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Autore: ilcircozen    29/02/2016    2 recensioni
Sofia e Serena sono un'accoppiata un po' improbabile: la prima, razionale ed estremamente pratica, la seconda, perennemente allegra e con la testa tra le nuvole, di certo non sono le amiche più comuni al mondo. La loro decisione di trasferirsi a Bologna per frequentare l'università porterà loro un sacco di novità: una nuova città, nuovi studi, nuove abitudini, ma soprattutto due nuovi coinquilini, Lorenzo ed Amedeo, che fin da subito daranno alle due amiche non pochi grattacapi. Con una serie di avventure improbabili, Sofia e Serena si ritroveranno sballottate nella loro nuova vita, tra amori, delusioni, paure, ma soprattutto un sacco di guai. Leggete per scoprire se se la caveranno!
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 4
AVE MARIA
Ovvero gli innumerevoli sistemi esistenti per combattere l’ansia e la relativa capacità che hanno alcuni di scegliere sempre e comunque il peggiore
 
(Serena)
Ero abituata ad essere sempre la prima ad alzarmi al mattino, ma quando, il lunedì del nostro primo giorno da universitarie, mi svegliai allo scoccare delle cinque e mezza, con il consono sorriso già pronto sulle labbra, mi sorpresi parecchio nel trovare Sofia già in piedi, seduta al tavolo della cucina, in penombra, con davanti a sé un posacenere già pieno a metà.
«Sofia, che ci fai già sveglia?», domandai, sbigottita.
«Esattamente lo stesso che ci fai tu», ringhiò in tutta risposta, tirando una boccata lunghissima dalla sigaretta. Decisi di non insistere. Sospettavo che ce l’avesse con me dal giorno prima, quando, proprio mentre lei era nel bel mezzo dei postumi di una sbornia colossale, avevano fatto capolino in casa una dozzina di ragazzi vestiti in rosso con falce e martello ricamata sui colletti, per congratularsi con me per la mia adesione al partito comunista, cercare di convincere ogni singolo presente in casa ad iscriversi a sua volta ed avvertirmi dell’imminente ritiro annuale a Santa Clara. A me erano sembrati innocui ed anche piuttosto divertenti, ma Sofia aveva totalmente dato di matto, cominciando ad urlare e cacciandoli di casa brandendo una scopa, con grande approvazione del suo paladino Lorenzo. Poi, sempre urlando, mi aveva dato della “folle sconsiderata incosciente” per essere entrata in politica in condizioni di totale ubriachezza ed infine aveva aggiunto che se solo avessi provato ad andarmene a Cuba mi avrebbe tolto il saluto per sempre, non prima di avermi ammazzata a martellate. Non mi aveva più parlato da quel momento, cosa che mi faceva dedurre che probabilmente serbava ancora un filino di rancore.
Iniziai a preparare il caffè in silenzio, aspettando pazientemente. Conoscevo Sofia, e sapevo perfettamente che quando era angosciata non c’erano musi che tenessero: doveva per forza parlarne con qualcuno. La sentivo già sbuffare alle mie spalle, impaziente di esplodere ma troppo orgogliosa per farlo senza prima lasciarmi attendere il giusto.
«Serena, come fai a non essere agitata?! Io mi sto letteralmente mangiando le mani!», gridò infine, totalmente dimentica dei nostri coinquilini addormentati.
«Sofia, te l’ho già detto, devi stare tranquilla. Andrà tutto benissimo e ti accorgerai di aver preso la decisione giusta. Non hai motivo di essere così agitata!», le ripetei per l’ennesima volta.
«Non sarà il tuo continuo ripetermi di non agitarmi che mi farà sentire meglio! Anzi! Peggiori solo la situazione! E non dimentichiamo che in fatto di decisioni tu sei l’ultima ad avere diritto di parola!»
«Ammettilo, ce l’hai ancora con me per l’episodio di ieri!»
«Certo che ce l’ho con te! Ma ti sembra normale vedersi la casa invasa dai comunisti alle tre del pomeriggio?! E per la cronaca, tu a Santa Clara non ci vai!»
«Ma certo che ci vado! Ho già dato l’adesione!»
«Non ci provare nemmeno!»
«Guarda che non sei mica mia madre!»
«Chiudi il becc…»
«Buongiorno ragazze!»
Sobbalzammo entrambe, io rovesciandomi sulla mano metà del caffè bollente, Sofia trattenendo a malapena uno strillo. Amedeo aveva fatto capolino sulla porta della cucina con il suo pigiama a pappagalli (Amedeo aveva un’alquanto affascinante passione per i pigiami) ed un sorriso ingenuamente gaio stampato in faccia. Apprezzavo parecchio come quel ragazzo sembrasse vivere perennemente in un universo tutto suo a circa tre metri dalla terra. Lorenzo una volta mi aveva detto che ero esattamente la sua versione femminile. Lo classificai come il primo complimento che mi avesse mai fatto.
«Amedeo, che ci fai in piedi a quest’ora?», chiese Sofia, stizzita per essere stata interrotta nel bel mezzo di una sgridata. Amedeo, dal canto suo, non sembrò minimamente accorgersi del suo fastidio e non perse il buonumore.
«Vi ho sentite parlare, allora ho pensato di uscire a fare colazione con voi, perché devo dire una cosa a Serena.»
Rivolse lo sguardo su di me ed io gli feci un sorriso incoraggiante. Mi dispiaceva che già di prima mattina fosse stato così impunemente bistrattato, anche se non aveva dato nessun segno di essersene accorto.
«Ieri tuo fratello, quando è partito, ha lasciato una cosa sotto il divano ed io l’ho trovata. Volevo mandargliela per posta ma non ho il suo indirizzo, e poi non ho ben capito di che si tratta, quindi ho pensato che forse è meglio darla a te…»
Detto questo si tirò fuori dalla tasca una bustina in plastica ermetica, piena fino all’orlo di foglioline verdi essiccate, che emanavano un odore talmente forte che sospettai che addirittura i vicini potessero sentirlo. Ci fu un istante in cui calò un silenzio tombale. Io ero pietrificata. Sofia era pietrificata. Amedeo… beh, Amedeo continuava ad agitare il suo ritrovamento, con l’aria di chi non ha la più pallida idea di cosa sta succedendo.
«Ma tu cosa diamine hai nel cervello?!?»
Fu Sofia a rompere il silenzio, balzando verso Amedeo e strappandogli con ferocia di mano l’oggetto incriminante (letteralmente parlando), per poi infilarselo precipitosamente in tasca.
«Per posta! Voleva mandarglielo per posta! Che Dio ce ne scampi! Serena, non credevo che avrei mai pronunciato queste parole, ma sappi che al mondo esiste una persona più folgorata di te!»
«Che cos’ho fatto?», chiese Amedeo, perplesso da tanta cattiveria che in realtà era del tutto giustificata. Cercai di essere gentile ed allo stesso tempo di non sconvolgerlo troppo.
«Ehm… vedi, Amedeo, non so bene come spiegartelo, ma devi sapere che in quel sacchettino c’è della… insomma, quella cosa che si fuma nelle cartine lunghe, che fa ridere ininterrottamente per quattro ore di fila e mangiare come uomini delle caverne che non vedono cibo da settimane. Ecco. Quello.»
«Mi stai dicendo che quella è DROGA?!», strillò Amedeo, sgranando gli occhi. In un battibaleno, Sofia gli si avventò addosso, tappandogli la bocca con entrambe le mani e nel frattempo riempiendolo di calci sugli stinchi.
«Ma perché non lo urliamo un po’ più forte allora?! Non sono sicura che in Messico ti abbiano sentito bene!»
Non riuscii a trattenermi dallo scoppiare a ridere, nascondendomi la faccia tra le mani nel tentativo di passare inosservata. Non servì a nulla: sentendomi, Sofia si ricordò che originariamente ero io quella con cui era furibonda, così si girò e cominciò a prendere a calci me, ed anche piuttosto forte.
«Ehi! Mi stai facendo male!»
«E’ tutta colpa tua! Pensavo che tuo fratello avesse superato la fase spaccio, ed invece mi ritrovo con una partitina d’erba dimenticata sotto il divano! Pensa se l’avesse trovata qualcun altro! O peggio, pensa se quest’imbecille avesse avuto l’indirizzo di Massimo! Lo troveresti divertente allora?! Divertente quanto un assalto comunista?! Eh, lo troveresti divertente?!»
Non la smetteva un attimo di dimenarsi e di mollare pedate. Il mix tra angoscia preuniversitaria, la sbronza di due giorni prima e questo episodio di eclatante stupidità da parte di Amedeo doveva essere stato un colpo fatale, per lei. Fu proprio pensando a questo che un’idea cominciò a farsi strada nella mia mente.
«Ferma! Ferma! Fermi tutti! Ragazzi… ho avuto un’idea.»
Amedeo mi guardo incuriosito e Sofia, grazie al cielo, fece una pausa dalla sua crisi di violenza isterica.
«Che cosa? La buttiamo nei bidoni comuni e diamo la colpa allo psicopatico con la gamba di legno che vive al pianterreno?»
«Meglio ancora: la fumiamo noi. Adesso.»
Per la seconda volta ci fu un attimo di silenzio tombale.
«Che cosa?!», esclamarono poi all’unisono i miei baldi compari, destando altri grugniti dalla camera del bell’addormentato Lorenzo. Prima che potessero replicare, mi affrettai ad esporre i punti a mio favore.
«Pensateci, ragazzi! E’ il nostro primo giorno di università e c’è chi è un po’ agitato – no Sofia, non mi sto riferendo precisamente a te, tranquilla –, e cosa, più di uno spinello, potrebbe aiutarci a smaltire la tensione? So che non è il metodo più politically correct in assoluto, ma dai, che volete che sia? Per una volta? Una sola e basta?»
Conclusi la mia epopea con un sorriso gigantesco ed un infinito sbattimento di ciglia, nella speranza che bastasse. La verità è che lì per lì pensavo davvero che fosse un’idea brillante, per non dire la migliore. Probabilmente era vero che, come non faceva che ripetermi Sofia, avevo un senso di responsabilità del tutto inesistente.
«Serena, ma sei matta?! E’ il nostro primo giorno di università, dannazione, e tu vuoi che ci andiamo da strafatti? Tu devi esserti bevuta il cervello!», sibilò Sofia, puntandomi addosso uno dei suoi indici ossuti come quelli di una vecchia.
«Ma io non ho mai fumato! E poi, ragazze, sapete che credo sia illegale?», borbottò il povero Amedeo, confuso come non mai.
«Potrebbe farmi chissà quale effetto, non faccio niente del genere da tantissimo!»
«E’ il giorno sbagliato per comportarsi in modo strano…»
«E’ un’idea pessima, ecco cos’è!»
«Dobbiamo assolutamente sbarazzarcene.»
«E’ fuori discussione che la usiamo. No, no e no. Mai e poi mai. Mi hai sentita, Serena? Ho detto mai.»

Quando Lorenzo entrò in cucina erano ormai le otto ed io, Sofia ed Amedeo eravamo semisdraiati sul tavolo, con davanti a noi i resti di tutto il cibo che avevamo trovato in casa. Cercai di darmi un contegno e quasi mi ribaltai dalla sedia, causando un attacco di ridarella isterica da parte di Sofia. Avrei tanto voluto che Amedeo la smettesse di cantare l’Ave Maria, canzone decisamente tanto poco appropriata quanto poco implicita in quel momento.
Lorenzo ci guardò aggrottando un sopracciglio, a metà tra il disgustato ed il perplesso.
«Che state combinando, voi tre?»
«Colazione», risposi, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Lui scoccò un’occhiata al tavolo.
«Con il polpettone di ieri sera? E le bacche del cespuglio del terrazzo dei dirimpettai?»
Sofia mi salvò dall’incombenza di dare una risposta che non sarei mai stata in grado di giustificare, saltando in piedi ed inchinandosi davanti a Lorenzo senza nessuna ragione al mondo.
«Buongioooorno Lorenzo», cantilenò, con voce strascicata. «Questa mattina sei bellissimo, un vero principe, arrivato direttamente dal Medioevo cavalcando un bianco destriero.»
Finito il monologo si sedette di nuovo, improvvisamente attratta dalle briciole di torta che erano rimaste sul tavolo, delle quali si dedicò ad un’attenta e minuziosa ispezione. Lorenzo si guardò attorno con la stessa espressione di chi è inaspettatamente capitato in un manicomio e viene attaccato con delle lamette da un’orda di psicopatici.
«Ma che avete voi due? Non avete il primo giorno di corsi oggi? E perché quello lì non la smette di cantare le canzoni della messa? Mi vuoi spiegare che sta succedendo in questa casa?»
A quel punto capii che era giunto il momento di dare una spiegazione intelligente, chiara, sagace, di dire il genere di frase che, dopo averla ascoltata, si vive un momento di estasi emotiva di fronte a cotanta perfezione. Animata dalle migliori intenzioni, presi un lungo sospiro e dissi:
«Non mangiare mai nulla che sia più grande della tua testa.»

Uscimmo di casa sfrecciando in sella alle nostre biciclette (Sofia, in quanto maniaca dell’ecologia, aveva insistito perchè ci muovessimo con quelle), con i libri nelle borse che ancora profumavano di carta appena stampata e l’adrenalina a mille. La giornata era bellissima, la più soleggiata e splendente degli ultimi dieci anni. Se fosse davvero così o fossi io ad idealizzarla nel mio cervello totalmente inebriato, non mi è dato saperlo. Io e Sofia pedalavamo fianco a fianco, sfidandoci in velocità e facendo slalom tra i risentiti pedoni sui marciapiedi. Arrivammo davanti all’università in quello che sembrò un minuto e, arrivate al momento di separarci, ci scambiammo un lunghissimo abbraccio, senza smettere un secondo di sghignazzare.
«Buona giornata, psicologa!»
«Buona giornata, professoressa!»
Ridemmo come se fossero le battute più spiritose del mondo e poi ci separammo, dirette ognuna alla propria facoltà. Rimasta sola, mi resi conto di un dettaglio che fino a quel momento avevo del tutto trascurato: non avevo la più pallida idea di dove fosse la mia aula. Iniziai a girare a vuoto per i corridoi, che pullulavano di studenti che correvano da ogni parte, tutti più affaccendati che mai. Il mio cervello, ora che non avevo nessuno con cui interagire, stava trasmettendo un incontrollato film mentale in cui tutte le persone attorno a me erano formiche ed io un gigantesco ed impacciato calabrone che si era spezzato un’ala proprio davanti al loro formicaio. Le formiche venivano verso di me, mi fissavano coi loro occhietti assetati di sangue, sfregavano le zampette tra di loro e…
«Signorina Serena, che piacere incontrarti qui!»
Feci un salto di circa tre metri, convinta che la Formica Regina mi avesse appena trovata e fosse sul punto di divorarmi. Quando mi voltai, però, non mi imbattei in nessuna gigantesca formica, bensì nel mio capo, il mio bellissimo, irresistibile capo dai ricci scuri e gli occhi dello stesso verde delle foglioline appena germogliate, che mi guardava con il solito sorrisetto sarcastico. Ero strafatta al mio primo giorno di università e, giusto per dimostrare che al peggio non c’è mai fine, incontravo pure il mio capo. Un classico. Grazie, karma.
«Oh, ehm, buonasera, cioè, volevo dire, buongiorno Formi… scusi, cioè, scusa, insomma, buongiorno… capo.»
Continuava a sorridere, come se mi trovasse incredibilmente divertente. Oppure incredibilmente stupida.
«Puoi chiamarmi Davide, se vuoi. Te l’ho già detto.»
«Oh, si, beh, sai, in realtà preferisco capo, è una parola così altisonante, dà un’aria autoritaria, importante, professionale…»
Dovevo assolutamente smettere di farfugliare, così decisi di dire la prima cosa che mi venne in mente.
«Sai per caso dov’è l’aula 118 del professor Menegatti?»
«Si», rispose, con una nota di sorpresa nella voce. «Siamo in ottimi rapporti, io e Vittorio Menegatti. Tengo molte conferenze per lui, una anche questo venerdì. Ero un suo alunno. Non sapevo frequentassi il suo corso, mi fa molto piacere saperlo. Vieni, ti accompagno.»
Detto questo mi prese per un braccio (mi prese per un braccio!) e mi fece strada lungo i corridoi labirintici dell’edificio, sfrecciando tra gli insetti, volevo dire gli studenti, senza la benché minima esitazione.
«Conosci bene il posto», dissi, disposta a farmi coinvolgere in qualunque tipo di conversazione noiosa pur di togliermi dalla testa l’ immagine di me stessa in veste di calabrone sodomizzato dall’avvenente regina delle formiche.
«Ho studiato qui, sono stati i cinque anni migliori della mia vita», rispose lui, evidentemente compiaciuto dalla domanda. «Beh, eccoci, siamo arrivati.»
L’aula 118 era davanti ai miei occhi. Lo ringraziai, cercando di evitare che mi guardasse negli occhi e notasse in che condizioni ero realmente.
«Beh, allora buona lezione, Serena. Ci vediamo venerdì alla conferenza.» Mi sorrise. «Sai, di solito prima di venire all’università mi fermo a fare colazione al bar 1984, proprio qui davanti. Anche questa volta credo che farò così. Sarò lì dalle otto alle nove… giusto perché tu lo sappia.»
Mi rivolse un vago sorriso, mi battè una mano sulla spalla e se ne andò, lasciandomi davanti alla classe in preda alla più totale estasi. Mi sembrò di entrare dalla porta volando.

Io e Serena avevamo appuntamento a pranzo in un bar di Piazza Maggiore, per uno scambio di opinioni sul nostro ingresso nella vita da adulte. Quando arrivai lei era già lì, con l’espressione più beata che mai ed una sigaretta tra l’indice e il medio, che si portava alle labbra non nel solito modo morboso, bensì con una tranquillità incredibile. Mi sedetti, elettrizzata al pensiero di raccontarle la mia giornata, di sentire la sua, di passare del tempo con la migliore amica che avevo al mondo.
«E allora», chiesi, accomodandomi. «Com’è stato?»
Mi sorrise.
«Sai cosa? E’ andata bene. E’ stato meraviglioso. Sembra esattamente ciò che ho sempre desiderato.»
Sorrisi a mia volta, e lei sospirò.
«Scusami se ti ho stressata in questi giorni. Sarai stata preoccupata anche tu, ma io ero troppo occupata a pensare a me stessa.»
Sollevai le spalle.
«Non fa niente.»
«E grazie per oggi. E’ vero, non sarà stato il metodo più ortodosso di sempre, ma mi ha davvero aiutata. E si, Serena, è stato geniale, ma sappi che lo ammetto soltanto perché sono ancora un po’ fatta.»
Ridemmo assieme nel caldo sole del mezzogiorno bolognese. Quella risata era il suono dei sogni che, piano piano, iniziavano a prendere forma.

Quella sera, a casa, mentre Lorenzo e Sofia preparavano romanticamente la cena assieme, mi chiusi nella mia stanza e telefonai a Massimo.
«Sorellina! Mi manchi già! Abitare a Castel Maggiore è una fregatura!»
«Non disperare, ci vedremo sicuramente nei prossimi giorni! E, Massimo, a proposito…»
«Sì?»
«Grazie per il regalino sotto al divano. Deliziosa. E non provare a fingere di non averlo fatto apposta, ti conosco troppo bene.»
Dall’altro capo del telefono arrivò la calda risata di mio fratello. Sentii una fitta di nostalgia. Era strano, non averlo più accanto tutti i giorni. Era tutto molto più difficile. Stavo per dirglielo, ma venni distratta da una serie di urla provenienti dalla cucina.
«Razza di deficiente! Idiota! Troglodita! Io con te non voglio avere più nulla a che fare! Tu vai a vivere sotto ad un ponte!»
Salutai frettolosamente Massimo e mi precipitai in cucina, dove Lorenzo, paonazzo, sbatacchiava il mestolo ovunque mentre Sofia cercava di calmarlo.
«Che sta succedendo qui?»
«Giudica tu stessa!», tuonò Lorenzo, indicando con il mestolo qualcosa alle mie spalle.
Mi voltai. Sulla porta c’era Amedeo, con dipinta in viso l’espressione di chi è colpevole e si è appena reso conto di aver commesso una colossale idiozia. In mano aveva una cesta e nella suddetta c’era un gigantesco gatto, spelacchiato, guercio, con un orecchio smozzicato, che non appena mi vide iniziò a soffiare come un ossesso.
«Ed ecco spiegato che fine aveva fatto Amedeo…»
 
 
 
NdA:
Attenzione lettori, quello che sto per scrivere è molto importante. NON prendete come esempio Sofia, Serena ed Amedeo: sono ovviamente dei deficienti e niente di quel che combinano è da scegliere come modello d’intelligenza o genialità. Questa storia non è un’istigazione alle droghe e confido nella vostra capacità di saper riconoscere l’ironia. Nel caso non ne aveste, beh, adoro litigare coi moralisti, quindi fatevi vivi in tanti! Un abbraccio,
Il Circo Zen
   
 
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