. Debrah cercava di poggiargli una mano sull'addome e lui la scansava, indietreggiando. Erano troppo intimi. Non sapevo avessero tutta quella confidenza.

«No, cazzo! Entro oggi se non parli tu, parlerò io. Castiel ha il diritto di sapere!»

BASTA! Avevo assistito a quel teatrino per troppi minuti. Ormai la situazione mi era fin troppo chiara. Così spalancai la porta e urlando con tutta la voce che possedevo in corpo: «Dirmi cosa? Che siete entrambi dei traditori?»

Non capivo più nulla. Non potevo crederci. Nathaniel e Debrah erano amanti. Lei mi aveva tradito con il mio migliore amico. Mio fratello si era fatto la mia ragazza. Davanti agli occhi e nei pensieri avevo immagini di loro due avvinghiati, scene che neanche la persona peggiore della terra meriterebbe d'immaginare.

Quando partì il primo pugno sul volto di Nathaniel, nella testa e nel cuore, erano rimaste solo quelle parole e quelle scene patetiche. Sembrava che nel mio cervello si fosse inceppato un DVD. Ero vuoto. Non mi era rimasto più niente. Mi era successa la cosa più brutta che potesse mai capitare in un rapporto. Dalla rabbia non vedevo nient'altro che il loro tradimento. Più colpivo il traditore, più eliminavo tensione dal corpo. Debrah urlava parole che in quel momento risultarono incomprensibili. Sentivo la sua presenza dietro di me, ma non la guardavo. Non sarei riuscito più a guardarla per parecchio tempo.

«Cosa sta succedendo qui? Smettetela!» udii una voce maschile mentre due mani mi sollevavano da terra. Durante il conflitto avevo gettato Nathaniel sul pavimento ed io ero sopra di lui... Ero talmente nero che la rabbia si era impossessata di tutto il mio corpo. Compivo azioni, ma non me ne rendevo conto.

«Voi tre: dalla preside. Subito!» riuscii a malapena a sollevare il volto per guardare chi mi aveva diviso dalla persona che da quel momento in poi avrei odiato di più al mondo. Era Faraize. Dietro ai miei casini c'era sempre lui, era destino ormai.

Senza protestare o guardare i due piccioncini, m'incamminai per primo seguendo il professore. Durante la sua ora di lezione avevo conosciuto Debrah e con lui avevo posto fine alla mia storia. Sembrava uno strano scherzo del destino, ma era pura e cruda realtà.

Appena arrivai nell'ufficio della preside: «Black, cos'hai combinato sta...» la direttrice lasciò le parole in sospeso quando vide spuntare dietro di me il volto sanguinante di Nathaniel. Mi ero superato. Non avevo mai fatto a botte nella scuola. O meglio, l'avevo fatto ma le altre volte era qualcosa di più leggero. Le altre volte era Nathaniel a suggerirmi di finirla. Lui era la mia coscienza, la persona di cui mi fidavo di più al mondo. 

Faraize iniziò a raccontare tutto ciò che aveva intuito sulla lite e nessuno dei tre fiatò. Eravamo piazzati in orizzontale, in fila, con parecchia distanza l'uno dall'altro. Dopo che la direttrice ci squadrò con disappunto, arrivò ad una conclusione.

«Signorina Duval, lei partirà tra una settimana e le farei solamente un favore a non farle frequentare le lezioni. Quindi chiamerò la sua futura scuola per far presente l'accaduto e prenderanno lì i provvedimenti opportuni!»

Le orecchie mi fischiarono per lo stupore ed il cuore aumentò di un battito. Partire? Avevo sentito bene?

Debrah doveva partire. Cambiava scuola. Perché io non ne sapevo nulla? Ero davvero così poco importante per lei? Eppure stavamo insieme da parecchio tempo oramai. Appena la direttrice finì di rivolgersi a lei, Debrah mi guardò e mi fece segno che avremmo parlato appena fuori dall'ufficio. Io non le risposi, la guardai con sguardo duro e mi voltai di scatto verso la preside. Per la prima volta apparì più interessante guardare il confetto incazzato piuttosto che Debrah.

«Signor Daniels, lei corra in infermeria e si faccia medicare. La sospendo per tre giorni con obbligo di frequenza» con volto basso sporcando persino il pavimento, per delle gocce di sangue cadute, Nathaniel annuì e senza spiccicare parola uscì dall'ufficio.

Restavo io. Colui che aveva spaccato la faccia al suo migliore amico.

«Signor Black, lei è sospeso da ogni attività scolastica per un mese a partire da ora. Il che sa che vorrà dire? La bocciatura assicurata! La violenza è ciò che tollero di meno. Che sia d'insegnamento a tutti gli alunni della scuola. Non voglio mai più vedere scene da Wrestling nella mia scuola. Chiaro?!»

Non m'interessava. Da quel momento meno sarei stato in quel postaccio, meglio era. Alzai il pollice della mano sinistra verso l'alto e con il mio sorrisetto falso abbandonai l'ufficio senza suppliche o aggiungere parole. M'incamminai verso l'uscita a passo veloce per evitare di parlare con Debrah. Se la nostra storia doveva finire, avrei voluto che finisse in quel modo, senza bisogno di dirsi le frasi di merda tipiche dei film melodrammatici. Ma ovviamente nella mia vita non poteva filare tutto liscio, neanche per una volta.

«Castiel, aspetta... fermati... ti prego...» alle calcagna Debrah, con il fiatone, voleva lavarmi la faccia a tutti i costi. Mi fermai di scatto proprio vicino alla porta d'uscita di scuola. Mi voltai verso di lei ma senza guardarla negli occhi.

«Una casa discografica mi ha offerto un contratto. Mi trasferisco in America!» disse entusiasta.

"Ma che bella faccia tosta. Come se non fosse successo niente..."

«Buona vita!» risposi visibilmente scocciato ed incrociando le braccia al petto. Poi aggiunsi: «Se hai finito, io andrei...» mostrando la porta dietro le spalle.

Lei m'ignorò e continuò «Sapevi che non sarebbe potuta continuare la nostra storia. Pretendevi che andassi all'estero da fidanzata?»

«Ah no! Ti auguro di farti tutti i JOHNNY che vuoi. Addio Debrah.» dovevo farle capire in qualche modo che -qualche sera prima- avevo letto i suoi messaggi orribili scambiati con chissà chi, e quello fu l'unico modo. Senza aspettare risposta mi voltai di scatto ed uscii da quella maledetta scuola.

Lei restò senza parole e continuò a seguirmi: «Che? Hai letto i messag.. ma vedi che.. no..» era alla ricerca delle parole giuste, ma evidentemente non era poi così brava a trovare menzogne immediate.

«Sta' tranquilla. Non sprecare la tua bellissima voce, altrimenti come farà l'America senza di lei? Adesso devo proprio andare. CIAO!» risposi a mo' di sfotto' e con un cenno della mano salutai per l'ultima volta Debrah. 

Mi voltai per guardarla un'ultima volta con il cuore in gola, non l'avrei mai più rivista e almeno quello me lo concessi. Era spiazzata, con la bocca spalancata per le risposte fredde che le avevo dato. Evidentemente non se l'aspettava. Avrebbe voluto una supplica o qualcosa di simile, ma aveva sbagliato di gran lunga persona. Nel nostro rapporto avevo già fatto troppi errori; le avevo dato me stesso senza che neanche lo meritasse. 

Quella mattina, nell'atrio della scuola, lasciai nelle mani della donna che pensavo di amare un piccolo pezzo di cuore. Non si sarebbe mai risanata quella ferita, quel tradimento, e sarebbero stati giorni duri per me quelli a seguire, lo sapevo bene. Ma sarei sopravvissuto. Un cuore di pietra spezzato era impossibile da scalfire ulteriormente. Da quel giorno non mi sarei fidato di nessuno per molto tempo.

Passai il mese successivo chiuso in casa. Non avevo voglia di fare nulla. Uscivo il giusto indispensabile per comprare alcolici ed erba. Sì. Non l'avevo mai fatto prima d'allora. Avevo sentito alcuni amici parlarne; dicevano che lo spinello facesse stare meglio, così iniziai a fumarne anche venti al giorno. Non avevo alcun beneficio una volta che il mio corpo si era abituato alla sostanza ma ormai, anche quello, era diventato un vizio. Bevevo e fumavo, fumavo e bevevo. Ero ridotto male, ora, ripensandoci lo ammetto. Ma in quel periodo non capivo niente. Niente mi sembrava corretto, niente mi sembrava sbagliato. Vivevo in una bolla. Mi sentivo come un pesce senza alcuna responsabilità. Mi alzavo la mattina con l'idea della ragazza stronza in testa e subito iniziavo a bere. Bevevo per dimenticare. Volevo dimenticare la mia prima ragazza, la storia che mi aveva segnato per tutta la vita. 

Ma come si può bere e dimenticare se non si è ubriachi di alcol? Ero un deficiente ubriaco d'amore. Ubriaco di un amore falso, bugiardo, un amore che non sarebbe dovuto neanche nascere; ma che comunque era nato con solo l'intento di distruggermi. E ci stava riuscendo. 

Ogni santa giornata quando vedevo che l'alcol non aveva fatto il suo effetto, iniziavo a fumare spinelli fino a rincoglionirmi. E ci riuscivo. Passavo il resto della giornata buttato sul divano a guardare programmi spazzatura in TV e a mangiare cibo in scatola. In quei mesi ero troppo annebbiato per capire, per fermarmi a pensare che era tutto sbagliato. Pensavo a Debrah a quello che mi aveva fatto e ancor più pensavo a Nathaniel a quanto mi aveva ferito. Lui era l'amicizia di una vita, sapeva tutto di me, ogni cosa, davvero. Non doveva permettersi di andare a letto proprio con lei. Erano loro due i miei unici pensieri. 

I miei genitori avevano capito che c'era qualcosa che non andava, ma continuarono la loro vita sparsi per il mondo senza pensarmi minimamente. E nonostante tutto ero felice per loro. Loro almeno si amavano. Anche se in quindici anni non erano stati capaci di trasmettermi il loro amore, ero felice così. Non avevo bisogno di loro. Non avevo bisogno di nessuno. Ogni tanto Lysandre, un compagno della vecchia band, veniva a farmi visita, era l'unica persona che tolleravo. In quel mese -il peggiore della mia vita- avevo persino abbandonato la musica. Errore più grande. Ma a cosa mi serviva suonare, scrivere canzoni, se pensavo ininterrottamente a lei soprattutto in quei casi? Ogni cosa mi ricordava quella stronza patentata, persino il divano su cui mi ostinavo a stare giorno e notte. Mi appuntai di comprarne uno nuovo prima o poi. Dovevo eliminare ogni cosa mi ricordasse lei.

Esattamente al trentesimo giorno dall'accaduto accadde una cosa, l'ultima che distrusse definitivamente quel poco di ragione che mi restava. Suonarono alla porta, pensavo fossero quei piccoli venditori ambulanti che ogni tanto disturbavano la mia quiete, così urlai senza scomodarmi:

«'Fanculo! Non mi serve niente. Andate via!» ma nonostante la mia intimidazione chiunque fosse continuava a suonare e bussare senza parlare.

Quando non ne potetti più di quel suono assordante mi alzai con intenzioni non buone dal divano e mi recai ad aprire la porta. L'alcol ed il fumo avevano peggiorato il mio carattere. Ero ancora più suscettibile e stronzo del solito. Giunto davanti al masso di legno, lo spalancai quasi rompendo la maniglia tanto della forza che ci misi. In quell'istante avrei voluto tanto essere spettatore della scena, di sicuro l'espressione che feci quando vidi Nathaniel sull'uscio di casa mia, fu la più brutta e buffa della storia.

Non me l'aspettavo. Il nemico aveva oltrepassato il limite. Non gli bastava più avermi segnato e rovinato per sempre l'esistenza, aveva bisogno anche di ricordarmi quanto lui fosse più fortunato di me, più bello e più tutto. Con espressione disgustata gli voltai le spalle e mi recai in cucina a prendere una birra. Lasciai la porta aperta per fargli capire che sarebbe potuto entrare. Non che io volessi ricucire i rapporti con lui, quello mai, ma ero curioso di sapere cosa voleva ancora da me. Era da ormai più di un mese che non mi concedevo una risata e quel giorno ero proprio in vena di rifarlo. Ritornai nel soggiorno dove Nathaniel aveva occupato il mio posto preferito e restai in piedi con le spalle al camino, difronte al lecchino. Iniziai a bere la birra senza offrirgliene; quella non era mai stata mia abitudine, figuriamoci poi ad un verme come lui. Per quanto mi riguardava sarebbe anche potuto morire di sete. Da quel giorno in poi avrebbe dovuto chiedermi qualsiasi cosa in ginocchio. Lui per me non era più niente. Persino la formica più piccola presente tra le mura della casa avrebbe meritato maggiori attenzioni di lui.

Schioccai la lingua al palato «Che faccia di cazzo che hai nel presentarti qui!» brontolai a bassa voce ma visto il silenzio sapevo mi avrebbe sentito ugualmente.

«Mi ha mandato la direttrice» iniziò ingoiando pesantemente la saliva, persino io lo sentii, «queste sono tutte le spiegazioni che ti sei perso fino ad ora. Ha detto che devi rimetterti di pari passo con il programma anche se sei sospeso», aggiunse porgendomi su per giù duecento pagine di appunti.

Lanciai il malloppo di fogli in aria. Non avevo nessuna intenzione di studiare, né di ricevere aiuto da un traditore come la faccia da beduino difronte a me. Ormai avrei perso l'anno. Sarei stato bocciato a prescindere, a cosa sarebbe servito studiare?

Ma se la direttrice si era bevuta il cervello, Nathaniel non era da meno. Era cambiato. Non solo dal modo di parlare ma anche in quello di vestire. Se non l'avessi visto con i miei occhi, non avrei mai potuto immaginare che sarebbe potuto cambiare in così poco tempo. Era in camicia e cravatta abbigliamento che lui aveva sempre odiato perché poteva in qualche modo accomunarlo al padre. E invece eccolo lì: un clone perfetto del signor Daniels.

«Se hai finito, puoi anche andare via, ora!» riuscii a dire solamente. Ero sotto shock ancor di più. Cosa ne era stato del mio ex migliore amico?

«No! Vorrei sapere cosa ti ha detto Debrah» affermò con fermezza. 

Ma il damerino si era sbagliato i conti «non sono affari tuoi!» risposi secco.

«Sì invece, dal momento in cui sono stato preso a pugni per un malinteso», insisté. A me non erano mai piaciute le persone che insistevano in un discorso, e lui lo sapeva bene. Mi stava istigando per chissà quale fine.

«Lo chiami malinteso scoparti la mia ragazza?!?» chiesi sarcasticamente troppo ad alta voce ed estremamente nervoso.

«Io che?!» chiese a sua volta sgranando gli occhi. Sembrava sorpreso, eppure non avrebbe dovuto.

Poi continuò: «Quindi non ti ha detto un bel niente, presumo. Non conosci la verità. Bene. Lascia che te la racconti io, allora!»

«No, non ho altro tempo da perdere dietro a te! Ho cose migliori da fare invece di ascoltare un bugiardo di merda» più cattiverie avrei detto, meglio sarebbe stato. Volevo toglierlo a pedate da casa mia, all'istante.

«Non cambierai mai eh?! Sempre il solito testone» sorrise malinconico e scosse la testa, «comunque visto che non mi dai altra scelta, sarò costretto a spiegarti tutto in due parole...» stava per raccontare altre cazzate, lo sapevo già, e tutte quelle scemenze stavano diventando troppe, così bloccai il discorso da quattro soldi sul nascere, raggiungendolo con aria minacciosa 

«O te ne vai o sarò costretto ad usare le maniere forti e non sarò clemente come l'ultima volta, ti avverto!» lo presi dal colletto della camicia e lo sollevai dal divano. Ero rimasto in silenzio e buono per già sin troppi minuti.

«Debrah-ha-ceduto-a-ricatti-per-fare-carriera!» disse tutto in un fiato e con voce strozzata a causa della mia mano che lo strattonava. Non fece niente per liberarsi dalla mia presa, mi conosceva, sapeva che dopo quelle parole gli avrei permesso di spiegarsi meglio.

Forse non avevo capito bene. Lo mollai spingendolo, come si aspettava, e gli permisi di concludere. 

«Si è portata a letto parecchie persone per riuscire a farsi assumere da una casa discografica...» non volevo crederlo. Lei non era quel genere di persona. Mi stava mentendo per pararsi il culo. Sì. Doveva essere per forza così. «...E per finire un chitarrista. Lui non è bravo quanto te, per questo motivo ha scelto lui e non te. Non vuole avere la scena oscurata da qualcuno più bravo di lei. Ha trovato questo ragazzo che suonava nel locale del padre, ha visto che l'avrebbe potuto conquistare e si è buttata letteralmente su di lui...»

«E tu lo sai, perché...» sapevo non stesse dicendo menzogne. Lo conoscevo bene. Aveva cambiato il suo modo di vestire, di approcciarsi, ma non le sue espressioni. I suoi occhi in quel momento non mentivano.

«L'ho vista all'attacco. Un Sabato sera sono arrivato nel locale prima di te e Lys ed ho assistito ad una scena patetica. Ti risparmio i dettagli. Da lì mi ha raccontato tutto, perché ovviamente sono andato a dirgliene due una volta averla beccata... Non poteva aver fatto una cosa del genere al mio migliore amico..» lo fissai schifato ed incredulo. 

Non mi aveva tradito con una persona sola. Non mi aveva tradito per semplice attrazione. Mi aveva tradito per fama, successo e soldi. Lei non poteva essere la stessa persona che per la prima volta aveva fatto l'amore con me. Come poteva quella ragazzina ingenua architettare piani del genere?

«Pensavo fosse partita per una carriera da solista!» dalla mia bocca non fuoriuscivano i pensieri del momento, ma domande, frasi buttate lì senza senso. Non capivo più nulla. Non ricordavo più neanche il mio nome. 

«Non volevano una solista, ce n'erano troppe dicevano. Cercavano un duo uomo-donna con qualcuno dei due che suonasse uno strumento. Ma comunque è come se fosse solista. Quel ragazzo è un musicista, un cantante come tutti gli altri, non ha nulla di particolare».

«E tu in tutto questo cosa c'entri?» ancora una volta, una domanda buttata lì. Quasi per sembrare freddo, per sembrare quello poco colpito dalla situazione. Ma la verità era che tutto mi toccava sin troppo. Mi facevo schifo. Ero stato con una donna, una mezza donnetta adolescente, che si era concessa per diventare famosa. Per la prima volta, grazie a Nathaniel la verità mi era stata sbattuta in faccia. Per la prima volta dopo molto tempo ero di nuovo entrato in contatto con la realtà. Ed era terribile.

«Te l'ho detto. Non sopportavo il fatto che stesse prendendo in giro te. In più mi aveva offerto di partire con lei. Aveva provato a sedurre anche me, ma ho rifiutato.» Nonostante quel bel gesto, restava il fatto che doveva parlarmene subito.

«Da quant'è che va avanti questa storia?» chiesi. Sembravo un giornalista, freddo. Perlomeno capii di essere un bravo attore quel maledetto giorno.

«Contando questo mese appena passato, tre. Tre mesi!» un colpo al centro tra il petto e lo stomaco mi colpì violentemente. Quando facevamo l'amore, l'aveva fatto con chissà quanti altri, magari anche nello stesso giorno. Sentii l'impellente bisogno di vomitare il tonno in scatola mangiato a pranzo. Avevo il disgusto. Di che diamine di donna mi ero innamorato?

«Perché non me l'hai detto subito?» continuai il mio finto ruolo da giornalista menefreghista senza far trapelare il mio disgusto per quell'assurda situazione.

«Voleva essere lei a parlartene... mi aveva quasi supplicato. Ma ogni giorno trovava una scusa per evitare di parlarti. Dovevo capire sin da subito che non ti avrebbe mai raccontato niente per davvero. Sono stato stupido, ho sbagliato, lo ammetto..»

«Sì. Il tempo per i piagnistei è scaduto. Puoi andartene ora!»

E con quella frase si chiuse l'ultima conversazione quasi civile tra me ed il biondo. 

Non potevo perdonarlo. Tre mesi erano troppi. Lui sapeva ogni cosa e me l'aveva tenuta nascosta. Per lo più non aveva negato di esser stato con lei. Aveva rifiutato l'offerta, la partenza, la fama, ma il resto? Chi mi avrebbe potuto garantire che stesse raccontando la verità? Decisi di voler restare nel dubbio, di non voler sapere la verità. Già stavo male per quella porcheria che mi era stata sbattuta in faccia, figuriamoci se avessi avuto conferme di un'ipotetica storia tra lui e Debrah. Non avrei sopportato parole del tipo "sì, siamo stati insieme.. abbiamo scopato ma nulla di più" e cose simili. Non avrei retto, non se quelle frasi fossero uscite dalla sua bocca; dalla bocca del mio ex migliore amico.

Se ne andò da quella casa senza aggiungere sillaba. Era strano per uno come lui, ma lo fece. Preferì scappare, lasciar perdere. Sapeva che l'argomento successivo che avremmo affrontato sarebbe stato quello. Sapeva che a quel punto mi avrebbe dovuto rivelare la sua relazione con Debrah. E da quel giorno la diedi per sicura, forse sbagliandomi, ma ne fui convinto per molti anni dopo l'accaduto. 

«Si è portata a letto parecchie persone per riuscire a farsi assumere da una casa discografica» ripetei ad alta voce le stesse ed identiche parole che mi aveva riferito Nathaniel pochi secondi prima. Quella frase, la prima, fu quella che mi sconvolse maggiormente. Senza delicatezza avevo conosciuto la realtà tutta d'un tratto. Mi sentivo come un cieco che con un miracolo acquista la vista. Inizialmente si sente spaesato e non riesce ad aprire gli occhi, ha bisogno di percepire i colori un po' per volta. Ecco, la differenza era che io ormai non potevo recepire le informazioni un po' alla volta. La verità, l'unica verità, l'avevo conosciuta tutta d'un fiato e la colpa era stata mia. Non avevo lasciato a Nathaniel il tempo di spiegare, l'avevo aggredito con la mia impulsività, con il mio carattere del cazzo, e quello ne era stato il risultato. 

Restai immobile per tutto il giorno a fissare la parete bianca in attesa di risposte, di consigli, ma non arrivavano. 

Bevevo ma ormai non bastava più. Fumavo ma ormai non bastava più neanche quello, lo spinello. Il mio corpo si era abituato a quella sostanza e magicamente l'unica cosa che il cervello pensò in quella giornata fu che avevo bisogno di qualcosa di più pesante. Qualcosa che mi avrebbe fatto sentire tutt'altra persona, che mi avrebbe fatto entrare in mondi paralleli. 

Decisi di chiamare il tizio che mi vendeva la droga. C'incontrammo vicino casa e mi diede quello che secondo lui faceva al caso mio. Un allucinogeno. Mi parve di sentirlo chiamare LSD. Non avevo idea di che effetti provocasse, gli dissi di voler spegnere solamente la mente, avere un po' di pace interiore, che più arrivavo a non capire nulla, meglio sarebbe stato. Lui mi assicurò il risultato. 

Tornai a casa e ingoiai quella droga gelatinosa e verde. Mai vista prima d'allora, una cosa del genere. Dopo un'ora ebbi i primi effetti. Fu lì che iniziò il mio incubo.

Mi trovavo in un prato enorme -al posto del cielo delle luci psichedeliche di mille colori- e al centro del verde era situato un palco. Sentivo una musica e di sottofondo cantare una voce familiare. La voce proveniva dall'impalcatura. Iniziai a correre per ascoltare meglio e quando arrivai sotto la struttura, mi bloccai. Era Debrah; Debrah seduta su uno sgabello che cantava accompagnata da un ragazzo con la chitarra. Doveva essere lui. Lui era il ragazzo che me l'aveva portata via per sempre. Avrei voluto urlare, ma non riuscivo. Ero semplicemente spettatore di quella scena, come se loro non mi vedessero. Appena finì il brano, infatti si avvicinarono e con la dolcezza e l'intimità di due fidanzati, si scambiarono un bacio. Senza pensarci due volte salii sul palco per prendere dal collo quello stronzo, ma loro continuavano ad ignorarmi. Non capivo. Non capivo niente. Loro si spogliavano, disinibiti sotto i miei occhi. Stavo soffrendo, per la prima volta nella mia vita sentivo il bisogno di piangere e urlare. 

Poi una voce. 

«Castiel..Castiel.. ma che cazz..» cosa voleva Lysandre? E perché non voleva che dividessi Debrah da quel coglione? 

Quelli furono i miei ultimi pensieri. Successivamente vidi tutto buio. Il resto mi fu raccontato un mese dopo l'accaduto.

Aprii gli occhi il giorno dopo, ma restai tormentato -da quella realtà vissuta in quelle poche ore sotto l'effetto della droga- per una settimana intera, mi dissero i miei genitori. "Lysandre è il tuo angelo" continuava a ripetere mia madre. Inizialmente non capivo, poi collegai ogni cosa. 

Nathaniel mi aveva fatto visita, mi aveva raccontato quasi tutta la verità su Debrah. Io l'avevo presa male e per togliermi i pensieri dalla testa mi ero dato appuntamento con il mio amico spacciatore e comprai robaccia. Mi feci consigliare da lui, la scelta più sbagliata della mia vita. Mi diede una sostanza che assumendola faceva entrare in un altro mondo. LSD. Era il cervello a non connettere più e faceva pensare a mondi paralleli. Nella mia specie di sogno c'era Debrah, e quando avevo corso nel prato, in realtà ero salito in camera mia. Quando ero salito sul palco per spaccare il muso al presunto ragazzo di Debrah, in realtà ero salito sulla finestra della mia camera. Lysandre era arrivato proprio nel momento giusto. Altrimenti sarei caduto dalla finestra. Sarei morto senza neanche accorgermene, sotto effetto di droga. 

Subito dopo l'accaduto fui portato in una clinica dai miei genitori che per la prima volta dopo mesi tornarono a casa dal loro lavoro impegnativo. In quella struttura passai il mese successivo a disintossicarmi e sotto la cura di psicologi. Un incubo senza fine.

Ma io non ero malato. Avevo solo superato il limite. 

Ogni giorno strizza-cervelli, dottori, mi sottoponevano ad esami stressanti e noiosi. Non ne potevo più. Con il passare del tempo, però, ritornai sempre di più me stesso. Iniziai a ragionare con il mio cervello dopo una ventina di giorni e finalmente compresi lo sbaglio commesso decidendo di mettere una svolta alla mia vita. 

Non avrei mai più assunto droghe in vita mia. Quella lezione era bastata. Non avrei mai dovuto perdere il controllo per una donna, ancor meno per una come la mia ex. Da quel giorno avrei bevuto in modo moderato, senza eccedere mai più. 

Mi ero comportato da bamboccio. Era arrivato il momento di crescere. 

Al ritorno a scuola la situazione peggiorò. Non per le droghe, ma dal punto di vista sociale. Sopportavo le persone ancor meno di prima. Non socializzavo e anzi al contrario cercavo di far stare tutti alla larga da me. Non legai più con nessuno, le donne creavano solo problemi. Usai qualche ragazza consenziente per delle sveltine, dovevo pur sfogarmi in qualche modo, ma mai qualcosa di serio.

Riuscii in ogni mio intento. Il fattore sfiga mi aveva fatto trovare al posto sbagliato al momento sbagliato, mi ero beccato un'accusa falsa di violenza, ma nonostante quel particolare non sfogai più la mia frustrazione nell'alcol o nella droga. Non toccai mai più il fondo. Neanche quando ebbi nuove notizie di Debrah. Era diventata una cantante, finalmente. Aveva pubblicato il suo primo Cd. Si era subito sbarazzata del chitarrista e chissà con quali mezzi diventò la diva che aveva sempre sognato di essere. Tutto proseguì...

*fine flashback*


Non c'erano giustificazioni davanti al mio comportamento, avevo sbagliato ogni cosa. Ma Debrah non rappresentava una semplice ragazza, non era una semplice scopata, Debrah era molto di più. Lei era la figura femminile, stabile e duratura che non avevo mai avuto; perché Debrah nonostante le apparenze era una ragazza come poche. Passava ogni fine settimana a casa mia e vederla gironzolare per casa, vederla prendersi cura di me era diventato necessario. Perché Debrah aveva sostituito una mamma, una sorella che non avevo mai avuto realmente. Peccato che però l'aveva fatto solo in apparenza. Forse era stato quello il motivo del mio gesto sconsiderato che aveva portato ad abbandonarmi alla droga e all'alcol. Non potevano esserci altre ragioni. 

La verità? Ero un coglione. Non avevo mai avuto un carattere forte prima che lei mi lasciasse. Fingevo di averlo, ma non era vero. Tutti, dopo l'accaduto, continuavano a lamentarsi di quanto fossi diventato ancor più intrattabile, ma io andavo fiero di quel carattere che mi era fuoriuscito dopo la batosta. Perché dopo quei mesi nessuno mi avrebbe messo più i piedi in testa e tantomeno ancora una volta lei, Debrah. 

Quando poi dopo due anni era tornata a Parigi, tutti avevano creduto che fossi diventato di nuovo il suo cagnolino, ma si sbagliavano. Da una parte il mio ritorno con lei aveva uno scopo. Ogni cosa, per me, aveva un senso e prima o poi sarei riuscito a portare a termine il mio fine. D'altro lato, invece, ero tornato tra le sue braccia anche per mancanza, nostalgia dei tempi in cui ero spensierato. Una via e due servizi. 

«Ok, lo ammetto. Teresa è la mia matrigna. Sapevo fosse la vera mamma di Miki. Contento? Ora mi parlerai o continuerai ad ignorarmi?» mi spezzò dal mio stato di trance la voce che ormai per me era solo simbolo di falsità e male, Debrah. 

Avevo ragione, era malvagia. Non era cambiata neanche di una virgola. Anzi, forse era addirittura peggiorata.

-

MIKI

Un brusio di voci alterate mi destò dal sonno. Strano, non ricordavo di essermi addormentata. Cercai di aprire gli occhi, ma non ci riuscii. Percepivo un peso sulla testa. Mi sentivo senza forze e la testa vorticare in un modo stranissimo, più forte di come mi era già accaduto in passato. Così senza muovermi di un millimetro mi sforzai di distinguere almeno le voci che si sovrapponevano tra di loro. Qualcuno stava litigando.

«Ti ho detto di andartene Debrah, cazzo!»

Quel nome. Quella voce profonda e roca che avrei riconosciuto tra mille simili. Castiel stava incitando Debrah ad andarsene. Ma per quale motivo? Era la sua venerata ragazza. 

«Guarda che non è stata lei a dirmelo, l'ho solo intuito. E poi... Teresa non la vuole neanche vedere!»

Un altro nome; questa volta però m'indusse ad aprire gli occhi in un lampo.

Cercai di focalizzare meglio il posto in cui mi trovavo, fu difficile, gli occhi bruciavano. Ma bastò riconoscere la stanza in cui ero per ricordare l'accaduto di chissà quante ore prima. Ero a casa mia, a Roma. Debrah e Castiel, senza capire il come ed il perché, avevano invaso anche quel mio spazio. Ed io dallo shock provocato dalla loro vista ero svenuta, giusto?

«Non voglio più sentire le tue giustificazioni, VA' VIA!» Castiel continuava ad urlare sempre più forte contro la sua ragazza e dopo qualche secondo udii una porta sbattere.

Poi il silenzio. 

Debrah era andata via, sicuro. Gli schiamazzi erano terminati quindi doveva essere per forza così. E se anche il rosso mi aveva abbandonata?

Ma un attimo dopo fortunatamente fui rassicurata del contrario. Non mi aveva lasciata sola. Lui era lì, con me. Nella mia casa. Da solo. 

Il rumore dei passi, veloci e convinti delle Timberland di Castiel, si faceva sempre più vicino ed io rabbrividii già solo nell'immaginarlo affianco a me.

«Cazzo... tu sei sveglia? Da quanto?» si fiondò accanto a me apprensivo ed allarmato. C'era qualcosa di diverso in lui, lo percepivo.

S'inginocchio sul tappeto accanto al divano del salotto dove mi trovavo distesa, ed iniziò a scrutarmi con quello sguardo mai visto in lui. Era preoccupato. Non era mai stato così tanto premuroso con me prima di quel pomeriggio. Nell'albergo non ci eravamo neanche lasciati in pace... e invece lui sembrava essersene dimenticato. 

Gli sorrisi. Fu l'unica cosa che riuscii a fare. Quei suoi nuovi comportamenti mi spiazzarono totalmente. 

«Ho preparato un po' d'acqua e zucchero, dovrebbe andare bene per aiutarti a riprendere energia. Non ho trovato nient'altro..» dalla sua voce, poi, fuoriuscì nervosismo ed imbarazzo. Perché? Lo fissai confusa.

Lui non fece caso al mio sguardo, mise il braccio sotto la mia nuca e aiutò a farmi sedere. La stanza prese a girare velocissima.

Istintivamente poggiai la mano sulla fronte e richiusi gli occhi, stringendoli. «Sei troppo debole. Tieni, bevi veloce» feci come diceva ed ingoiai l'acqua dolce nel bicchiere che gentilmente resse lui tra le mani. 

Quando finalmente la testa tornò più o meno al suo posto, in quella posizione riuscii ad ammirare Castiel meglio in volto. Quegli occhi mi erano mancati, terribilmente. Non erano scuri dalla rabbia, erano del loro colore naturale e particolare. Lo contemplai come un ebete. Sentendosi sotto esame, si spostò accomodandosi affianco a me, sul divano, evitando il mio sguardo. Quelli erano comportamenti sin troppo strani per uno come lui. La sicurezza che lo aveva da sempre contraddistinto era come svanita nel nulla. 

Volevo capire cosa fosse accaduto, cosa ci facesse lui in quella casa, per quale sacrilegio Debrah possedesse una copia delle chiavi di quell'appartamento, così cercai di chiedere chiarimenti e fortunatamente, sebbene con un filo di voce, ci riuscii.

«Sono un po' confusa...» lasciai la frase in sospeso sperando che lui si decidesse a spiegarmi qualcosa.

«Che ne dici di fare il giro della città quando ti riprendi? Non so se sia una buona idea... insomma... sì, giusto per fare qualcosa» evase la mia domanda, ponendomene un'altra e poggiandosi una mano dietro la nuca in segno d'imbarazzo. Quello era un gesto tipico di Nathaniel, se fatto da lui era prevedibile, ma da Castiel proprio no. A quel punto mi venne spontaneo corrugare le sopracciglia. Era troppo strano il suo comportamento. Non lo avevo mai visto in quel modo, non riuscii a pensare nient'altro. Nella mia testa rigiravano sempre gli stessi argomenti e frasi, probabilmente ero ancora confusa a causa dello svenimento.

Evitai di metterlo ulteriormente in soggezione, così rilassando i muscoli annuii senza aprire bocca. Durante la fantomatica passeggiata avrebbe risposto alla mia confusione. Sembrava mi stesse nascondendo qualcosa e sapevo fosse collegato a Debrah e alla donna che mi aveva messo al mondo. Pochi minuti prima avevo udito il nome di Teresa uscire dalla bocca di Debrah. Supposi, quindi, che Castiel era venuto a conoscenza di qualcosa che forse era bene che io sapessi. Aspettai con ansia e pazienza che fosse il rosso a parlare.

-


ADELAIDE

Mi sentivo uno straccio. No, forse anche uno straccio sarebbe stato meglio di me. Mi sentivo già morta prima ancora di esserlo realmente. Ed ero sola. Forse la cosa più brutta di tutta la storia era quell'aspetto. La solitudine era peggiore della malattia in sé. Ero stata punita per non aver cresciuto un figlio, l'unico che forse mi sarebbe potuto stare accanto in un momento come quello.

Uscii dall'ennesima visita e l'ennesimo parere chiesto risultò negativo. Dovevo operarmi e l'operazione sarebbe stata molto rischiosa. Ma non era quello a preoccuparmi. Non avevo paura della morte; non temevo neanche il male che cresceva, dentro me, ogni giorno di più. Il mio unico pensiero andò a Castiel. 

Come l'avrebbe presa se a raccontare la verità fosse stata Miki, un'estranea in fondo, e non io? Mi pentii all'istante della troppa impulsività che avevo avuto qualche giorno prima, a voler addossare la responsabilità della mia codardia ad una povera ragazza. Miki era molto importante per Castiel, ormai anche i muri ne erano a conoscenza, ed era stato quello a spingermi a raccontarle tutto. Pensavo che lei sarebbe stata in grado a gestire un carattere impulsivo come quello di mio figlio. Ma non era corretto addossare quel peso ad una ragazzina. Era tutto dannatamente sbagliato. Ero stata immatura, ancora una volta. Nella mia vita non ne avevo combinata una giusta. 

Mi sedetti su una panchina, situata al di fuori dalla casa ospedaliera -che mi avrebbe ospitata nei prossimi mesi-, sfinita. Nessuno faceva caso a me. Ero una delle tante facce distrutte per l'ennesimo tumore del mese. Ero un numero. Un ridicolo numero d'aggiungere al record del chirurgo più bravo di Parigi. Gli oncologi di tutto il mondo facevano a gara tra loro sulle operazioni più rischiose che riuscivano a portare a termine in un anno, e ricevevano addirittura dei premi per il loro ipotetico primato. 

Anche su di me avrebbero fatto degli esperimenti, il mio tumore era raro; mi sentivo uno stupido animale da laboratorio. Provavo delle sensazioni tremende d'impotenza. 

Strano pensarlo, ma in quel momento avrei tanto desiderato una carezza di Isaac. Ma lui dov'era? Mi aveva abbandonata per un'altra donna, una donna che non aveva mai rinunciato a nulla per lui. Ed io, invece? Io cos'ero stata? Io che avevo partorito un figlio per poi abbandonarlo subito dopo, solo per un marito esigente e prepotente, non avevo ricevuto di certo un premio di merito. Anzi al contrario ero stata punita per quel gesto. Qualcuno di superiore si stava prendendo gioco di me, lasciandomi -in un momento delicato come quello in cui mi trovavo- da sola.

Fu allora che decisi di prendere in mano il destino e di cambiare le cose. Se nessuno era disposto ad aiutarmi, me stessa si sarebbe aiutata da sola. Cercai il cellulare nella borsa enorme e iniziai a comporre un messaggio diretto a Miki. Sapevo bene che si trovasse con Castiel, e per evitare -l'altrimenti inevitabile possibilità che lei gli rivelasse la verità al posto mio- le scrissi..

-


MIKI

Il troppo silenzio nella stanza mi permise di udire la vibrazione del mio cellulare, situato sulla poltrona poco lontana dalla mia. Feci per alzarmi e prenderlo, ma Castiel anticipò le mosse sorprendendomi. Se non fosse per il dolore di testa penserei di star sognando. Il Castiel che conoscevo, non avrebbe mai compiuto quei gesti gentili.

Mi prese la borsa velocemente e me la porse. 
«Grazie» sussurrai sorridendo imbarazzata.

Quando finalmente ebbi il cellulare tra le mani, emisi un'espressione di sorpresa e Castiel se ne accorse.


DA ADELAIDE:

Ciao Miki non voglio disturbarti quindi sarò breve. Gentilmente non raccontare a Castiel quello che ci siamo dette qualche giorno fa. Ho deciso di farlo io appena rientrerete in Francia. Godetevi questi giorni e perdonami per averti tirato in mezzo a questa storia, non dovevo. UN BACIO


Ero contenta. Non per la disgrazia che stava accadendo ad Adelaide, ma perché finalmente si era decisa a voler ricucire i rapporti con il figlio. Ne fui subito convinta, quella sarebbe stata la svolta per metter da parte tutti i rancori accumulati negli anni.


A ADELAIDE:

Sono contentissima del coraggio della tua scelta. Per il resto non preoccuparti anzi, ti assicuro che non ti libererai facilmente di me. Io ci sarò anche se dirai di non volermi più vedere :P


«Il bambolotto di plastica, vero?» mi chiese, mostrando il telefono che ancora reggevo tra le mani, con espressione disgustata ed a braccia conserte, riferendosi a Ciak. In quel momento era ritornato magicamente il solito Castiel.

A quella sua battuta mi scappò una lieve risatina e decisi di dirgli la verità «No, è tua mamma».

L'espressione sorpresa sul suo volto mi fece concludere il discorso «Ci raccomanda di divertirci» lo informai con una mezza verità, facendo l'occhiolino. Quel mio atteggiamento avrebbe potuto confondere, non ci feci caso in quel momento, ma bastò Castiel per farmelo notare.

«Nah... sei troppo piatta, non mi divertirei più di tanto»

"Stronzo, coglione, cretino, deficiente!"

«Grazie, gentilissimo» risposi semplicemente, quasi offesa per non essere considerata attraente da lui. 

"Miki, stupida che non sei altro. Fagli vedere chi sei!" m'incitò la vocina interiore. 

In ritardo rispetto al mio finto ringraziamento di poco prima, alzai il dito medio nella sua direzione, accompagnato da una linguaccia. Perlomeno con quei gesti non passai per una che non sapeva rispondere a tono.

Finsi di non esserci rimasta male, ma in realtà aveva colpito più infondo di quanto io stessa immaginassi. Quei suoi sbalzi d'umore continuavo a non capirli e non potevo giustificarli. Erano bastati pochi istanti per farlo ritornare il Castiel di sempre, non che a me infastidisse, ma volevo sapere cosa diavolo ci fosse sotto. Era più lunatico del solito. Un minuto prima era premuroso, quello dopo menefreghista, come se non gli fregasse niente di me. 


***


Uno strano imbarazzo si era impossessato dell'aria che respiravamo. Era da ormai mezz'ora che girovagavamo per le strade di Roma senza alcuna meta. Grazie all'acqua mista allo zucchero avevo ripreso interamente le forze. Non avevo, però, ancora capito per quale motivo fossi svenuta. Forse avevo provato emozioni troppo forti, forse ero entrata in qualche strana specie di stato di shock dopo aver visto in casa mia Castiel e Debrah. D'altronde... Sfiderei chiunque a non restare di stucco davanti ad una scena di quelle. Il destino, anche quel giorno, mi aveva riservato grandi scherzi. Ero scappata da quell'albergo a causa della coppia che più odiavo e me li ero ritrovata nell'unico posto, sino a quel momento, ritenuto da me invalicabile. 

Dopo il mio incontro per metà hot ravvicinato con il rosso di quel pomeriggio e dopo esser giunta a conoscenza sulla presenza della sua ragazza in quella città, avevo deciso di recarmi nell'unico luogo che ritenevo sicuro da loro, ma soprattutto da lui.. 

Castiel

Era affianco a me ancora una volta, in quell'istante. Finivamo sempre per stare insieme; certo, non come ragazzo e ragazza ma era ugualmente come se una strana forza girasse intorno a noi legandoci indissolubilmente. Era tutto una specie di circolo vizioso. Sì, doveva essere quello per forza, perché prima ci allontanavamo promettendoci di non rivolgerci mai più la parola, ma dopo poco tempo con un avvenimento di qualsiasi tipo, finivo inevitabilmente per cadere nuovamente tra le sue braccia. Ma io? Avevo lo stesso effetto su di lui? Anche lui non poteva fare a meno della mia presenza? Chissà se sarei mai stata capace di dare una risposta ai miei interrogativi.

«Miki...» la sua voce magnetica mi distolse dai pensieri. Mi bloccai di colpo sul marciapiede e mi girai nella sua direzione per poterlo guardare dritto negli occhi. 

Eravamo l'uno difronte all'altro.

 «Dobbiamo parlare...» aggiunse con tono nuovamente preoccupato. Era lunatico, caspita se lo era!

Alle sue parole collegai subito le frasi sparse che avevo sentito mentre ero semi-cosciente. Sapendo su chi e su cosa sarebbe andato a parare il discorso, e per l'ansia che m'invase il corpo, non riposi. Mi limitai ad accennare un sorriso agitato ed a muovere il capo incitandolo a proseguire.

Chiuse gli occhi per una frazione di secondo e scompigliandosi i capelli per il nervosismo, iniziò il discorso «Debrah aveva le chiavi di casa tua, a questo ci eri arrivata, giusto?» Annuii e lui sospirò. 

«Bene, ecco... Lei... Cavolo! Che situazione del cazzo, io non sono bravo in queste cose», sbuffò stropicciandosi il viso con le mani. Mi trasmise ancora più tensione di quanta ne avessi già. 

«Suo padre sta con tua madre e vivono a Roma» cacciò fuori l'aria e l'ansia tutta d'un fiato, quasi sollevato di essersi tolto un peso. 

Mentre io...

Mi mancò il respiro per un secondo. Forse anche per più di un secondo. Il cuore perse alcuni battiti. Dovevo vomitare l'acqua e lo zucchero bevuti un'ora prima. 

Eppure avevo intuito qualcosa, no? Non ero ingenua o imbecille. Ma allora perché quella reazione? Allora perché in quel momento mi sentii ancora più orfana di prima? La donna che mi aveva messo al mondo si era rifatta una vita. Lei era felice. Lei aveva dimenticato le cose orribili che aveva fatto anche davanti a me. La mia vita era stata segnata per colpa sua, mentre lei se ne stava chissà dove, magari a sfornare figli... magari a giocare a "mamma e papà"

Perché ne ero convinta -se non era stata in grado di crescere me- non aveva di certo imparato, in pochi anni, a fare il genitore. Ma cosa potevo saperne io? Non sapevo neanche se avesse realmente avuto figli con quell'uomo, se avesse continuato a vivere per tutto il tempo nella mia stessa città, non sapevo nulla di nulla. 

Lei era un'estranea per me. L'evidenza di quell'aspetto mi fece tremare. Come può, una mamma, essere estranea dinanzi alla propria figlia?

E poi chi diavolo l'avrebbe mai detto? Debrah era ufficialmente la mia sorellastra. La persona più odiosa al mondo era addirittura in qualche modo legata a me. Non volevo crederci. Non potevo..

Debrah. 

Debrah che probabilmente conosceva molte più cose di quante ne avessi mai sapute io, di quella donna. Tutto divenne assurdo e ridicolo ai miei occhi. Io ero sua figlia, non lei. Io avevo il diritto di conoscerla nel profondo, non lei. Maledetta!

Ma, dopo esser stata abbandonata in quel modo, desideravo davvero conoscere tutta la verità su quella donna?

-


CASTIEL

Non ero riuscito a dirle tutta la verità. C'erano altre realtà che avrebbe dovuto sapere, eppure qualcosa mi bloccava dal rivelargliele. Non volevo soffrisse ancora una volta, ancora per sua madre. Volevo proteggerla, tutelarla dal male che sapevo si sarebbe intromesso da quel giorno in poi nella sua vita.

Avrei dovuto, inoltre, consolarla quando le si scurì il volto dopo la scoperta svelata dal sottoscritto, ma non ci riuscii. Ero bloccato da ogni dimostrazione di affetto. Persino una statua sarebbe stata in grado di mostrare più emozioni di me.

Eppure glielo dovevo... A lei che passava sopra ai miei difetti, a lei che per prima aveva visto del buono in me. A lei che la vita era stata sin troppo dura, che più di tutti avrebbe meritato di vedere il sole, di avere una speranza. Il cuore mi diceva "agisci", la mente mi diceva "fermo". Ed io da gran codardo seguii la mente.

Quando, vedendo la mia non-reazione, riprese a camminare velocemente l'avrei dovuta bloccare, avrei dovuto afferrarla e stringere tra le braccia. Ma non lo feci. Ero uno stronzo, un fottuto stronzo. Me ne rendevo conto.

Iniziai a seguirla mantenendo una specie di distanza di sicurezza. Sebbene non fossi riuscito fisicamente a starle accanto in un momento delicato come quello, non l'avrei lasciata fuggire da me, sentivo il bisogno di controllare ogni suo movimento. Sapevo di avere qualche problema legato alla personalità, che neanche uno strizza-cervelli mi avrebbe capito, ma non potevo farci niente. Quello ero io.

-


MIKI

Come se non fosse abbastanza già la novità scoperta poco prima sulla mia presunta madre, anche Castiel pensò bene di darmi altri problemi. Si comportò da stronzo, come d'altronde era sempre stato. Con freddezza, aveva sganciato quella che, per me, era stata una bomba ad orologeria e non si era degnato neanche di dire un semplice "mi dispiace". Ma chi voleva prendere in giro? Dovevo immaginarlo sin da quando avevo aperto gli occhi che la sua quasi dolcezza non era destinata a durare a lungo. Quando però poi avevo ripreso a camminare velocemente per cercare di separare le nostre strade, mi stava alle calcagna.

"Qual era il senso del suo comportamento? Dannato bipolare del cazzo!"

Dopo aver proseguito per un paio di metri «Voglio restare sola» bloccai nervosa la mia camminata emettendo la mia richiesta con tono fermo, senza far trapelare alcuna emozione. Non mi voltai nella sua direzione. Non sopportavo più quel suo carattere discordante. Avevo altro a cui pensare invece che ai suoi continui cambi d'umore.

Non si degnò neanche di rispondere. Eppure lo sentivo, percepivo la sua presenza, quella l'avrei percepita anche in mezzo a mille uomini. Era inevitabile per me riconoscerlo. Nonostante il suo silenzio non mi voltai, non volevo dargli nessuna soddisfazione. Avevo altri problemi, dei fatti che, finalmente, venivano prima di lui. Gli avevo dato per troppo tempo la priorità senza che la meritasse. 

I passanti continuavano a fissarci, ovviamente. Roma, come tutta l'Italia d'altronde, era sempre stato un posto dove nessuno sapeva farsi gli affaracci propri. Già a poche ore dal mio ritorno sentivo la differenza con la Francia. Quella città non aveva mai fatto per me e per i miei troppi segreti.

Poi delle braccia mi distolsero dai miei futili pensieri. E strano a dirsi, visto i precedenti comportamenti, ma erano le sue. Le sue mani si erano poggiate sulle mie spalle. Con il minimo di forza richiesta e necessaria mi voltò, io lo lasciai fare come la stupida ed incoerente che ero, ovviamente.

Castiel Black mi abbracciò. 

Senza proferire parola e con un semplice gesto aveva avuto la capacità di farmi cambiare umore in un battito di ciglia. Ero incredula. Poggiai le mani sul suo petto e strinsi il tessuto rosso della sua maglietta. Percepivo il bisogno di aggrapparmi a qualcosa, volevo sentirmi al sicuro e con lui risultò sin troppo facile, di una facilità da far paura. La giacca nera di pelle essendo aperta apparì ancora più grande e funse da scudo al mio corpo. Senza volerlo, dal mio volto, scese la prima lacrima alla quale ne susseguirono tante altre e mi abbandonai ad un pianto liberatorio. 

Sentire il nome di quella donna dopo tanto tempo mi aveva provocato una sensazione strana, quasi di mancanza mista ad odio. Sì, perché nonostante il male che mi aveva cagionato, restava pur sempre la mia mamma. In un certo verso quei miei pensieri mi sembrarono assurdi. Mi sentivo come se fossi divisa a metà, una parte voleva ancora bene alla donna che mi aveva creata, l'altra parte l'odiava per il male che mi aveva fomentato.

Quando poi la mano grande e calda di Castiel si poggiò sui miei capelli incominciando a carezzarli, ritornai alla realtà. Alzai il volto e lo guardai negli occhi. Era bellissimo. I suoi occhi grigi emanavano talmente tanta sicurezza che bastò per entrambi. Mi calmai all'istante.

«M...mi dispiace» sussurrai con un filo di voce abbassando nuovamente il volto. Non mi capacitavo di quello che stava accadendo. Anche se lui non aveva aperto bocca, improvvisamente mi bastava. Perché quel suo abbraccio rappresentava molto di più. Non importava se ci avesse messo più del dovuto a dimostrare la sua vicinanza, l'aveva fatto ed era quello che contava. All'improvviso, con quell'abbraccio tutto il male che ci eravamo fatti fino a quel momento, scivolò nella parte più remota dei pensieri. 

Castiel era quello, e a me piaceva. Castiel aveva uno strano modo di mostrare l'emozioni, e a me faceva impazzire in tutti i sensi. Castiel era il ragazzo più strano e testardo del mondo ed io da masochista com'ero, ero disposta a farmi del male ancora e ancora.

Sarei rimasta in quella posizione per l'eternità, ma come tutte le cose belle, anche quel momento era destinato a finire. 

Tornammo in hotel subito dopo aver staccato quell'abbraccio. Non c'era stato un motivo, semplicemente stava iniziando ad essere sin troppo duraturo e sospetto. Neanche nella stanza d'albergo, nel nostro quasi momento d'intimità, era stato così intenso come invece era accaduto in quell'abbraccio. C'erano parole non dette, emozioni forti, in quel gesto all'apparenza banale. Così, quasi in sincrono, avevamo deciso di staccarci. Non erano servite parole o gesti strani, ma solo sguardi. Ci capivamo sin troppo bene ormai.

Quando i nostri corpi si erano staccati da quell'abbraccio disperato, si creò una sorta d'imbarazzo tra noi. Castiel fu quello che s'incamminò per primo lungo il viaggio del ritorno. Io lo seguii dopo qualche secondo, cercando di raggiungerlo per camminare vicini, almeno.

Ci riuscii ma lo trovai con quell'espressione fredda e imbronciata tipica dell'essere di Castiel. Avevo il volto sconvolto, ne fui sicura, per quel motivo camminai con lo sguardo rivolto verso il basso. Le mie scarpe erano diventate l'oggetto più interessante esistente al mondo.

Quando, però, mi accorsi che i passanti non ci stavano fissando più attentamente come pochi minuti prima, ne approfittai per guardarmi intorno. Alzai il volto. Roma era come l'avevo lasciata. Bellissima ed affascinante, ma troppo poco curata. La mia ex casa si trovava nella zona del Colosseo; in quel periodo era una zona poco frequentata di sera visto che il Colosseo era in fase di ristrutturazione. Ormai era quasi notte, i lampioni accesi emettevano una luce bianca rendendo la città antica ancora più affascinante. Sebbene fossi passata da lì migliaia di volte, rifarlo a distanza di mesi mi provocò sensazioni strane. Amavo Roma, la città non gli abitanti, nonostante i dolori, non potevo farci nulla.

Arrivammo alla fermata più vicina giusto in tempo e salimmo sull'autobus già in partenza. 

Volontariamente evitai di pensare a quella donna, Teresa, per tutto il resto della serata. Non era degna di avere accanto al suo nome, l'appellativo di mamma, non lo meritava. Sapevo bene di quanto i miei pensieri fossero in contrasto tra loro e contorti, nel giro di poche ore avevo cambiato continuamente opinione, ma non riuscivo a provare sentimenti diversi. 

 

***


Io e Castiel rientrammo in hotel giusto in tempo per la cena. Stefania ce ne fu grata non appena, bussando alla porta della nostra camera, ci trovò. Forse con quel gesto avevamo guadagnato un po' di punti della sua fiducia visto che avevamo il coprifuoco a mezzanotte ma eravamo rientrati molte ore prima. C'incamminammo per scendere insieme nella sala del ristorante e lei era ancora più buffa del pomeriggio. Aveva cambiato i suoi vestiti ed io non seppi giudicare quale dei due outfit fosse il meno peggio, ma perlomeno grazie ai pantaloni le s'intravedeva qualche forma femminile. Indossava un pantalone bianco con stampa floreale a zampa di elefante ed una camicia con margherite bianche. Gli stivali beige sembravano appartenere ad un cowboy. Dalla zampa gigante del pantalone spuntavano persino delle frange. Mentre percorrevamo il corridoio che ci avrebbe portato alle scale, la fissai sbalordita per qualche secondo, prima di esser disturbata dal solito cafone:

«Per l'occasione, il Festival di Sanremo sembra essersi trasferito a Roma. Stefania Lamberto, ma come ti vesti?!?» Castiel, con quella battuta e con la voce maggiormente acuta sul finale, aveva richiamato un noto programma televisivo parlando un italiano perfetto. Avevo trascurato per tutto il tempo l'ennesima qualità del rosso e per la sorpresa momentanea restai letteralmente a bocca aperta. Forse la battuta era di pessimo gusto, forse non faceva poi così tanto ridere, ma io iniziai a farlo. Risi una di quelle risate che non si dimenticavano facilmente. E ringraziai mentalmente Castiel per avermi trasmesso ancora una volta il buon umore. Per aver riportato il sole in quella giornata buia.

Poi un flash. E gli chiesi: «A proposito, ma tu come mai parli l'italiano?» mi voltai di scatto nella sua direzione, attendendo con curiosità la risposta.

«Signor Black io non credo si divertirebbe ancora così tanto se -come punizione per la sua insolenza- dovesse passare l'intera settimana di vacanza a lavare piatti nella cucina dell'hotel. Sarebbe un vero peccato!» c'interruppe la signorina Stefania, fingendosi dispiaciuta, senza voltarsi e continuando a camminare. Lo stava letteralmente minacciando. Fino a quel momento stavamo percorrendo il corridoio uno dietro l'altro.

Approfittando della situazione e sapendo che Stefania non l'avrebbe visto, Castiel fece dapprima una smorfia nella sua direzione e dopo, come se non bastasse, sollevò il dito più lungo della mano ed iniziò a sventolarlo in senso circolare. Gustandomi la scena, trattenni una risata tappandomi la bocca con la mano, ma feci ugualmente rumore. Nel corridoio il suono si triplicò ed anche Stefania si fermò di scatto voltandosi.

«Signorina Rossi, la stessa cosa vale per lei. Continuate con quest'atteggiamento offensivo nei miei confronti ed entrambi vi ritroverete a fare da lava-piatti!» il sorriso mi scomparve. Non per la minaccia, ma più che altro per la scena. Subito immaginai un Castiel sexy con indosso un grembiule da cucina. Un senso di calore mi percorse tutto il corpo al sol pensiero.

«Oh... ma hai proprio la memoria corta tu eh?!?» Castiel ignorò Stefania, rivolgendosi a me, rispondendo alla mia domanda. In realtà quella non era una risposta, non mi aveva detto nulla.

«Ma cosa ti costerebbe rispondermi, senza troppi giri di parole e senza lamentarti, per una volta?» sbuffai fintamente nervosa.

Stefania assistette alla scena, incredula. Nessuno le dava la considerazione che meritava, quasi mi dispiacque. Ma ero troppo impegnata con Mr. Brontolone per darle retta.

«Ho amici e qualche parente qui a Roma. Nulla che ti possa interessare, ficcanaso!» mi rispose voltandosi e premendo l'indice sul mio naso. Per poco non svenni sulla moquette di quel posto. Non era cosa di tutti i giorni avere a che fare con un Castiel sereno e divertente. Intanto Stefania ormai senza speranze aveva ripreso a camminare.

«Sul serio... Ti hanno mai paragonato a Brontolo il nano di Biancaneve? Tranne che per l'altezza, gli somigli.» feci la linguaccia e lo superai riprendendo a camminare. Quella stava per divenire di diritto la conversazione più demente che avessi mai avuto. Perlomeno, con quella domanda, incrementai le possibilità.

«Biancaneve sotto i nani? Sono stato paragonato al nano che sta sopra di lei» mi raggiunse iniziando a camminarmi affianco. Dopo la battuta gli spuntò quel sorriso furbo. Cazzo. Rischiai di svenire, di nuovo. Nonostante la sua volgarità, mi piaceva. Troppo.

Solo con un gesto delle mani, lo mandai letteralmente a quel paese per scherzo. Ignorai il suo sarcasmo e, per non dargli soddisfazione di avermi vista ridere ancora alle sue battute, lo superai andando dritta verso il ristorante.

Gli ascensori non erano in funzione e ci toccò scendere fino al primo piano a piedi. Ci si presentò davanti un enorme sala. Il ristorante era aperto al pubblico, non solo ai clienti dell'hotel. Pensai subito che si dovesse mangiare parecchio bene visto l'elevato numero di persone presenti in sala. Come nella hall, anche quest'ambiente era caratterizzato da vetrate decorate da bellissimi fiori variopinti. Ogni tavola era quadrata, apparecchiata con una lunghissima tovaglia bianca ed i tovaglioli di stoffa blu coordinati al tessuto delle sedie; al centro si presentava un vaso trasparente che conteneva tre rose blu finte. Per finire cinque faretti posti al soffitto, in corrispondenza di ogni tavolo illuminavano benissimo la zona. In poche parole quell'arredamento non aveva nulla a che vedere con l'anonimo palazzo che si presentava all'esterno. Sembravano quasi due posti diversi. 

Quando la signorina Lamberto ci vide arrivare fece cenno con la mano di avvicinarci a lei che si era già seduta ad un tavolo apparecchiato per tre. Ci accomodammo mentre uno strano silenzio faceva da padrone. Sia io che Castiel non avevamo avuto il tempo di cambiarci ed eravamo vestiti con gli stessi abiti del pomeriggio. Strano a pensarsi, ma in pochissime ore erano successe tante cose. E non provai neanche ad immaginare quello che sarebbe accaduto nei cinque giorni di vacanza rimanenti.

«Per i clienti dell'hotel c'è sempre il menù fisso e per questa cena ci saranno due piatti: bucatini all'amatriciana e cotoletta con contorno di patate al forno», c'informò Stefania con la solita aria distaccata. Se poco prima pareva essersi calmata, dopo l'atteggiamento derisorio di Castiel aveva ripreso a trattenersi dall'esternare qualsiasi tipo di emozione nei nostri confronti.

Castiel stranamente non spiccicò più parola, neanche una battuta infelice, sembrava avesse qualche problema improvviso. Pestava, continuamente e nervosamente, i piedi sul pavimento e solo con quel gesto riuscì ad innervosire anche me. Mr. lunatico era tornato tra noi. Gli orli della tovaglia continuavano a muoversi insieme alle sue gambe provocandomi dei lievi fastidi sulle cosce. Cominciai a sbuffare rumorosamente ma lui sembrava non accorgersene, o forse faceva finta. E giusto per incrementare l'irritamento iniziò anche a picchiettare con le dita sul tavolo. Per non urlare istericamente allontanai la sedia dalla tovaglia evitando così che quest'ultima mi toccasse provocandomi fastidi, e provai a non guardarlo. Dovevo, potevo farcela per una volta.

Eppure prima di entrare nella sala del ristorante l'avevo sentito fare battute ed era abbastanza spensierato. Avrei dovuto suggerirgli un bravo psicologo.

-


CASTIEL

Quella sottospecie di -ancora più- brutta versione di Ugly Betty stava blaterando qualche insulsa frase, ma io non l'ascoltai. Avevo ben altro da pensare.

In quella sala colma di persone avevo intravisto l'ultima persona che avrei voluto incontrare. Non seppi bene se fu una sottospecie di scherzo del destino o se semplicemente era stato tutto architettato dalla mia ormai ex ragazza, ma lì in quel fottuto ristorante c'era il fottuto padre di Debrah e non era solo. Quel poco di cervello che mi era rimasto subito collegò tutte le informazioni che aveva ricevuto ed arrivò ad una conclusione, la più amara.

Perché lì con quell'uomo c'era lei. La riconobbi dai capelli. Grazie ad una foto ed alle informazioni recepite dal diario segreto di Miki, avevo imparato a memoria anche i volti che non avevo mai visto e che non avrei mai sognato d'incontrare. A quanto parve non era cambiata molto, aveva lo stesso colore di capelli di otto anni prima, sicuramente tinti. Forse non me ne sarebbe dovuto fregare, forse la mia reazione fu esagerata, ma quella situazione mi rese parecchio irrequieto. Ormai, conoscendo tutta o gran parte della storia, anch'io mi sentivo chiamato in causa. Ed era più forte di me. Odiavo quella donna ancor prima di conoscerla realmente.

Quasi stentai a crederci di aver materializzato davanti agli occhi colei che aveva reso la vita di Miki un inferno. Fu come veder diventare reale l'antagonista dei libri, quel cattivo a cui vorresti dar fuoco tanto dalla rabbia che ti provoca. Per me fu la stessa cosa. Mi sentii protagonista di un incubo divenuto realtà. Teresa era lì, a pochi metri di distanza da una figlia che non aveva più voluto avere "tra i piedi". Una figlia che aveva tenuto a distanza volutamente. Perché lei tutto quel tempo era stata nella stessa città della figlia. Non aveva mai lasciato Roma, e se lo aveva fatto era stato solo per qualche mese. Per Teresa, Miki era stata un giocattolo; uno di quei giocattoli non troppo preziosi, che i bambini utilizzano solo per qualche mese e poi gettano via, nel dimenticatoio. E lei aveva fatto così; aveva giocato con lei "a mamma e figlia" e appena se n'era stancata, l'aveva gettata e dimenticata... Che mamma di merda! Un po' come la mia.

-

Sebbene non fossi particolarmente credente in Dio, pregai fino all'ultimo momento che Miki non si voltasse nella sua direzione. Ma ovviamente nulla poteva andare per il verso giusto. Perché tutto doveva essere complicato e sbagliato. 

Miki la vide, si voltò verso di lei sgranando gli occhi, trattenendo il respiro, e facendo di quel viaggio a Roma uno strano scherzo del destino. 

Quella città era una rovina per lei.

  
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