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Autore: Ila_JL    29/02/2016    2 recensioni
Sguardi carichi di sentimenti ed emozioni non espresse.
Questo è stato per me "The 100" fino ad adesso.
Così ho sentito l'esigenza di provare a interpretare tutto il rapporto Clarke-Lexa. O per lo meno i loro pensieri da quando si sono incontrate.
Dal testo:
Mi giro a guardare i terrestri che mi hanno accompagnata e vedo subito gli occhi del comandante trovare i miei. Ma non prima che io possa scorgere lo sguardo che stava rivolgendo a quelli che erano i corpi dei suoi soldati.
Ancora quello sguardo, quello stesso sguardo rivolto alla treccia di Ania. Rammarico? Dolore? Senso di colpa?
Non ho molto tempo per farmi queste domande, infatti lo sguardo che rivolge a me è ancora più determinato a scoprire se sto mentendo. Vorrei tanto saperlo anche io.
“Di qua” dico semplicemente.
Ti porto via da questa scena dolorosa per entrambe. Ci porto a scoprire cosa ne sarà di noi.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Clarke Griffin, Lexa, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il Rubicone
 

Clarke
 
Sento il mio nome risuonare un’ennesima volta nell’altoparlante dell’arca.
Questa volta mi vogliono ai cancelli.
Sospiro e distolgo gli occhi dalla lavagna su cui Raven ha ricostruito la planimetria della montagna.
“Torno subito.” Dico alla ragazza mentre mi alzo.
Lei annuisce appena, senza sollevare gli occhi dalla cartina della diga che fornisce acqua a Mount Weather.
Esco dalla stanza e mi dirigo rapidamente all’esterno. Subito sento i passi del guerriero terrestre seguirmi.
Arrivati al cancello trovo Kane che mi aspetta, con un altro guerriero che riconosco come quello inviato a Lexa per riferirle delle foto di Mount Weather.
“Clarke – inizia Marcus – Rider è qui per consegnarti un messaggio dal comandante.”
Il terrestre, Rider, annuisce e comincia a parlare con voce profonda.
“Il comandate ha ricevuto le informazioni sugli uomini della montagna, mi manda a chiederti di partecipare alla riunione che si terrà stasera a TonDC, con i rappresentanti dei dodici clan per organizzare l’attacco.”
Annuisco, ma dentro di me sento un brivido di paura.
Non sono pronta.
È vero: Bellamy è dentro, ci ha contattati e sta facendo un ottimo lavoro.
Ma la nebbia acida è ancora funzionante, e ben lontana dall’essere disattivata. Non so come Raven e Wick siano messi con i segnalatori acustici.
Nonostante questo cerco di mantenere un’aria risoluta, mentre rispondo al terrestre.
“Bene, riferisci al comandante che ci sarò, e che l’infiltrato nella montagna si è messo in comunicazione con noi.”
Lui annuisce, ma non si sposta. Guarda un punto impreciso dietro le mie spalle, verso l’altro terrestre.
I due si scambiano qualche frase nella loro lingua, mentre io e Marcus li guardiamo in modo interrogativo.
Finito lo scambio di battute Rider si sposta verso di me, mentre l’altro guerriero si dirige verso il cancello, si gira e dopo avermi fatto un gesto di saluto esce dall’accampamento, sale sul cavallo di Rider e se ne va.
“Non siete di molte parole voi terrestri, giusto?” chiedo osservando il guerriero allontanarsi.
Rider mi guarda, e come a conferma delle mie parole dice soltanto:
“Ordini dell’Heda.” A mo’ di spiegazioni.
“Ordini dell’Heda. - Rispondo io, sospirando. – torniamo dentro, ci sono delle cose da fare.”
Appena muovo i primi passi per tornare dentro, noto che qualcosa nell’atteggiamento di Rider è diverso : cammina esattamente un passo dietro di me, senza curarsi del mio spazio personale che l’altro guerriero mi aveva garantito. Mi fermo di scatto e quasi mi travolge, abituato al mio passo rapido.
Mi volto a guardarlo con quello che penso sia uno sguardo minaccioso, ma non fa una piega.
Noto che stringe il pugnale che ha alla cintura e si guarda intorno come per assicurarsi che nessuno stia sfruttando la mia immobilità per uccidermi.
Scuoto la testa, rassegnata, e ricomincio a camminare.
Ordini dell’Heda.. Non posso discutere, vero Lexa?
Poi mi concentro su tutto quello che devo fare e sul poco tempo a mia disposizione.
E l’ansia torna ad assalirmi.
 
°°°
 
 
Lexa
 
Cammino agile nel sottobosco, il mio passo è così delicato che quasi io stessa non riesco a sentirlo nonostante la coltre di foglie secche che ricopre il terreno.
Al contrario percepisco bene il rumore di qualcuno che mi segue non troppo discretamente, nascosto dietro i cespugli alle mie spalle.
Sorrido e mi concedo un’occhiata anche se non ce n’è bisogno. So perfettamente di chi si tratta, riconoscerei il suo passo in mezzo a un esercito in marcia.
Percepisco il suo sospiro e il suo sbuffo divertito quando si accorge che l’ho già scoperta.
Tuttavia aumento la velocità del mio cammino, distanziandola,  fino a quando giungo alla mia meta: una piccola radura, inombrata dalle fronde degli alberi circostanti, dove solo pochi raggi di sole filtrano creando un gioco di luci continuo grazie alla brezza che smuove le foglie.
Ci sono centinaia di posti come questo, nella foresta, ma è qui che vengo dopo le giornate particolarmente pesanti, è qui che vengo per essere raggiunta dall’unica persona che può farmi dimenticare chi sono per alcuni brevi momenti di inestimabile valore.
Mi avvicino al mio solito albero e mi siedo, appoggiando la schiena contro il suo tronco.
Chiudo gli occhi e attendo di essere raggiunta.
Non devo aspettare molto, di nuovo sento la presenza di qualcuno vicino a me.
Continuo a tenere gli occhi chiusi, ma sento un sorriso nascere sul mio viso.
“Apri gli occhi, mio comandante.” Sento dire con una voce delicata dalla ragazza che ormai mi ha raggiunta.
So che è in piedi davanti a me, così vicina che se stendessi le gambe la potrei toccare.
So che mi sta guardando con gli occhi carichi di dolcezza e di affetto. Di amore.
Non voglio aprire i miei occhi e vederla come già mille volte ho fatto.
Vederla respirare, vederla sorridere, vederla guardarmi con il solito scintillio negli occhi. Vederla vivere.
Ma nello stesso tempo so che non riuscirò a resistere. È da così tanto tempo che non ho questa opportunità.
Sollevo lentamente le palpebre, lasciando che la luce penetri poco per volta e guardo finalmente la ragazza davanti a me. È come la ricordavo.
“Costia.” Dico soltanto e lei sorride come se avesse visto la cosa più bella del mondo.
Invece io smetto di sorridere e lascio che una smorfia di dolore solchi il mio viso.
Ripeto le mie battute, spinta da una forza superiore che non posso contrastare. So già come andrà a finire e per quanto io non lo voglia sono costretta a continuare.
“È stata una giornata tremenda, grazie al cielo è finita.” Dico con un sospiro, chiudendo gli occhi e scostandomi leggermente per permetterle di sedersi accanto a me.
Ma so già che questo posto rimarrà vuoto, che nessuna dolce e meravigliosa ragazza si stenderà di fianco a me appoggiandosi sul mio petto.
Se riuscissi a oppormi non aprirei gli occhi per nessuna ragione al mondo, ma non posso.
Sospiro un’ennesima volta, per farmi forza.
Apro gli occhi e osservo quella maledetta scatola di legno appoggiata sull’erba.
Sul coperchio, dipinto con una pittura nera, spicca il disegno di una mano con una spirale al posto del palmo. Il simbolo di Azgeda.
Mi alzo e mi avvicino solo perché so che questo sogno, questo incubo, finirà presto.
La mia coscienza mi tortura facendomi aprire quella scatola ogni maledetta volta prima che io possa svegliarmi e calmare il mio respiro, per poi fare finta che nulla di questo sia accaduto.
Afferro il coperchio senza sollevare la scatola dal suolo.
Voglio svegliarmi e tornare nel mondo dove posso controllare i miei pensieri e le mie azioni.
Così con un gesto deciso apro la scatola lasciandomi nauseare dal suo contenuto, ormai terribilmente familiare.
Ed è in questo momento che per la prima volta dopo anni, il mio incubo cambia, e diventa qualcosa di ancor più terribile.
Perché non sono capelli corvini e intrecciati, quelli che il mio sguardo osserva carico di orrore.
Non sono scuri e ardenti gli occhi spalancati che mi trovo davanti.
Mi allontano di scatto senza riuscire a distogliere lo sguardo da quegli occhi blu che ho potuto osservare negli ultimi giorni, da quei capelli biondi così insoliti sulla terra.
Un “No” strozzato esce dalla mia gola mentre osservo la testa di Clarke giacere in quella maledetta scatola.
 
Apro gli occhi di scatto, la bocca ancora semi aperta come se davvero avessi urlato l’ultima parola.
Il mio respiro è impazzito e so di doverlo contenere. So di dovermi calmare.
Osservo la stanza intorno a me, illuminata dalla tenue luce del mattino. Sono pareti quelle che mi circondano, non alberi.
È stato solo uno stupido incubo.
Ma sto mentendo a me stessa.
È cambiato e il mio inconscio mi ha mostrato quello che inutilmente ho cercato di sopprimere con la mia razionalità.
Ma una parte di me, abbastanza grande e fastidiosa, è terribilmente scocciata perché questo era l’incubo che mi ha accompagnata per tante notti, che non mi ha dato tregua per un lungo periodo e che, ora,  sporadicamente torna a farmi visita quando le mie difese calano.
È il mio incubo, mio e di Costia.
Nessuno doveva intromettersi, nessuno avrebbe dovuto mai prendere il suo posto.
Dovevano essere suoi gli occhi vacui e senza vita su quel viso martoriato.
Clarke non deve essere coinvolta, non in questa cosa.
Eppure se chiudo gli occhi l’immagine del suo viso è ancora impressa nella mia retina.
E del tutto incoerentemente sento un sentimento di vergogna e i sensi di colpa che mi assalgono.
Non posso permettere che Costa sia sostituita così, nemmeno nei miei incubi. Soprattutto in questi.
Prendo ancora dei  respiri profondi e sento il battito del mio cuore risuonare sempre meno nelle mie orecchie.
Cancello dalla mia testa tutte le immagini che ho visto, mi concentro e elimino ogni pensiero dalla mia mente finchè non sento di aver riottenuto il controllo su di essa e sul mio corpo.
Dopo di che, con gesti meccanici e routinari, scosto il lenzuolo, appoggio i piedi sul pavimento e mi preparo per affrontare questa giornata.
Come se nulla fosse successo.
Come sempre.
 
Il lato negativo di essere stata impegnata tutto il giorno, di aver cercato di concentrarsi disperatamente su qualcosa in modo da tenere sempre la mente occupata è che il tempo è scivolato via, come acqua tra le dita.
Ho girato come una trottola tutta la mattina, senza fermarmi mai. Ho addirittura contribuito a preparare la sala per il concilio dei dodici clan, posizionando attentamente, quasi maniacalmente, al centro del tavolo i disegni e le mappe della montagna lasciatemi da Clarke.
Solo per un momento sono stata riportata alla realtà, quando un guerriero che avevo mandato come scorta a Clarke è tornato da me comunicandomi che il ragazzo nella montagna era riuscito a mettersi in comunicazione con il popolo del cielo, iniziando la sua missione all’interno. Il guerriero mi ha anche assicurato che la delegazione dell’Arca sarebbe arrivata in serata, come tutti gli altri clan.
E per distrarmi da queste notizie ho pensato e ripensato al discorso da fare agli ambasciatori.
È solo quando il sole sta calando che i rappresentanti dei clan iniziano ad arrivare, alcuni tra i più socievoli si fermano e partecipano alle attività del villaggio, altri, invece, si recano subito nel luogo prescelto per la riunione, scortati dai miei generali.
Rimango in disparte, appoggiata al muro di un’abitazione, immersa nell’ombra, ancora una volta senza guardie con il fiato sul collo, e osservo tutto ciò che ci circonda.
Lo spirito del villaggio è stato influenzato dalla presenza della mia delegazione e dall’imminente concilio: tutto parla di guerra, ormai.
I fabbri sono al lavoro sulle porte delle abitazioni, creando giochi di luci con le scintille del metallo incandescente, mentre affilano o forgiano nuove armi.
Vedo Indra, alle porte del villaggio, che istruisce e spiega a Octavia cosa sta succedendo, cosa l’aspetta e, forse, cosa ha permesso di arrivare fino a questo punto. Tutto quello che è stato fatto per ottenere questa coalizione.
Così quando la vedo irrigidirsi, al suono di un corno, indicando un punto davanti a sé, so già cosa sto per vedere.
La delegazione di Azgeda fa il suo ingresso nel villaggio, l’ambasciatore, a cavallo di un maestoso animale dal manto bianco, è il primo ad entrare, seguito dagli uomini a piedi che sostengono lo stendardo con il loro simbolo. Simbolo terribilmente familiare per me.
Cerco di non pensare che l’ultima volta che ho visto dei guerrieri della regione dei Ghiacci eravamo ancora in guerra, cerco di non pensare agli occhi di ghiaccio della loro regina che mi guardavano con disprezzo e divertimento quando ho accettato di inserirli nella coalizione nonostante il desiderio di vendicare Costia bruciasse nelle mie vene come fuoco ardente.
Scaccio questi pensieri dalla testa mentre sento il corno suonare ancora, annunciando l’arrivo di un’altra delegazione.
“Skycru” sento risuonare tra la popolazione del villaggio, e mi preparo ad affrontare quello che temo da quando ho organizzato questo concilio.
Dobbiamo affrontare i nostri doveri, Clarke, per quanto questi possano spaventarci.
Spero che tu sia pronta, perché io lo sono. Sono pronta a rivederti e a organizzare questa battaglia.
 
Ma lei non c’è.
È Marcus che varca i cancelli, salutando Indra e Octavia. Scambia qualche parola con loro e vedo il mio generale girarsi e indicarmi. Lui annuisce e comincia a venire verso di me.
Sospiro, mentre mi allontano dal muro che mi ha sostenuto fino ad ora.
Mi allontano anche dai miei pensieri, perché non sapere se provo più sollievo o più dispiacere nel non vederti qui, mi lascia una strana confusione.
E io odio la confusione.
Mi posiziono al centro della piazza, il posto che avrei dovuto occupare sin dal principio.
Marcus mi sorride, giungendo al mio fianco.
In ogni caso sono contenta che sia venuto lui, c’è una strana comprensione reciproca e rispetto tra noi.
“Comandante – mi saluta lui – Clarke si scusa per la sua assenza, la situazione a Mount Weather è un po’ tesa e ha preferito rimanere vicino alla radio per mantenersi in comunicazione.”
Io annuisco soltanto, i suoi amici hanno bisogno di lei.
“Dovrete accontentarvi di me” conclude l’uomo con un sorrisetto.
Io lo osservo divertita, prima di rispondergli nello stesso tono leggero.
“Lo faremo.” E lo vedo annuire.
Stiamo un po’ in silenzio mentre attendiamo che giunga l’ora del concilio, ed è lui il primo a parlare.
“Sai, Comandante, credo Clarke abbia apprezzato la presenza dei tuoi guerrieri nel nostro accampamento.”
Lo osservo e vedo che guarda un punto davanti a sé con l’ombra di un sorriso sul volto, come se stesse richiamando alla mente qualcosa che lo ha divertito.
Io lo guardo in modo interrogativo finchè non si gira verso di me e dopo aver osservato il mio sguardo scettico si spiega meglio.
“Diciamo solo che ha sfruttato la loro presenza al campo. Ha sperimentato il potere. – dice mimando delle virgolette in aria – è andata contro tutti e tutto pur di fare quello che voleva. Vederla guidare un gruppo di terrestri armati fino ai denti anche contro le guardie dell’arca e la sua stessa madre è stato un bel colpo.
Specialmente se penso che è la stessa bambina che sull’arca vedevo disegnare concentrata con le guance sporche di carboncino.”
Le sue parole mi stupiscono.
Non solo per il significato, ma anche per il tono che ha usato.
Soprattutto l’ultima frase, sussurrata come se fosse rivolta a se stesso e non a me, con uno sguardo triste che ha sostituito il sorriso divertito di prima, come se fosse un ricordo doloroso, ma per quello che è seguito. E nasce in me un po’ di curiosità sulle loro vite prima di arrivare sulla terra.
Ma non è questo il momento e non so neanche se arriverà mai.
“Cos’è successo con i miei uomini?” chiedo invece con tono indifferente.
Marcus si riscuote dai suoi pensieri e torna a guardarmi.
“Clarke ha deciso di liberare Emerson, l’uomo della montagna che avevano catturato e curato. Voleva mandare un messaggio a Mount Weather, per creare un diversivo e cercare di tenere l’attenzione lontana da Bellamy.” Mi spiega, e si ferma un istante prima di ricominciare.
“Non avrebbe parlato, in ogni caso, è un militare, era più che addestrato a non rispondere.”
Io annuisco, non contesto le decisioni di Clarke, e le ho lasciato alcuni uomini proprio per questo motivo.
“La missione di Bellamy continua, dunque?” chiedo io.
“A quanto pare sì. Clarke mi ha solo accennato che è aiutato da una ragazza che ha conosciuto i nostri. Questa è un’ottima notizia, ma qualcosa è cambiato, i nostri ragazzi sono ancor più in pericolo. Clarke è rimasta a Camp Jaha per questo motivo.” Conclude lui.
Io annuisco appena.
“È quasi ora. – dico io, dopo un po’ – almeno possiamo dire ai generali che l’infiltrato è vivo e in comunicazione. È già un ottimo risultato.”
Sento un po’ di trambusto in fondo alla via davanti a noi.
I miei sensi si acuiscono, finchè con un’espressione di sorpresa vedo proprio Clarke che si avvicina velocemente, con Octavia al suo fianco che la guarda confusa e Rider proprio dietro di loro.
La vedo avvicinarsi con passi lunghi e decisi e capisco che è successo qualcosa.
E qualcosa succede anche dentro di me, perché di nuovo non riesco a capire quale emozione prevale dentro di me.
Sono contenta e insieme angosciata nel vederla qui. Vorrei urlarle di tornare indietro, di non entrare nella stanza del concilio, ma allo stesso tempo sento le mie spalle rilassarsi man mano che si avvicina.
So che dovrei essere solo soddisfatta del fatto che potrà informare i generali e gli ambasciatori dei progressi del suo piano, e provo a concentrarmi solo su questo aspetto, facendo finta di non sentire nient’altro.
Ma le parole che sfuggono dalla mia bocca stupiscono anche me.
“Clarke del popolo del cielo ci ha onorato della sua presenza.”
Schernire non è segno di una mente forte.
Le mie stesse parole mi risuonano nella mente, ma le metto a tacere subito.
Anche perché la ragazza davanti a me è evidentemente concentrata su qualcosa di molto più importante.
“Perdona il ritardo, comandante.” Mi dice solo, guardandomi con occhi che vedo essere tormentati.
È Marcus a rispondere al mio posto.
“Sei arrivata in tempo, presumo che a Mount Weather stiano bene.”
Lei lo guarda e vedo il suo sguardo incupirsi ancora di più.
“Per ora – risponde secca, poi si gira verso di me – possiamo parlare in privato?”
C’è urgenza nelle sue parole.
La studio un istante.
“Sì – le rispondo – da questa parte.” E faccio strada.
Rider è dietro di noi, ma quando le faccio segno di entrare nell’edificio che ho occupato in questi giorni lei si ferma e lo guarda.
“Puoi andare, Rider – gli dice – grazie”
Ma il guerriero non si sposta, ma si rivolge a me. Io annuisco appena e il guerriero si volta.
“Entriamo” dico.
Dopo aver chiuso la porta alle nostre spalle mi volto a guardarla.
È tormentata e si appoggia con le braccia al tavolo al centro della stanza prendendo dei respiri profondi.
“Dimmi.” Le dico semplicemente.
Lei mi guarda e annuisce appena.
“Loro lo sanno.” Esordisce, e io la guardo in attesa che si spieghi.
Dopo un altro respiro profondo, come se fosse in conflitto con se stessa riprende.
“Bellamy è dentro, comunica con noi con una radio e poco fa ha sentito Kane, il presidente, e Emerson che discutevano. Sanno dell’incontro con i rappresentanti dei clan. Non so come sia possibile, probabilmente hanno informatori ovunque, lo sanno e stanno per attaccare. Con un missile.”
Aspetto che le parole assumano significato nella mia mente.
Quando ciò avviene sgrano gli occhi. Mi avvicino, fronteggiandola. Non posso permettermi di agitarmi
Quando arrivo esattamente davanti a lei parlo.
“Un missile? Sei sicura?” Chiedo sperando vanamente che la risposta sia un no.
Ma ovviamente non è così.
“Sì – mi risponde subito, con il panico nello sguardo – dobbiamo iniziare l’evacuazione, ora.”
Contengo lo sconforto. Vorrei davvero poter annuire, uscire, cominciare a dare ordini a tutti per andare il più lontano e il più velocemente via da qui. Mettere in salvo tutte le famiglie che ho conosciuto in questi giorni, tutti i guerrieri che si preparano a combattere. Ma non posso.
“No.” Dico guardandola seriamente.
Lei è sconvolta, ma riesco a vedere nel profondo dei suoi occhi che se lo aspettava, ma continua come se non potesse permettersi di pensare a questa possibilità.
“Che vuol dire no, Lexa?”
Lo sai benissimo, ma hai bisogno di sentirlo dire ad alta voce. Così lo faccio.
“Se ce ne andiamo tutti capiranno che c’è una spia tra loro.” Sentenzio.
Ma tu non vuoi arrenderti all’evidenza, eppure io riesco a vedere la consapevolezza che si cela dietro ai tuoi occhi. E so che la maggior parte della disperazione che provi è proprio causata dal fatto che sai già qual è la cosa migliore da fare.
“Non necessariamente.”
E vorrei crederti, vorrei davvero.
“Non possiamo rischiare” dico, invece.
E mi volto. Devo rimanere lucida.
Ma lei mi viene dietro e continua imperterrita.
“A che serve avere un infiltrato se non possiamo agire in base a quello che ci dice?”
Devo riportarla alla realtà, e lo faccio usando il tono più duro che riesco a trovare.
“La nebbia acida è stata disattivata? Il nostro esercito liberato?” incalzo e non distolgo gli occhi dai suoi, fino a quando la vedo abbassare lo sguardo e scuotere millimetricamente il capo.
“Allora il compito di Bellamy non è finito.  Senza di lui non possiamo vincere questa guerra.”
Lei lo sa, lo sa benissimo, ho quasi ripetuto le stesse parole che ha usato lei per convincere me e i miei uomini.
Lei ha creduto e portato avanti questo piano per prima.
Lei sa che ho ragione.
Ma non vuole pensare alle conseguenze.
“E quindi che stai dicendo? Di non fare niente? Di lasciarci bombardare?”
Io distolgo lo sguardo e mi sposto verso il tavolo.
Cerco di pensare a come possono essere limitati i danni.
Morirà tanta gente, ma forse potremo ancora vincere la guerra.
L’esercito non è a TonDC, e mi si stringe il cuore al pensiero che quelli che pagheranno le conseguenze delle mie scelte saranno innocenti, per la maggior parte. Le famiglie che vivono nel villaggio, i bambini che ho visto in questi giorni.
“Ci sarà un’esplosione – dico scacciando queste immagini – l’esercito sarà al sicuro nella foresta, e questo li ispirerà.”
Ed è tremendamente vero. Posso già immaginare la rabbia che proveranno i miei uomini, la sto provando io stessa in questo momento.
Mi aspetto che ribatta qualcosa, che mi dia del mostro, della selvaggia.
Invece quando mi si avvicina mi stupisce di nuovo.
“E non pensi a noi?” quasi sussurra.
Ci penso, e c’è solo una cosa che possiamo fare.
Vorrei non doverlo dire, ma non posso.
“Noi andiamo via. Adesso.” E mi volto a guardarla.
Mi odio perché sto scappando. Mi odio perché sto condannando a morte la mia gente, consapevolmente.
Vorrei per lo meno poter condividere questo destino con loro, ma se morissi qui, adesso, tutto finirebbe e nulla di ciò che è stato fatto avrebbe un senso. Perderemmo l’occasione di liberarci definitivamente di coloro che sono stati una piaga per il mio popolo da decenni.
Se rimanessimo qui anche Clarke pagherebbe con la sua stessa vita.
Clarke, che ora è rimasta congelata al suo posto, senza più aprir bocca.
Io, invece, comincio a muovermi.
Abbiamo i minuti contati. Afferro dei copricapi posti sulla sedia della mia stanza.
Gliene porgo uno.
“Metti questo” le dico mentre mi sposto verso l’uscita secondaria.
E lei finalmente si sblocca, mi raggiunge.
“Aspetta Lexa, forse non hai capito. – ci riprova, perché non riesce a rassegnarsi all’idea che tante vite umane siano spezzate. Vorrei poterlo fare anche io. – Io ho provocato Mount Weather, ho mandato un messaggio per distrarli da Bellamy.” E lo sento il sentimento di colpa che sta provando.
Ma non è questo il momento. Siamo in guerra, il senso di colpa non porta da nessuna parte.
“A volte devi perdere una battaglia per vincere una guerra.” Dico ferma.
Capisci, Clarke, per favore. Non abbiamo scelta.
“No! – esclama invece lei, il tono venato di disperazione – Possiamo informare i leader di ogni clan, scegliere un punto di incontro nella foresta. Ciascuno può andare via separatamente.”
La guardo, la capisco. Ma non posso.
“E quante persone avvertiranno? Qual è il limite Clarke?”
La sto portando al punto di rottura.
“Allora annulla l’incontro! Accendi un fuoco. Fa qualcosa!”
Urla sul finale, e so di averla delusa perché è venuta da me chiedendomi di evitare l’inevitabile.
Di trovare una soluzione che non può essere trovata.
Di non condannare a morte un intero villaggio a causa della nostra presenza qui.
E io non posso fare niente di tutto questo.
Mi volto di nuovo.
“Non abbiamo tempo per questo.” Dico camminando verso l’uscita.
“No!” urla di nuovo lei, si avvicina e questa volta mi afferra il braccio.
Mi fa ruotare violentemente, incatena il suo sguardo al mio.
Non ricordo quand’è stata l’ultima volta che qualcuno mi ha tenuto testa in questo modo, che qualcuno abbia cercato di dissuadermi dalle mie decisioni con questa veemenza.
“È sbagliato.” Dice convinta.
E so che dirlo le serve per capire che non ha voluto lei questa situazione, che non vuole abbandonare queste persone. Che non vuole farsene una ragione.
Potrà anche essere sbagliato. Ma è la guerra.
Così mi avvicino anche io, perché ho bisogno che capisca.
Puoi continuare a sostenere la tua posizione testardamente, Clarke. So che ti fa stare meglio, credere di poterti opporre. Ripetere che stiamo facendo un errore. Ma in questo modo costringi me a prendere questa decisione.
Se tu continui a dire no, sta a me dire sì. Perché sappiamo entrambe che non abbiamo altra scelta.
Ma posso farlo. Posso farmi carico io di questa decisione, puoi continuare a mentire a te stessa, potrai dire che sono stata io, se questo ti aiuta.
Ma, nel profondo, tu sai anche meglio di me qual è la verità. 
“Ed è anche la nostra unica scelta, e tu lo sai bene – le dico dura, scandendo ogni singola parola – potevi avvisare tutti lì, ma non l’hai fatto. Non hai detto niente, nemmeno ai tuoi amici.”
La vedo abbassare lo sguardo, la consapevolezza farsi sempre più strada dentro lei.
Addolcisco il tono e torna a guardarmi.
“Questa è una guerra, la gente muore. Hai mostrato vera forza oggi. Non lasciarti fermare dalle emozioni.”
Chiude gli occhi, come se stesse lottando contro se stessa per accettare le mie parole.
Quando li riapre capisco che è pronta.
“È ora di andare.” Dico e la precedo fuori, salendo le scale.
Percepisco che non si è ancora mossa e trattengo il fiato mentre avanzo imperterrita.
Cerco di non pensare a cosa dovrei fare se decidesse di rimanere dentro e condividere il destino di morte delle persone del villaggio. Cerco di mantenere la calma, finchè non sento dei passi dietro di me e lascio fuoriuscire l’aria che ho trattenuto.
La aspetto e la guardo, cercando di trasmettere una forza e una convinzione che fingo di avere.
Annuisco appena, prima di aprire la porta e camminare a passo svelto verso il bosco dall’altra parte della strada.
Nessuno ci nota, mentre sistemiamo la stoffa in modo che copra i nostri volti.
Ci immergiamo nel bosco e camminiamo.
Mi chiedo se farle sapere che neanche io prendo questa decisione a cuor leggero possa farla stare meglio.
Vorrei dirle che se potessi avviserei tutti, urlerei a loro di scappare lontano da qui, lontano da me.
Eppure non posso farlo, e non posso nemmeno dirglielo perché temo che tornerebbe indietro.
E io credo che la seguirei.
Così cammino silenziosa e velocemente nel bosco, con lei pochi passi dietro di me.
So cosa sta pensando, ma non possiamo farci nulla. Dobbiamo farcene una ragione.
Il sole cala  e il bosco si fa sempre più buio.
Le luci del fuoco brillano nel villaggio, dove risuonano parole, voci, vita.
E io so che non rimarrà nulla di tutto questo.
Sembra che i suoi pensieri siano in linea con i miei perché sento che si ferma di nuovo lanciando uno sguardo disperato verso il villaggio.
Sospiro.
“Non possiamo fermarci, non siamo abbastanza lontano.”
Non so se quello che sto dicendo è vero, si sanno solo leggende riguardo ai missili di Mount Weather e io sono cresciuta con questi racconti, mi sono stati raccontati sin da quando ero una bambina e non posso fare a meno di esserne spaventata.
“L’ultima volta che hanno usato un missile è stato prima che nascessi. Secondo la leggenda ha lasciato un buco nella foresta di cui non si vedeva la fine. Dobbiamo andare.” Le dico con urgenza.
Ma lei rimane ferma.
“E se mancassero il bersaglio?” dice.
“Tu non stai ascoltando – la interrompo – con un’arma del genere non puoi mancarlo.”
“Sì che puoi – dice convinta – li ho sentiti parlare di uno spotter, qualcuno che stava puntando il missile. Se riuscissimo a trovarlo –“
Si ferma, sgrana gli occhi paralizzata dal terrore.
Un “no” strozzato esce dalla sua bocca. “Cosa ci fa qui?”
Seguo il suo sguardo e incontro la figura di sua madre che cammina per le vie di TonDC.
So che l’ho persa.
“Clarke, non puoi tornare indietro.” Dico, ma senza convinzione.
So che lo farà. Ormai lo conosco. Forse lo farei anche io.
Ma io sono il comandante, non posso pensare alle emozioni.
Si allontana da me, avvicinandosi al villaggio.
“Clarke.” Provo a richiamarla, ma ormai è lontana.
Rimango al limitare del bosco mentre la osservo avvicinarsi al villaggio e afferrare sua madre.
Sono completamente paralizzata.
Il mio dovere mi spinge a muovermi ancora più lontano, a voltare le spalle al villaggio e a tutti i suoi abitanti. Alla mia gente. E a Clarke. Di sacrificarli in vista di un obiettivo più grande.
Mentre ogni fibra del mio corpo mi urla di correre nella direzione opposta, di gridare a tutti di scappare, di implorare Clarke di tornare nel bosco e mettersi in salvo.
Così non muovo un muscolo, tirata in egual misura in due direzioni diverse.
Vedo Clarke convincere sua madre a seguirla mentre penso che ormai sia troppo tardi, siamo troppo vicini.
Sento il rumore, prima di vedere la scia luminosa nel cielo.
Chiudo gli occhi ma poi mi sento una vigliacca.
Li riapro. Non posso far finta di non vedere ciò a cui ho condannato il mio popolo.
Devo accettare la mia decisione e rendere onore a tutta questa gente, affrontando questa situazione ad occhi aperti.
Così mi volto verso il villaggio e mi sforzo di non chiuderli neanche quando l’esplosione arriva, terribile.
Sono ancora aperti quando il boato mi arriva alle orecchie, quando la luce del fuoco illumina la scena e quando l’onda d’urto mi solleva letteralmente scagliandomi indietro nel sottobosco.
Il fischio che sento nelle mie orecchie non copre le urla e i lamenti che si sono alzati immediatamente.
Lascio che le grida di dolore penetrino nel mio corpo, con la consapevolezza che ne sono io la causa.
Chiudo gli occhi e sento distintamente una parte di me che si sgretola sotto tutto questo dolore.

 
°°°
 
Clarke
 
Hai superato il limite, hai le mani sporche del loro sangue e anche se vinceremo ho paura che non potrai lavarlo via stavolta.
Le parole di mia madre mi rimbombano nella testa mentre lascio che tutto quello che vedo mi colpisca nel profondo creando in me la consapevolezza che sono stata io la causa di tutto questo.
La sento crescere, la lascio crescere e divorarmi all’interno.
Non importa il fatto che abbia cercato di dissuadere Lexa, che abbia cercato delle alternative.
Lei ha saputo guardare in faccia la realtà. Lei lo sapeva, e lo sapevo anche io.
Così ora guardo il villaggio in fiamme, con il vuoto nel cuore.

 
 
 
NOTES:
Sono un po’ in ritardo, scusate.
Anche questo capitolo non mi entusiasma, l’ho riletto più volte e modificato, e mi piaceva sempre meno, così ho deciso di pubblicarlo così e mettermi l’anima in pace.
Spero che non sia troppo banale e scontato, specialmente la parte del sogno di Lexa.
Sono disponibile per qualsiasi critica!
Ringrazio chi legge e le ragazze che hanno recensito gli scorsi capitoli.. Grazie davvero di cuore.
A presto, spero,
Ilaria
  
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